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Marina, madre di un vivace bambino di un anno, va a trascorrere con lui, lontana dal marito, un intero mese di vacanza in montagna. Incapace com'è di aderire al ruolo materno, quasi sopraffatta dal peso delle responsabilità e dalla difficoltà di crescere un figlio, cerca nella pace dei monti una soluzione alle sue inquietudini. E per questo affitta l'intero piano di una casa di proprietà di una rude guida alpina, Manfred (Filippo Timi), che odia le donne e non fa niente per nasconderlo, sopraffatto da un trauma infantile (lui e i suoi fratelli sono stati abbandonati dalla madre quand'erano piccoli). Infatti l'uomo cerca di evitare qualsiasi contatto con la sua "ospite", limitandosi ad ascoltarla quando parla al figlio o quando lo sgrida durante le sue notti insonni. Una sera, davanti all'ennesima sfuriata con il piccolo, accade un evento drammatico che improvvisamente avvicina Manfred a Marina. E tutto questo sarà l'inizio di un complesso rapporto di rivelazioni e sospetti che porta due persone dalle affinità lontanissime a odiarsi, ricattarsi e infine a costruire una sorta di complicità affettiva.
"E' un tema un po' tabù, io penso questo, ci sono quasi delle risate d'angoscia, e credo che sia la forza del film"
Cristina Comencini
La regista risponde così alle critiche e al "linciaggio morale" dei fischi durante la proiezione riservata alla stampa in occasione della 68esima Mostra del cinema di Venezia, dove "Quando la notte", adattamento di un suo recente romanzo, è stato uno dei pochi film italiani in concorso.
Ma l'unica "forza" del film risiede nei primi fotogrammi, quando i protagonisti si sfiorano senza parlarsi, si ascoltano nel cuore della notte - soffocato dal pianto del bambino - si "studiano" a distanza. Ma non appena questa distanza viene brutalmente ravvicinata dall'evento potenzialmente tragico (in lontananza, ma non più di tanto, lo spettro di una notte a Cogne), lo stesso film precipita, fino ad affossare definitivamente nell'epilogo finale.
Diciamolo francamente: è un film imbarazzante, con dialoghi risibili, immagini e imprevisti che vorrebbero essere intensi ma sfiorano la parodia. Il guaio è questo tipo di cinema. Il/la cineasta convinto/a della sua buona fede (e noi con lei?). Si sente consapevole di aver affrontato un tema scottante e diffuso nella società contemporanea ed è abbastanza per non mettere in discussione il film.
Il cinema ha un suo linguaggio, ma in questo caso è meglio rivolgersi altrove. Per esempio a quel pubblico femminile che preferisce Maria Venturi o Cristina Comencini rispetto - che so - a Elsa Morante, a quei salotti televisivi dove i primi piani filmano occhi lucidi e confessioni, il silenzio che grava attorno allo studio prima di sfociare in un applauso liberatorio, commosso o manipolato dagli indici Auditel. Tutto quel dramma sociale che entra ed esce dai telegiornali per distinguersi nelle disgrazie quotidiane, tutto ciò che indirettamente fornisce materiale per una soap-opera. Ecco come si cerca il plauso della massa. E pensare che sono proprio i tg nazionali, con il loro morboso buonismo, i principali artefici dell'uso indiscriminato della cronaca quotidiana!
Nel cinema dovrebbe funzionare diversamente.La Comencini filma inizialmente ogni tipo di nevrosi popolare per catturare lo spettatore, lasciando a una Claudia Pandolfi inadeguata lo spazio per rivolgersi direttamente a noi.
Ma non si chiarisce mai se lo scopo dell'attrice sia quello di essere valutata per le sue (scarse) doti o se sia il suo personaggio a uscire dagli schermi e reclamare interesse o pietà.
I maschi del film, il disilluso Alfred, il fratello che "ci prova con tutte", pure il marito "virtuale" di Marina, sembrano usciti direttamente dalle canzoni di Mia Martini - a parte l'altro fratello ammogliato e fortunatamente "normale". Ma la personalità femminile/femminista della Comencini sembra guarda caso ancorata a un cliché maschilista, che vuole la donna fragile sopraffatta dal fascino sinistro di chi la giudica e condanna.
Come nel discusso "La bestia nel cuore" la Comencini affida a un ennesimo personaggio femminile il compito di sottolineare luci e ombre della nostra perversa umanità.
Ma nelle nevrosi di Marina assistiamo purtroppo alla rinuncia dei "colpi bassi" a favore dell'emotività e della partecipazione mediatica (le lacrime della Franzoni in diretta televisiva sono alla base dello stesso schema).
E' probabile che il romanzo omonimo sia più persuasivo proprio per la capacità di filtrare in modo letterario certe sfumature che, al cinema, appaiono forzate, se non ridicole. Qui non si tratta tanto di mettere alla berlina la superficialità del film, la convenzionalità "telefonata" di alcuni passaggi (l'incidente a Timi che strizza l'occhio a "127 ore", l'equivocante passaggio delle funivie) o il livello indecente di diversi dialoghi ("Ma perché non capiscono quanto sia difficile?" - "Non mi sono mai dimenticato di te per via della gamba"). C'è dell'altro.
Il tema della maternità (o del matricidio, pensate) non può diventare spunto per un fumettone nazional-popolare, dove i personaggi cercano sempre di giustificare le loro azioni.
E' il passato, è la maternità, è un trauma infantile, è l'amore che prende pieghe diverse (l'odio che si riversa all'ombra del complesso edipico, l'affetto che sfocia in annientamento, il disprezzo che diventa attrazione fisica e mentale ecc.).
Se "Quando la notte" avesse tenuto a freno gli impulsi romanzeschi della vicenda - quelli sì "omicidi" per gli spettatori - cercando di evitare l'esposizione compiaciuta della debolezza, forse qualcosa in più avrebbe funzionato.
Ma per quale ragione un "marito assente" che "si aspetta molto dalla moglie" e un rude uomo affetto da "orfanismo" dovrebbero essere diversi?
Ciò che resta, alla fine, è solo il bisogno di recarsi nei bellissimi luoghi dove è stato girato il film (un paese limitrofo al monte Rosa).
Un bel film argentino ("El campo") - anch'esso proiettato alla mostra - trattava argomenti simili senza prendere posizioni.
E la rinuncia di due personaggi incompatibili e fragili, sopraffatti dalle scelte o dai ricordi, alimenta la smisurata creazione di un brutto film, populista quanto la pretesa che ha di essere "prezioso".
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Recensione a cura di kowalsky - aggiornata al 16/09/2011 17.16.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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