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La luna piena che fugge in un cielo nero, carico di presagi e tempeste imminenti. Un sentiero che si dipana fra curve tortuose. La sagoma di uno splendido castello, "segreto e silenzioso", su cui passa una nube, come "una mano scura davanti a un volto".
Questo non è l'inizio di un racconto di Poe o di Lovecraft, ma di una fiaba gotica affidata alle immagini, anziché alle parole. Questo è l'inizio di uno dei film più belli e meno conosciuti (quantomeno al grande pubblico) di Alfred Hitchcock.
Un film raffinatissimo e sottile, che ci avvolge nella sua atmosfera, che spaventa non solo con scogliere scoscese, ombre minacciose e silenzi insostenibili, ma soprattutto con la banalità del dramma proposto: una sposina ingenua e dolce (Joan Fontaine), schiacciata dai silenzi del marito (Laurence Olivier) che crede essere ancora innamorato della prima moglie, morta tragicamente in un incidente. Gente normale che si ritrova in situazioni oscure, persone ordinarie che covano dentro passioni nascoste e terribili.
Il teatro della vicenda è proprio la misteriosa magione di Manderley, che ci era stata presentata, fin dalle prime inquadrature, in una sequenza onirica e densa di fascino. E' qui che viene condotta, dopo una breve luna di miele spensierata, la nuova signora de Winter (alla quale non viene concesso un nome proprio), in quella che fu la dimora di "Rebecca - la prima moglie".
Hitchcock è un maestro nel mostrarci visivamente come su Manderley incomba qualcosa di oscuro: il castello ci viene presentato costantemente contornato dalla vegetazione, gli alberi sembrano sovrastarlo in una volta, creando una cappa.
Agli occhi della nuova signora de Winter appare incorniciato dall'arco di pioggia sfuggito al tergicristallo. Il castello è esso stesso un personaggio del film: una casa stregata (o meglio incantata), in cui non si sentono echi, ma che risuona delle presenze passate, in cui tutto è stato studiato per l'ammirazione della (prima) Signora de Winter.
Una dimora addormentata che aspetta la propria padrona (o forse il suo ritorno).
Qui la nuova signora de Winter non può che sentirsi un'ospite, inadeguata, continuamente giudicata e raffrontata a Rebecca la cui essenza, nei luoghi che le furono propri, diviene tangibile.
Il potere di quest'ultima sta nella costante presenza nella memoria di chi la conobbe: il suo riflesso riluce nei loro occhi, i suoi passi risuonano ancora nei pensieri dell'affezionata Mrs Danvers (Judith Anderson), la governante di Manderley che sembra quasi essere la guardiana della memoria di Rebecca.
Il paragone fra le due signore de Winter è del resto assai duro. Rebecca aveva ogni pregio: la bellezza, il carisma, la stima e l'amore di tutti. Una donna che mesmerizzava da viva ed ossessiona da morta.
Tanto Rebecca riusciva a catalizzare l'attenzione su di se, quanto la nuova signora De Winter è discreta e insicura, ben più invisibile di colei che non appare mai sullo schermo.
Hitchcock è un mago in questo: per tutto il film continua a frustrare il nostro desiderio di vedere almeno una foto di Rebecca, ed affida il suo ritratto unicamente agli oggetti che le sono appartenuti.
La storia ci viene mostrata nel suo evolversi psicologico, creando una spirale di racconti e riflessi che ricostruiscono per noi il passato; non vengono usati flashback, ma viene lasciato ai dialoghi e agli sguardi il compito di evocare l'immagine di Rebecca.
Nel crescendo della frustrazione della nuova signora de Winter una figura chiave è proprio Mrs Danvers, imperiosa e terrificante, con la sua dizione secca ed il suo palese disprezzo contenuto.
La fotografia è superba, è come se Hitchcock avesse dipinto un carboncino, in cui non ci sono linee, ma solo sfumature di ombra. L'alienazione della protagonista è resa in maniera splendida, eppure sottile, con mille piccoli dettagli che ci danno un vero è proprio tableau vivant delle sue emozioni.
A rendere il senso di inadeguatezza del personaggio di Joan Fontaine, il suo essere ospite in casa propria è il contrasto della sua esile figura con le enormi vetrate, con gli spazi che la dominano, in cui lei cammina, con le spalle strette, misurando ogni passo, spaventata anche dalle ombre che ricamano sui muri arabeschi barocchi.
Nei momenti di disperazione la signora de Winter sembra quasi una bambina delle fiabe: tiene le braccia lungo il corpo, la sua figura viene isolata, la sua gestualità è rigida, sembra letteralmente rannicchiarsi in un angolo, mentre lo spazio attorno a lei si espande.
Ma al di là dell'immensa capacità tecnica, della grandezza registica e del potere evocativo delle sue immagini, il vero genio di Hitchcock sta una volta di più nel suo saper tracciare la mente dei personaggi, nel renderci partecipi dei loro turbamenti con pochi sontuosi tocchi di ombra.
Una delle sequenze più significative a questo proposito è quella in cui i due sposi guardano i filmini del viaggio di nozze: la freschezza delle risate iniziali cedono via via il posto al ricordo di Rebecca, all'insicurezza della giovane moglie e ai tumultuosi malumori dell'imperscrutabile Olivier. Il tutto immerso in un'atmosfera pastosa: i volti dei personaggi sembrano nuotare in un inchiostro buio ed i loro sentimenti gli danzano sul viso insieme alle mobili luci del proiettore.
La prima parte del film è decisamente la più riuscita: non potendo cambiare lo script Hitchcock non si accontenta di una piatta trasposizione della storia. Essendo vincolato e non potendo caratterizzare la pellicola con i suoi inconfondibili tocchi di humour, si diverte a disseminare la storia di piccoli elementi di tensione.
Ed è questo che mi piace pensare di Hitch: che fosse un uomo che nell'intrattenerci si divertiva, pur col suo distaccato e sornione aplomb britannico.
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Recensione a cura di Laura Ciranna - aggiornata al 03/10/2005
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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