Voto Visitatori: | 7,11 / 10 (119 voti) | Grafico | |
Voto Recensore: | 6,00 / 10 | ||
I giovani rampanti di oggi, quelli sulla trentina o giù di lì, vestono bene, abitano lindi e scarni appartamenti, partecipano a estenuanti riunioni lavorative con la stessa aderenza degli istanti in cui si siedono sul water, e ovviamente fanno sesso. Tanto sesso. Meglio se in quel di New York: lì ti puoi confondere tra milioni di anime, cambiare partner più facilmente, trasgredire accoppiandoti vicino a zone di transito pubblico, chiuderti in bagno col fai-da-te.
Brandon (Michael Fassbender) è uno di questi. Onanistico ben oltre il significato comune del termine e ai limiti della patologia, vede di rado Sissy (Carey Mulligan, più brava di Fassbender anche se meno in scena), una sorella sensibile che soffre le vere pene d'amore; primitive, superate angosce sentimentali, stonate come un disco dance anni '80 che vibra nello stancante tedio del quotidiano. La mediocre consuetudine sbatte contro le note commosse ed emozionanti della voce di lei, in cerca di fortuna come cantante. La scena dell'esibizione, in un jazz club, di "New York, New York" è da brividi: sguardo febbrile, ritmo rallentato, sospiri per chi non c'è (e che prima c'era stato?), lacera come il suono intimista della tromba di Chet Baker.
Le occasioni per fare sesso non sono mai mancate. Forse oggi sono troppe e conducono a un po' di confusione. La carnalità è sempre esistita, pur essendosi evoluta/involuta nei suoi palesamenti. Così come le deviazioni e le ossessioni che la riguardano.
Il protagonista e la sorella provengono da un passato difficile. Lui sembra agire seguendo un impulso genuino che poi si immobilizza e resta muto, in una specie di autocontrollo sempiterno, attento a non uscire dai binari paralleli di rapporti mordi e fuggi.
Chissà qual è il "brutto posto" dal quale giungono citato in uno dei dialoghi più amari del film? Abbiamo pensato a qualcosa di incestuoso, viste le lacunose fasi dei quattro mesi amorosi di Brandon, i suoi evitamenti emotivi, il tono dei messaggi ricevuti in segreteria in apertura di film, e il pianto disperato durante la sentita interpretazione canora: che la vergogna del titolo sia proprio questa?
Più che una dipendenza da sesso, quella di Brandon è una sofferenza per non essere in grado di sentire il gusto dell'amore. Egli diventa un riflesso di una vetrina disperata, rivolta al mondo: "guardatemi, sono io!".
L'atteggiamento passivo del suo calcolato isolamento è in realtà un polemico/politico esibizionismo come ultima frontiera di accettazione, di sè stesso e degli altri. Ma chi ha detto che quella di Brandon non sia invece la normalità? L'effusione per eccellenza, sentenzierebbe un sarcastico Woody Allen.
Purtroppo la pellicola sconfina, tra le altre, in una breve parentesi di sesso omosex giungendo ancora meno credibile, tanto è separata da tutto il resto e buttata lì da uno scritto e una messa in scena improvvisamente tangheri. I primi piani sulla faccia contratta di Fassbender si moltiplicano. Così Steve McQueen appesantisce il suo lavoro di manierismi inutili e lo impregna di falsità.
Nessuno scandalo di fronte alle orge, nessun dolore per i pugni ricevuti dopo una provocazione gratuita: resta solo un vuoto descrittivo che, partendo da una cornice molto lavorata e di pregio, approda a un malriuscito tentativo di stimolazione rivolto a chi guarda (perché ai protagonisti, diciamoci la verità, importa ben poco dei "malcostumi" di Brandon). Se aggiungiamo una prestazione monocorde e abbastanza incolore del tanto osannato attore tedesco, il quale dovrebbe risultare umiliato e invece somiglia a un teorico gigolò, il coinvolgimento si mantiene al minimo (perché fidarsi di un'interpretazione da erotomane così contraffatta quando gli sguardi sono privi di quel turbamento necessario a condividerne i "culti"?).
"Shame" non raggiunge i risultati chirurgici della "pianista" della Huppert, magnifica nella sua feroce tenacia (al confronto, Fassbender sembra un tranquillo coltivatore di tulipani), ne' l'intensità del decadentismo e della voglia di autodistruzione impressi dalla direzione di Haneke.
Eppure McQueen ha contestualizzato socialmente Brandon. Facendolo uscire col capo nel dopolavoro e facendogli condividere qualcuna delle sue marachelle. Poi, specialmente nella parte finale del film, deteriora l'incipit con una sceneggiatura che procede a velocità di crociera, e tratta il suo protagonista come uno squallido nomade da puttan-tour.
Una discesa agli inferi che narra la solitudine dell'uomo contemporaneo? Macché. Solo un precipitoso abbandono di maggiorenne, prima che un evento casuale in metropolitana arrivi a schiaffeggiarlo.
It's up to you, Brandon.
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Recensione a cura di pompiere - aggiornata al 18/01/2012 14.51.00
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