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"Ho paura che sfugga la mia giovinezza"
Parigi, 9 febbraio 1971. Il fervore rivoluzionario dei ragazzi del "Maggio francese" è ormai solo un ricordo che comincia a sbiadire nel tempo. Ragazzi che avevano creduto veramente alla possibilità di scardinare il sistema, cambiare i rapporti tra gli uomini, le classi e i sessi, instaurare l'uguaglianza, la solidarietà, la pace; che avevano creduto che il male della terra non sarebbe esistito per sempre ma che poteva essere eliminato; che la malvagità dipendeva da una società sbagliata e che anzi era giunto il momento di eliminare dal mondo la catena dell'egoismo.
Sopravvivono ancora gruppi di giovani nostalgici dei sogni e delle utopie del '68, totalmente critici verso la società e il mondo, che sperano ancora di fare la rivoluzione, o almeno la sognano... e contestano. Contestano la ricchezza dei genitori, contestano l'autoritarismo degli insegnanti, contestano i modelli tradizionali di vita imposti dalla politica, dalla religione, dalla società, dalla cultura e dalla scuola. Perseguono valori egalitari, anti-borghesi, anti-autoritari, anti-militaristi. Rivendicano maggiore libertà, la piena uguaglianza tra i sessi, un radicale cambiamento delle abitudini sessuali... e la libertà di pensare.
E soprattutto cercano di colmare il vuoto lasciato dalla generazione precedente, che aveva fatto dissolvere la spinta propulsiva del maggio parigino. Una generazione, quindi, coinvolta nel movimento creativo che all'epoca interessò l'arte, la musica e il cinema.
Una generazione alla continua ricerca di coerenza e libertà, con tanti sogni e anche qualche illusione.
Sogni che oggi non siamo più in grado di fare, o forse non ne abbiamo le capacità.
Il 9 febbraio 1971, gruppi di giovani idealisti del "Soccorso Rosso", che sognano di continuare quella rivoluzione culturale che all'epoca non avevano potuto fare per motivi anagrafici, in Place de Clinchy, inscenano una manifestazione di protesta a sostegno di due militanti carcerati della Sinistra Proletaria, che richiedono lo status di prigionieri politici.
Bloccata dalla polizia, che assume un atteggiamento drastico e violento, la manifestazione degenera rapidamente, con i poliziotti del "Corpo Speciale" che sparano lacrimogeni ad altezza d'uomo, uno dei quali ferisce gravemente un manifestante, che riporterà danni irreversibili.
Sono tempi di aspri scontri e di rigorosi confronti.
Poco lontano, in un liceo di periferia, un gruppo di giovani attivisti di sinistra vive l'onda lunga di un vitalismo irrefrenabile, in cui fibrillano tutte le possibilità e i sogni, in cui si è aperti a tutte le esperienze, in cui si è certi che la rivoluzione sia necessaria e che l'anarchia sia l'unica risposta capace di cambiare il mondo e le idee. Sono figli del '68, ma anche figli della generazione successiva: ragazzi che la rivoluzione l'hanno solo sentita raccontare; quelli del "dopo maggio" - "Après mai" (come recita il titolo originale).
Ragazzi che tra esitazioni, radicalità, controcultura, musica underground e tentazioni d'esilio, sognano la rivoluzione e un "maggio '68" riuscito. "Anche se sappiamo bene tutti che non è andata affatto in questo modo", come dice l'autore.
Ragazzi che godono della rivoluzione sessuale (quella sì pienamente raggiunta), fumano spinelli, organizzano proteste, sognano l'Oriente e portano avanti la lotta della sinistra contro la borghesia e le sue imposizioni socioculturali.
Ragazzi che conosceranno il sesso, la droga, l'aborto clandestino e l'ambiguità di incontri fortuiti e indefinibili, totalmente critici verso la società e il mondo adulto, che agitano la scuola con assemblee, ingenui raid notturni per scrivere slogan e affiggere manifesti sui muri e che ciclostilano giornali rivoluzionari contro l'ordine precostituito e la repressione sessuale.
Tra loro si distingue un diciassettenne, Gilles (alter ego di Olivier Assays?), un liceale legato ai movimenti di sinistra che coltiva l'amore per una sua compagna di classe, Laure, con cui condivide la passione per l'arte ed è lei la sua più sincera critica dei suoi primi tentativi pittorici, e con un padre, sceneggiatore cinematografico, tremendamente borghese e arrivista, nell'ottica dei 'duri e puri' adolescenti.
Nel corso di un'azione dimostrativa di graffitaggio sulle pareti della scuola, feriscono gravemente un custode notturno dell'istituto, mettendo così in discussione la loro libertà.
E così, mentre un gruppo viene indagato, gli altri sono costretti a lasciare momentaneamente Parigi e portarsi in Toscana, presso i compagni italiani, con Gilles che nel frattempo ha una nuova ragazza, Christine (Gilles e Christine, gli stessi nomi dei due personaggi principali di "L'eau froide")
Qui, cominciano a svilupparsi le prime frizioni ideologiche riguardo la dialettica interna al gruppo rivoluzionario, per via che Gilles non riesce a capire il senso dei film agitprop proiettati nelle piazze delle città toscane, a documentare le lotte operaie e contadine contro il capitalismo europeo.
Il ragazzo viene così accusato di essere lontano dal movimento politico, il che, mentre gli altri si portano fino in Calabria, lo spinge a far ritorno a Parigi per entrare nell'Accademia di Belle Arti, dove, pur non abiurando ai suoi ideali, accetta di lavorare nel cinema, a Londra, come oscuro apprendista per film non sperimentali, non militanti, non rivoluzionari, imparando a rivestire le proprie tensioni delle necessità di cui ha bisogno: l'arte, prima incarnata dalla pittura e poi risolta definitivamente nel cinema.
Con "Qualcosa nell'aria" ("Après mai") il regista francese Olivier Assayas colloca il suo film nello stesso spazio temporale già visitato da Bernardo Bertolucci ("The Dreamers - I sognatori") e Philippe Garrell ("Les amants reguliers").
Però il suo non è l'ennesimo film sul '68, anche se del '68 e della sua iconografia non manca assolutamente nulla: le molotov, le bombolette spray, gli attacchinaggi notturni, le lezioni su Max Stirner, le borse a tracolla, gli spinelli, l'eroina, gli striscioni con la scritta "Ribellarsi è giusto":
Non è l'ennesimo film sul '68, non solo almeno, quanto piuttosto un ritratto autobiografico (anche se Assayas non crede molto nell'autobiografia nel cinema: "Tutto è autobiografico e niente lo è, per certi versi", precisa il regista.) con cui Assayas rievoca la sua gioventù e le vicende di quegli anni, che fanno da sfondo storico ad una delle contestazioni giovanili che non ha più avuto eguali e che si è persa, forse, perché si è voluto ingabbiarla in dogmi e strutture che l' hanno denaturalizzata; e poi perché parla non del '68, ma di quello che è accaduto "après mai", negli anni immediatamente successivi alla "rivoluzione culturale", quando ancora parole come politica e militanza avevano un senso e costituivano i sogni, le speranze, le illusioni e anche i timori delle giovani generazioni degli anni '70, impegnate nella ricerca della loro dimensione, e di conseguenza della loro identità.
Una generazione che ha pagato un tributo molto pesante in fatto di sentimenti, sessualità e idealità.
La vicenda raccontata da Assayas prende il tono e il linguaggio della recriminazione, tipici di chi racconta gli anni della giovinezza, un misto di nostalgia e di sensi di colpa per tutto ciò che è stato, che avrebbe potuto essere e che è stato impedito. Il regista francese, che già in passato aveva raccontato parte della sua adolescenza in "L'eau froide", sull'onda dei ricordi si lascia trasportare dalla musica, dalle letture, dalle sensazioni, dalle illusioni di quegli anni. Il linguaggio è post-sessantottino, le discussioni ruotano attorno a temi fondamentali come il lavoro, la politica, la classe operaia; ma si discuteva anche di filosofia, di arte e di sociale, tutti insieme, senza limiti di età e di cultura. I viaggi, il bisogno di esplorare nuovi mondi, lo studio, le canzoni, il lavoro, l'impegno, la controcultura, la liberazione sessuale, la psichedelica si fondono e si confondono in una narrazione che non segue un percorso lineare, quanto piuttosto un fluire di vita, dove trovano posto indecisioni e suggestioni esotiche; pulsioni creative e perplessità ideologiche.
Emblematica è, a questo riguardo, la scena in cui, durante un cineforum estivo nella piazza di un paese toscano in cui si proietta un documentario sulla resistenza nel Laos, un militante contesta il linguaggio troppo classico in un film che vorrebbe essere rivoluzionario.
Altrettanto emblematica nella sua essenzialità la risposta dei compagni: "i film devono educare lo spettatore e un linguaggio troppo specialistico rischia di farlo assurgere a puro spettacolo di divertimento per un pubblico piccolo-borghese".
Una frase tipica di quel tempo ma ancora di grande attualità.
Il film poi è anche la cronaca dell'educazione sentimentale di Gilles e dei suoi compagni, con amori che hanno preso una dimensione erotica, senza ombra alcuna di intimismo, mentre il sesso per loro è solo altra fonte di confusione.
Mentre i fratelli più grandi, quelli del '68, fanno la morale a un gruppo di ragazzini le cui idee su trotzkismo e maoismo spesso sono solo superficialmente radicate; e la cui volontà di cambiare il mondo cammina di pari passo con l'illusione di non cambiare mai idea.
A questo si aggiunge il fatto che "Qualcosa nell'aria" è un piccolo compendio di citazioni culturali, che partono da Blaise Pascal e finiscono a Max Stirner, senza scordare il Simon Leys di "Gli abiti nuovi del Presidente Mao", il libro che è un po' il vangelo che instilla il primo dubbio nelle certezze di Gilles; che poi erano le certezze di Assayas, per cui, per usare le parole del regista: "avevano un valore simbolico solo il rifiuto del mondo, la marginalità, l'impegno totale, per una generazione, quella del post '68, che ha cercato di restituire dignità al fuoco della contestazione".
Da qui l'ossessiva presenza del fuoco, rappresentato anche figurativamente attraverso il fuoco delle molotov, dei falò, delle candele, delle sigarette.
Olivier Assayas parla allo spettatore come ad un amico con cui si vuol condividere qualcosa che si è amato. Ogni dettaglio di quel tempo irreplicabile è ricostruito con estrema cura, dalla free press alla letteratura underground, dal cinema sperimentale alla musica (la vera musica della sinistra estrema non era il rock ma il free jazz, ricorda Assayas), dai libri alle filosofie orientali.
"E intanto", dice il regista, "ci sono troppi fraintendimenti su quel periodo, che spesso viene ricordato solo per la sua estetica, la moda poveristica (i pantaloni a zampa e le gonne a fiori), le canzoni (stupenda la colonna sonora, da veri cultori della materia, da Frank Zappa a Syd Barret, Soft Machine, Nick Drake, Incredible String Band, e altri), la droga."
"Io vorrei", continua l'autore, "che i giovani di oggi capissero la complessità, l'entusiasmo, i tanti vicolo ciechi che portarono poi al ritorno all'ordine o al terrorismo, e soprattutto come le nostre vite fossero impregnate di politica, di cultura, di libri, di arte; come per noi contassero le idee e il nostro linguaggio quotidiano comprendesse Marcuse o Deleuze, il marxismo e Mao; e le nostre giornate il dibattito, la riflessione, l'assemblea, lo scontro con la polizia, il volantinaggio, il ciclostile, la cancellazione degli adulti".
In tutto ciò il ruolo delle donne, alla faccia della tanto sbandierata parità dei sessi, è marginale e secondario e anche subalterno a quello dei maschi, mentre questi, in piena autonomia, "decidono il futuro del mondo", le donne rivoluzionarie per conquistarsi una posizione hanno bisogno di appoggiarsi ad un uomo, o peggio, ad un fidanzato; e poi c'è da girare il ciclostile, fare la spesa, preparare da mangiare, lavare i piatti.
Hai voglia ad essere progressista, ma quando si tratta di lavori domestici, tocca sempre a loro, alle donne.
Per questo poi nascono i collettivi femministi.
Poi a un tratto si cresce e si diventa adulti e chi non è passato in clandestinità capisce che è l'ora di rientrare nei ranghi e prendere vari percorsi di vita adulta. Chi diventerà regista, chi prenderà a viaggiare, chi propenderà per la formazione accademica, chi troverà conveniente rintanarsi in un rassicurante lavoro borghese. Gilles è Olivier Assayas.
È sua la natura ambivalente delle sue passioni che muovono la sua vita: l'arte e la politica. Le stesse due donne in cui si scindono le sue prime esperienze sessuali metaforicamente rappresentano l'una l'arte (Christine), la seconda la politica (Laure) e servono al regista da stimolo per ragionare sulla rilevanza che avevano a quel tempo, questi due elementi.
Il regista attraverso Gilles vuole ricostruire la sua adolescenza, ed è evidente che parlando di lui parli di se stesso e della sua gioventù. Così come Pascal parlava della sua vita: "tra noi e l'Inferno o tra noi e il cielo c'è solo la vita, che è la cosa più fragile del mondo."
Film di formazione, come rivela questa frase, "Qualcosa nell'aria" è un'opera squisitamente intellettuale, molto intima e molto sentita; girata prevalentemente in esterno, con una sovrabbondanza di colori pastello volutamente sbiaditi e un'oscurità che pervade gran parte delle scene, come a voler riprodurre le inquietudini e la malinconia, le delusioni e i ripensamenti dei protagonisti, anche se addolciti dal grande attaccamento per la vita. Attaccamento esplicitato allusivamente dalla luce intensa dell'ultima scena, quando Gilles si allontana prima dei titoli finali.
Clément Métayer, Lola Créton, Carole Combes, Felix Armand, Mathias Renou e India Manuez prestano i loro volti rispettivamente a Gilles, Christine, Laure, Alain, Vincent e Leslie.
Sono ragazzi di oggi che sullo schermo proiettano l'anelito che muoveva i loro coetanei che negli anni '70 cercavano nuovi spazi espressivi e si sentivano in dovere di guardare il mondo con gli occhi della fantasia.
Ma erano giovani ed erano in buona fede, e ai giovani è permesso sognare.
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Recensione a cura di Mimmot - aggiornata al 22/01/2013 11.32.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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