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Il film inizia con una scena notturna molto suggestiva, ambientata durante un temporale, in primo piano una villa con la fontana e una targa staccata da un lato che oscilla, quest'ultima porta incisa a grandi lettere la scritta "Christian - Alto cucito". Il movimento rumoroso della targa fa pensare, come per metafora, a dei guai in arrivo per i presenti nel lussuoso fabbricato.
Massimo Morlacchi (Cameron Mitchell) e la contessa, vedova, Cristiana Cuomo (Eva Bartok) gestiscono un atelier di lusso in quella villa, situata in un quartiere bene di Roma, l'uno ne è il Direttore amministrativo e l'altra la proprietaria. Una sera una loro modella, Isabella (Francesca Ungaro), dedita con l'amante antiquario Franco Scalo (Dante Di Paolo) ai piaceri della droga (cocaina), viene uccisa da un uomo che la soffoca con le proprie mani. L'assassino ha un impermeabile scuro e il viso coperto da un tessuto a maglie fitte; il delitto avviene nei pressi dell'atelier durante un black out elettrico, nell'antistante zona buia alberata, dove la donna era giunta con un taxi e si apprestava a sfilare nella passerella di moda. Il cadavere viene nascosto in un vano dell'atelier e viene poi scoperto, la sera stessa, dalla contessa Cristiana.
Avvisata la polizia, sul posto arriva l'ispettore Silvestri (Thomas Reiner) che interroga subito i presenti. Scopre così l'identità dell'amante di Isabella: Franco Scalo. Poco dopo, prima della sfilata, un'altra modella trova per caso il diario di Isabella, che contiene rivelazioni compromettenti per tutti: relazioni d'amore segrete tra colleghi, debiti non pagati, modelle rimaste incinta dall'amante che non possono permettersi l'aborto, propositi omicidi di qualcuno, etc; questa modella è Nicole (Arianna Gorini), amica di Isabella.
Il film, uscito nel 1964, è un giallo-thriller con qua e là qualche colorazione di horror, un genere misto di indubbia efficacia, del tutto frutto di una potente fantasia, che conferma come storicamente, negli anni '60, ci sia stata una crescita elaborativa di sicuro valore del cinema italiano rispetto ai vecchi schemi che caratterizzavano in modo troppo univoco un genere, forse perché occorreva rimanere fedeli a ciò che garantiva un certo successo collaudato, pena un rischioso salto nel buio per i produttori. Con questo film Bava compie un esperimento ben delineato anche rispetto alle attese del gusto degli spettatori nuovi, soprattutto giovani, un lavoro del tutto riuscito che lo porterà alla ribalta nel cinema italiano ed occidentale per diverso tempo.
La narrazione di "Sei donne per l'assassino" è originale, seppur a volte un po' eccentrica e stravagante: Bava sembra quasi che voglia in certi casi aggiungere a tutti costi forme di emozioni visive part-time cioè un po' slegate dal contesto più strutturale dell'opera. Il racconto è comunque ricco di invenzioni sceniche apprezzabili, tali da farne per gli studiosi un'opera filmica complessa, ben esposta, chiara nelle rappresentazioni delle maggiori logiche che ruotano intorno al concetto di male proposto.
Le maggiori articolazioni sceniche tentate da Bava sembrano in parte la riproduzione geniale, fedele di alcuni processi inconsci che sottostanno al sintomo un po' più manifesto, quello che porta all'azione omicida, nonostante alcuni punti intermedi della narrazione siano un po' statici, di semplice scorrimento del tempo come accade in numerosi film di azione thriller-horror.
Una pellicola dunque che si può considerare senz'altro d'autore, firmata, con scene ben studiate fotograficamente che tengono conto dei desideri e della struttura più istintuale dello spettatore, cullata e portata a soddisfacimento in modo egregio senza preannunci tra le righe o telefonate traditrici, un'opera anche densa di questioni cliniche psicanalitiche ben delineate.
Nuovi, e molto più paurosi appaiono alcuni modi di uccidere, ad esempio è interessante nel secondo omicidio il gioco di luci con cui è stata costruita la scena, che mai appare come qualcosa che dia la sensazione di una ripetizione, di qualcosa di già visto: l'assassino, dopo essere entrato nella casa della vittima ed aver staccato la corrente, rincorre a lungo la donna, tra i bagliori esterni delle auto che gettano un'ombra ancora più sinistra sulla sua figura creando un contrasto luci ombre dagli effetti fantasmagorici potenti che tanto piace al pubblico.
Notevole poi per durata delle tensioni il prolungarsi sadico della scena dell'omicidio, con a sostegno di essa l'occhio della macchina da presa che ricerca da angolazioni suggestive particolari raccapriccianti e macabri, che ingranditi colpiscono i sensi come una grossa frustra.
L'intreccio narrativo poi, è congeniato in modo che difficilmente lascia indovinare al pubblico l'autore degli assassinii, perché i personaggi che entrano in scena sono numerosi e molto attivi nella parola e nelle azioni, tanto che diventa difficile seguire con attenzione massima i particolari significativi dei loro comportamenti e discorsi.
Mario Bava come tutti i registi italiani di quel periodo, operanti sui generi filmici più disparati, conferma la grande capacità del cinema italiano nel saper esprimere qualità filmiche da autore. Infatti anche nei prodotti più seriali come questo (il film viene dopo altri film di Bava come "La ragazza che sapeva troppo" del 1963, "I tre volti della paura" del 1963, "La frusta e il corpo del 1963) predomina su tutto lo stile originale.
Mai in Italia, in quel periodo, un film che fungeva da modello, per le sue riuscite invenzioni stilistiche, diventava per un successivo regista una sorta di fotocopia; in ogni narrazione filmica, che omaggiava in qualche modo dei registi maestri, ci sono stati soprattutto innesti di codici visivi nuovi, vasti meccanismi letterari innovativi, intrecci molto diversi sia dalla consuetudine più brillante sia da quella vantaggiosa economicamente.
Ad esempio Dario Argento nei suoi film, successivi a questo, prenderà alcuni spunti visivi da tutte le opere filmiche di Bava, come i particolari sadici dell'omicidio che diventava con Bava una sorta di rituale morboso dall'esito agghiacciante proprio per via di tutta la prolungata articolazione del sintomo omicida profusa dall'assassino fino alla morte della vittima; oppure sempre da Bava il vestiario impressionante dell'assassino quale l'impermeabile scuro, i guanti, la voce dai suoni stranianti e dal tono maniacale, etc., ma nonostante ciò le creatività visive e narrative di Dario Argento saranno talmente geniali, corpose, visivamente efficaci, con ad esempio l'invenzione di una musica dal ritmo impressionante che fungeva non più da contorno della scena dell'omicidio ma diventava essa stessa elemento protagonista nella costruzione della paura, che i suoi film rimanevano sempre prodotti doc.
Il lavoro di Dario Argento s'innestava positivamente, a largo raggio, in quelle parti stilistiche del film simili ai modelli proposti da Mario Bava, tanto da rilasciare un'idea di progresso, tutto italiano, nella edificazione di un sistema giallo-thriller-horror: qualcosa di strutturalmente sempre più efficace, di emotivamente superiore, una sorta di evoluzione qualitativa generale del nostro cinema.
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Recensione a cura di Giordano Biagio - aggiornata al 26/03/2012 15.00.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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