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"Io... ti porto con me... Andiamo."
Andiamo, R.P. McMurphy, andiamo verso la vita, verso la speranza.
Lontano da questo posto, dove si consuma la peggiore, la più disumana delle follie, quella di chi i folli dovrebbe guarirli.
"Qualcuno volò sul nido del cuculo" è la storia (basata sul romanzo firmato da Ken Kesey) di uno stravagante e impenitente teppistello, indossato da Jack Nicholson, che viene rinchiuso in un manicomio per verificare, ed eventualmente curare, la sua presunta instabilità mentale.
Ma R.P. McMurphy, fin dal suo arrivo all'ospedale psichiatrico, non dimostra affatto di essere "pazzo": il suo carattere sanguigno e la sua vena da trascinatore, piuttosto, finiranno per conquistare gli altri pazienti e (forse) liberarli dalla loro condizione di automi, ridotti all'obbedienza da terapie feroci e coercitive.
Un grido contro la soppressione della libertà individuale, un coraggioso atto di denuncia nei confronti dei manicomi che (caso piuttosto frequente a cavallo fra gli anni '60 e '70, specie negli USA) ricorrevano a trattamenti brutali, dal condizionamento psicologico alla lobotomia, per guarire (o dovremmo dire zittire) le nevrosi dei "matti".
"Qualcuno volò sul nido del cuculo", venuto alla luce nel 1975, è figlio anche dell'onda emozionale scatenata da "Arancia Meccanica", uscito nelle sale appena tre anni prima (1972).
Difatti, benché il romanzo di Ken Kesey fosse stato scritto prima del 1972 non è verosimilmente un caso che Milos Forman lo abbia portato sullo schermo, e con trascinante carica di pathos e di partecipazione, tre anni dopo la rivoluzione kubrickiana del gusto e della coscienza.
E' vero, il regista cecoslovacco aveva avuto la possibilità di realizzare "Qualcuno volò sul nido del cuculo" già negli anni '60, ma per ragioni "burocratiche" non vi era riuscito. E, pertanto, la visione di "Arancia Meccanica" non può non averlo condizionato, almeno a livello inconscio, quando nel 1974 si avvicinò finalmente al riadattamento del romanzo di Kesey.
Con "Arancia Meccanica", Stanley Kubrick aveva inveito contro i diabolici meccanismi politico-sociali che, indifferenti di fronte al rischio di privare gli esseri umani del libero arbitrio, non esitano a trasformare, per un pugno di voti in campagna elettorale, un uomo in un automa.
E la domanda di Kubrick era stata proprio questa: è più disgustosa la violenza lucida, premeditata dello Stato che per neutralizzare Alex De Large ne annulla la personalità, o la ferocia ludica, spontanea, istintiva del "delinquente" Alex?
In "Qualcuno volò sul nido del cuculo", guarda a caso, il quesito è simile, e trattato con la stessa potenza espressiva che Kubrick usò per "Arancia Meccanica". Solo che stavolta il problema non riguarda la violenza innata negli esseri umani, bensì un'altra "malattia" in grado di sconvolgere l'esistenza di un uomo: la follia.
Cosa è più disgustoso e/o pericoloso? Che persone deviate (o perlomeno bizzarre) si aggirino in libertà fra di noi esseri sani e "normali"...o che queste persone vengano rinchiuse in istituti mentali (per la verità molto simili a carceri di massima sicurezza) e sottoposte a ciniche terapie che ottengono l'unico effetto di appiattirne lo spirito e la vitalità?
La parabola di R.P. McMurphy, sapientemente esasperato da un Jack Nicholson in forma-Shining, ci colpisce, ci commuove e ci ammonisce.
R.P. McMurphy ha il solo, gravissimo torto di esprimere sé stesso. E di aiutare tutti gli altri "malati" a fare altrettanto.
Esprimere la propria personalità, nel bunker in cui sono rinchiusi i pazienti, equivale a infrangere le regole comportamentali fissate dai medici e comporterebbe, a giudizio dei dottori illuminati, il naufragio delle speranze di guarigione degli "schizzati".
La dottoressa Mildred Ratched (Louise Fletcher) non personifica propriamente il male o il sadismo.
Banalmente, rappresenta la cecità e la conseguente violenza della scienza, ingenuamente convinta di aver trovato nel razionalissimo prontuario di precetti e regole comportamentali (da imporre ai pazienti) la soluzione alla regina di ogni, deleteria manifestazione irrazionale: l'instabilità mentale.
Con, in più, quel pizzico di cinismo che condisce spesso le intenzioni degli esseri umani, dottori o pazienti che siano: conviene infatti a tutti, medici in testa, che i manicomi non si trasformino in piazze dominate dalle urla e dagli schiamazzi di quelli che danno di matto...
Dal punto di vista della grammatica filmica, "Qualcuno volò sul nido del cuculo" esprime il suo potenziale poetico in maniera differente rispetto ad "Arancia Meccanica", film più straniante e allucinato e, soprattutto, dominato dalle musiche di Beethoven e Rossini.
Milos Forman, per restituire al pubblico l'intensità emotiva del dramma di R.P. McMurphy e dei suoi amici, punta certamente sui contrappunti musicali (da brivido, specialmente nella scena finale) firmati dal compositore Jack Nietzche, ma soprattutto, per buona parte del film, conduce lo spettatore all'interno del manicomio, fra i pazzi e i "picchiatelli", per fargli vivere la vita che vivono i rinchiusi a continuo contatto con la detestabile miss Ratched.
Un realismo insistito, incalzante e, infine, struggente. Meno trovate registiche, meno virtuosismi formali rispetto al capolavoro di Kubrick (al quale, peraltro, sarebbe riduttivo riconoscere solo uno scopo di denuncia sociale), ma grande cura per la caratterizzazione psicologica dei personaggi segregati nel manicomio e per i rapporti umani che si instaurano via via fra di loro. Fino a farci provare, per la sorte di R.P. McMurphy, la stessa, identica indignazione che ci aggredisce nel vedere Alex De Large ridotto a un vegetale.
In un'ambientazione e in un contesto così avvolgenti e privi di orpelli scenografici (e, proprio per questo, poeticamente formidabili) Forman può sfoderare, come assi nella manica, almeno un paio di grossi colpi di scena (la sorprendente rivelazione del "Grande Capo", tutt'altro che sordomuto, e il suicidio di Billy Bibbit) che contribuiscono a dare spessore e scorrevolezza a una trama mai statica o ridondante.
Difficile, alla fine, trattenere le lacrime. Difficile dimenticare il volto unico e inconfondibile del granitico e struggente "Grande Capo" Bromden (Will Sampson), del timido Billy Bibbit (Brad Dourif), del cocciuto e irritante Martini (Danny De Vito) e di tutti gli altri pazienti che condividono con McMurphy la frustrazione e poi la speranza e poi il riscatto e poi la ritrovata consapevolezza di sé stessi e della propria forza interiore...
Andiamo, R.P. McMurphy. La vita, ed il riso e l'amore hanno abbandonato questo mastodontico, eppure claustrofobico manicomio americano sperduto nell'Oregon...
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Recensione a cura di Matteo Bordiga - aggiornata al 25/01/2006
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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