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Fortemente critico della realtà sociale del suo paese, il regista inglese Ken Loach (conosciuto come "Ken il rosso"), dopo un periodo passato a girare cortometraggi per la tv, è tornato al cinema per farci un ritratto, realistico e inclemente, del mondo operaio e delle condizioni di vita dei lavoratori, nella disastrata Inghilterra ai tempi della Thatcher, attraverso la storia cruda, commovente, ironica e anche drammatica di un gruppo di operai edili durante il periodo del governo neoliberista della "Lady di ferro".
Un periodo che ha conosciuto impietose critiche da parte degli artisti più impegnati del Regno Unito (anche del campo musicale), che hanno saputo cogliere e denunciare le esplicite tensioni a livello politico e sociale che si stavano sviluppando nel paese.
Ken Loach, con la sua genuina carica ideologica, e coerente a un'idea di cinema documentaristico che lo ha portato ad interessarsi dei drammi del lavoro contemporanei, ha trovato così il modo di analizzare, con sguardo lucido, ironico e accorto, i risultati di un ciclo politico che ha prodotto un brutale ridimensionamento dello stato sociale, colpendo principalmente le classi meno abbienti della società inglese.
Ed è proprio ai suoi temi più cari che Loach fa ricorso per raccontarci una storia che parla di lavoro e di precarietà, di condizioni di lavoro estremamente deficitarie e di sfruttamento economico, ma anche di degrado ambientale e di squallore sociale.
Tutti temi ancora purtroppo attualissimi, perchè è triste constatare come la precarietà sia ancora aumentata, le garanzie sociali si siano ulteriormente ridotte e le morti sul lavoro siano ancora una bruciante, vergognosa realtà. E questo non solo Inghilterra, che ha un sistema di lavoro assolutamente diverso dal nostro e sicuramente migliore, ma in quasi tutto l'occidente e soprattutto da noi.
Protagonisti del film sono proprio un gruppo di lavoratori inglesi (gentaglia,feccia, marmaglia, Riff Raff, appunto, come li indica spregiativamente una locuzione gergale): manovali, ex galeotti, immigrati di colore di diversa provenienza.
Siamo nella Londra thatcheriana degli anni '90 (1 milione di disoccupati, un sistema sanitario dissestato, sindacati inermi, politiche sociali assurde) ma se Loach fosse stato italiano saremmo nella Roma berlusconiana del 2011, tali e tante sono le analogie.
In una cornice di degrado urbano e umano si consuma la tragicommedia di un gruppo di operai edili in uno dei tanti cantieri dalle insufficienti misure di sicurezza, proliferati nella Londra marginale (stabili fatiscenti, strade ingombre di rifiuti, periferie sporche e buie), dove lavora una nuova classe operaia sottoproletaria e soggetta alle restrizioni imposte dai tagli allo stato sociale operati dal liberismo thatcheriano.
Da questo momento la recensione contiene elementi di spoiler; se ne sconsiglia pertanto la lettura a chi non abbia ancora visto il film.
Il film si apre (e si chiude) con immagini emblematiche di estremo degrado, con grossi topi che scorazzano indisturbati tra i rottami e le macerie, mentre il protagonista, Stevie, si sveglia, solo, su un marciapiede. E' un giovane operaio di Glasgow, appena uscito di prigione per furto, con poca fortuna sul lavoro.
Dopo aver trovato lavoro in un cantiere edile, rimedia una sistemazione di fortuna, occupando abusivamente un appartamento popolare disabitato, procuratogli dai nuovi amici di lavoro. I compagni sono tutta gente come lui, operai extracomunitari e sottoproletari inglesi, tutti senza contratto, tutti non garantiti, tutti senza contributi, senza assistenza, senza assicurazione.
Lavorano duramente sotto falso nome (Stevie infatti in realtà si chiama Patrick, ma questo lo apprendiamo solo in seguito) per non perdere il magro sussidio di disoccupazione, sotto la minaccia del licenziamento in tronco e senza giusta causa.
La vita sul posto di lavoro scorre sul modello classico dei cantieri di lavoro problematici e pericolosi, gestiti male e con indolente arroganza, dove lavora un microcosmo di disperati, emblematico eppure così assolutamente credibile e reale, bianchi e neri, giovani e meno giovani, immigrati provenienti dalle ex colonie o dalle città operaie inglesi. Vediamo il grigiore delle loro vite, la precarietà delle loro esistenze, la complessità dei loro rapporti interpersonali, la loro fatica quotidiana, mal retribuita e mal tutelata.
Un piccolo mondo dove non mancano i gesti di ruvido cameratismo e il calore irruento dell'amicizia virile, dove si alternano discussioni e piccole meschinerie, lazzi e motti si spirito, ma soprattutto una grande solidarietà di classe.
Conosciamo così i compagni di cantiere di Stevie dalla multiforme composizione etnica e sociale, tra i quali emergono il maturo e bonario Larry, laburista, sindacalista impegnato e sempre pronto a preoccuparsi per gli altri, e il giovane Desmonde, inesperto, sognatore, immigrato di colore.
Nel frattempo Stevie conosce fortuitamente Susan, una ragazza dolce e sentimentale, aspirante cantate di non eccelse qualità e affetta da manie depressive, con la quale inizia una complicata relazione sentimentale fatta di momenti di tenerezza alternati ad altri di accesa contrapposizione. Contrapposizioni che esplodono al ritorno di Stevie da Glasgow, dove si era recato per il funerale della madre, in seguito alla scoperta che Susan fa uso di droghe.
Convinto per analoga esperienza familiare che non vi sia nulla da fare, la scaccia di casa e resiste ai suoi tentativi di riprendere la relazione.
Intanto al cantiere la situazione volge al peggio: un operaio, redarguito da capomastro perchè sorpreso a usare il suo cellulare per parlare con la madre, reagisce picchiandolo e viene arrestato; Desmonde, a causa delle insufficienti misure di sicurezza, scivola da un'impalcatura e, nonostante il disperato tentativo di Stevie di salvarlo, scivola dalle sue mani e si sfracella al suolo; Larry, il sindacalista, viene licenziato per il suo tentativo di far applicare le norme di sicurezza e di ottenere condizioni di lavoro più umane.
In questo clima matura la drammatica sequenza finale, nella quale si vede Stevie che non si rassegna all'ennesima speculazione sulle loro vite, in preda ad un eccesso di rabbia e frustrazione, dà fuoco allo squallido edificio che stava contribuendo a ristrutturare.
Con questo film Ken Loach si conferma uno dei pochi registi europei sinceramente interessato ai problemi delle classi lavoratrici, capace di analizzare con acume e franchezza la realtà delle loro condizioni di vita.
All'impegno e al rigore stilistico che contraddistingue tutta la sua opera, il regista in questo caso affianca un linguaggio vivace e molto diretto. In ogni caso alla cruda violenza del linguaggio fa da contrappunto una struttura della storia che serve a veicolare il messaggio che il regista vuole far passare, e che è valido ancora oggi, a dieci anni dall'uscita del film.
E cioè l'importanza del colore "rosso" in un'epoca in cui anni di lotte e conquiste sindacali che si credevano ormai definitivamente acquisite nelle legislazioni del lavoro dei vari paesi, vengono sistematicamente fatti oggetti di attacchi e revisioni, tese a smantellarne e vanificarne la validità, da parte di un padronato sempre più arrogante e da governi conservatori inetti e assenti la cui unica capacità, in tempi di crisi come quella che stiamo vivendo, consiste nel rivolgersi immancabilmente verso i soliti noti e a colpire le classi meno abbienti.
Una storia dura, un ritratto dei "miracoli" della globalizzazione e delle odiose misure che vengono prese a sostegno della competitività delle imprese, e per cercare di fronteggiare la crisi finanziaria che attanaglia le economie occidentali (anche da noi, non è che bisogna andare molto lontano, basti pensare al recente art. 8 della manovra finanziaria e al tentativo di cancellare lo statuto dei lavoratori, la cui abolizione non si riesce a capire come possa far conseguire il pareggio di bilancio).
Visivamente "Riff Raff" è un'opera molto valida: quella fotografia volutamente povera e sgranata, quei colori smorti, quasi plumbei, accentuati da un'ombra lieve di malinconia e precarietà che pervade tutto, fanno di Ken Loach il miglior ritrattista della working-class inglese e delle periferie urbane degradate (il pensiero corre subito al primo Pasolini di "Accattone" e "Mamma Roma" o al neorealismo di Rossellini, Visconti, Germi, ecc.); mentre l'impianto drammatico della sceneggiatura, fuso molto bene con i toni ironici ma desolati di alcune sequenze, evidenzia l'estrema solidità e la compattezza dell'opera e del suo modo tutto personale di fare cinema.
Cinema tutto teso ad evidenziare la drammaticità della realtà, stemperata talvolta da notazioni di sottilissimo humor nero (le ceneri della madre di Stevie, incautamente disperse, giungono addosso ai partecipanti al funerale, scatenando reazioni e insulti) o decisamente comici e grotteschi (la sequenza in cui Larry viene scoperto nudo nel bagno da un gruppo di donne mussulmane, oppure l'audizione fallimentare di Susan) tipico dello stile documentaristico o realista da cinema-verità, di cui Ken Loach è grande maestro.
Chi ama Loach ama anche questo suo modo di fare cinema (superficialmente catalogabile come retorico, come puramente propagandistico politico-sindacale) e non solo per la sua indubbia bravura, ma anche perchè è l'unico a ricordarci una realtà che è sotto gli occhi di tutti (basti pensare agli ultimi avvenimenti di casa nostra, di stampo oscurantista e reazionario) ma che rischia tranquillamente di essere ignorata perchè scomoda.
Come al solito molto bravi gli attori (in particolare Robert Carlyle, attore feticcio di Loach) anche se svuotati dal doppiaggio della carica dirompente dei vari dialetti che ciascuno dei muratori-interpreti portava con sé dai luoghi di maggiore depressione della Gran Bretagna.
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Recensione a cura di Mimmot - aggiornata al 25/10/2011 18.15.00
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