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Nicolas Winding Refn, regista danese, icona del popolo cinefilo, non fa mistero di amare un cinema dall'abbagliante impatto visivo, intriso di un alone metafisico, per certi versi più vicino alla cinematografia orientale piuttosto che agli stereotipi di certo cinema hollywoodiano.
Un cinema, il suo, controllato, quasi cerebrale, eppure sempre straordinariamente potente, suggestivo e perturbante, esteticamente affascinante e concettualmente straniante, in cui i toni e le atmosfere notturne e rarefatte vengono estremizzate per piegarle a un racconto più complesso, pieno di sottigliezze e di sfaccettature. Per questo è considerato un regista di culto, capace di creare personaggi estremi, tra violenze disumane e lirici silenzi. Un cineasta in grado di realizzare pellicole considerate di nicchia in tutto il mondo, eppure capaci di vincere premi nei vari festival cinematografici.
"Only God Forgives", il suo ultimo film, anche stavolta con Ryan Gosling come protagonista, non fa eccezione alla regola, ma segna un punto di svolta nella sua carriera professionale. Si tratta di un "revenge movie" con cui il regista danese riprende il suo discorso sul cinema della criminalità e della violenza, che ha caratterizzato un po' tutta la sua cinematografia precedente a cominciare da "Pusher", viste come sole modalità significative del caos; ma sposta il suo sguardo dalla malavita losangelina per rivolgerlo verso quella orientale, dove il surplus di violenza si crede possa essere meglio accettato e forse anche rivestito di significati ascetici e spirituali.
La vicenda si svolge in Thailandia, a Bangkok, dove Julian, un giovane americano, si è rifugiato per sottrarsi alla giustizia del suo paese dopo aver ucciso il padre, su istigazione della madre. Adesso, pur rispettato nell'ambiente locale della criminalità, vive un momento di depressione e vuoto esistenziale che lo portano a confrontarsi con i demoni della sua psiche che lo perseguitano.
Più tardi nella capitale thailandese lo raggiunge il fratello maggiore Billy, con cui adesso formalmente gestisce una palestra di thai boxe, la boxe thailandese. In realtà sono due pesci piccoli di una potente organizzazione criminale di narcotrafficanti, diretta dagli Stati Uniti dalla madre, vero capo della associazione mafiosa.
A far saltare gli equilibri provvede il violento Billy che ha il vizio, quando è su di giri, cioè quasi sempre, di picchiare selvaggiamente le prostitute con cui si accompagna. Una sera, uscito "per andare incontro al diavolo", esagera parecchio e in un raptus compulsivo di misoginia psicopatica picchia a sangue e stupra la malcapitata di turno, una ragazzina di sedici anni che si prostituisce per le strade di Bangkok e che finisce all'obitorio.
La polizia locale, allora, lascia intervenire un ex agente in pensione, Chang, noto come "angelo della vendetta" per i suoi modi brutali e violenti con cui gestisce il suo ideale di giustizia, più aggressivi e spietati di quelli degli stessi criminali che punisce, il quale concede al padre della vittima di vendicarsi e di massacrare a colpi di bastone l'assassino della figlia, a condizione poi di farsi amputare la mano destra per "restaurare la giustizia".
In un primo momento Julian pensa di vendicare l'uccisione di Billy, ma quando scopre le ragioni del vecchio padre, capisce che il fratello non merita di essere vendicato e decide di porre fine alla faida.
Ma dagli Stati Uniti arriva allora la diabolica madre, Crystal, crudele e spietata come poche altre figure femminili degli schermi (forse eguagliata solo dall'Angelica Huston di "Rischiose abitudini" o dalla matriarca del bellissimo film australiano "Animal Kingdom"), decisa a recuperare il cadavere e cercare vendetta nei confronti di coloro che le hanno ucciso il figlio prediletto, pretendendo che Julian porti a termine il suo diabolico piano.
Si innesca così un vortice di violenza che porterà il riluttante Julian, combattuto da un lato ad obbedire morbosamente agli ordini della spietata madre e dall'altro di cercare di sottrarsi a questa violenza psicologica e fisica, a fronteggiare il giustiziere Chang, al cospetto del quale affronterà i limiti della sua fragilità umana, ingaggiando un impari duello che, nei recessi dei bordelli di Bankok, culmina in un inaspettato e improvviso epilogo che lascia senza fiato.
Presentato in concorso al Festival del Cinema di Cannes 2013, il film scritto e diretto da Nicolas Winding Refn, ha ricevuto un'accoglienza non esattamente entusiastica. Fischi e ululati da una parte consistente del pubblico in sala hanno accolto lo scorrere dei titoli di coda; un pubblico improvvisamente dimentico del profluvio di ovazioni che due anni fa aveva sottolineato la proiezione di "Drive", il film che aveva fatto gridare il pubblico della Croisette al genio creativo del regista danese.
Ora, a parte il fatto che non si capisce fino in fondo qual è la motivazione (o le motivazioni) che spinge il pubblico a fischiare un'opera che ha evidenti tutti i crismi dell'autorialità, resta il dubbio che il film di Winding Refn sia stato respinto perché, come dice l'autore, "Non rispetta il dominio della logica e costringe gli spettatori a razionalizzare e comprendere, al punto di perdere il controllo di se stessi fino a sentire rabbia, frustrazione e tristezza tutte insieme".
Compiacere il pubblico non è esattamente quello che si prefigge Winding Refn con i suoi film ("Non è appagante nè per me né per il pubblico", continua il regista). Per questo, forse, tutti coloro che si aspettavano "Drive 2" sono rimasti molto delusi, trovando invece un film molto diverso che per certi versi assomiglia più a "Valhalla Rising" o a "Fear X" che allo splendido "Drive", per quella esplosione di violenza mitica e primordiale, ma non fine a se stessa, che travalica dallo schermo fino a sfiorare gli spettatori in sala, in un tripudio di rosso (loghi, scritte, luci dei quartieri malfamati, dei bordelli, delle palestre) che si fa sangue e violenza. Sangue che si versa per la strade di Bangkok, violenza che si abbatte inesorabile su coloro i cui peccati devono essere redenti.
Forse è proprio questo aspetto che fa di "Solo Dio perdona" il più inquietante e disturbante film tra quelli diretti fino ad ora dal regista di Copenaghen. A ciò si aggiunge il senso glaciale e visionario della messa in scena, ricca di simmetrie e parallelismi; una fotografia ultranitida e satura di colori contrastanti che gioca sui cromatismi estremi; un uso personale della macchina da presa che si muove lentissima e claustrofobica anche negli spazi aperti, anche quando filma una Bangkok vissuta tra notte e alba dai dannati che la animano. In più i silenzi portati all'eccesso e l'uso estremo e solenne, duro e martellante della colonna sonora, donano al film un ritmo elevato che lo avvicinano molto a certo cinema orientale.
Pur essendo "Solo Dio perdona" un film molto pulp e molto astrattivo, iperestetizzante e quasi metafisico, le dinamiche che caratterizzano i rapporti che legano i vari personaggi sono analizzate e strutturate in modo quasi scientifico.
Prendiamo ad esempio il rapporto che unisce Julian a Crystal, sua madre: si tratta di un rapporto estremamente contraddittorio e fortemente castrante che lo porta al contempo ad essere succube e schiavo di una madre prevaricatrice e frustrante che non perde occasione di umiliarlo e svilirlo, plagiato dal suo potere e dalla sua autorità, che ne fanno un uomo costantemente teso a cercare il suo encomio e la sua approvazione, e dall'altro a cercare spasmodicamente di affrancarsi definitivamente dalla sua presenza e tagliare definitivamente il cordone ombelicale che lo lega a lei.
Si avverte così l'eco di un complesso edipico gigantesco che fa di Julian un personaggio freddo e distaccato, reso apatico e forse anche impotente dalla violenza che ha contraddistinto la sua vita in famiglia, incapace di comunicare con gli altri, abituato dalla stessa madre a parlare solo un linguaggio di sangue. In un simile contesto non sorprende un intreccio familiare dai risvolti palesemente incestuosi, evidenziati dal modo sottilmente erotico con cui la donna tocca il corpo di Julian non appena lo rivede o dagli apprezzamenti poco lusinghieri che fa sul suo pene a confronto con quello assai più notevole del figlio morto che, per sua stessa ammissione, non fa mistero di preferire.
Così almeno racconta lei a cena nel ristorante cinese, prima delle ordinazioni, a Mai, la ragazza di Julian.
Un confronto impietoso e umiliante che non fa altro che accrescere le sue frustrazioni e la sua supposta impotenza che si riverbera sia in campo sessuale che familiare, esistenziale e relazionale, ma anche nelle sue capacità combattive e d'azione.
Molto significativa al riguardo la scena accennata del ristorante, con la reazione di Chrystal quando il figlio le presenta la sua ragazza (con la quale, peraltro, nonostante lei sia una prostituta, non ha ancora avuto rapporti sessuali), subito investita da improperi e appellativi volgari, sotto gli occhi impassibili di Julian che non riesce a reagire ("Perché accetti così supinamente le sue prevaricazioni" gli domanda. "E' mia madre" le urla lui, quasi ad evidenziare con i decibel il suo spessore minimo nei confronti della madre, in delirio d'onnipotenza e di disperazione per aver perso il figlio prediletto.
Così "Only God Forgives" finisce con l'essere l'odissea di un uomo in cerca dell'ultima possibilità di redenzione, costretto ad isolarsi ai confini del mondo violento in cui il perdono non esiste o al massimo è prerogativa di Dio, per capire fino in fondo il senso del fatalismo e dell'ineludibilità della tragedia.
In tutta la sua carriera, Refn ha sempre dipinto un tipo di eroe imperfetto, combattuto tra coscienza e istintività, sempre pronto ad esplodere in atti aggressivi, come se la violenza fosse connaturata al genere umano, un eroe che ha tutte le potenzialità necessarie per superare le difficoltà della vita ma che finisce per arrendersi per le debolezze che lo caratterizzano.
Ritorna la disperazione umana, ritornano le esplosioni di brutalità tanto disturbanti quanto esteticamente affascinanti, ritorna l'idea che Refn ha dei suoi personaggi senza che si preoccupi troppo di renderli fruibili agli spettatori, ritorna l'idea che nell'esercizio della forza di un uomo su un altro uomo c'è qualcosa di incomprensibile che lo attira e lo spaventa, ritorna la sua poetica nichilista, il suo stile ieratico, e la testimonianza dura e pura di ciò che è e di ciò che vuole essere il "Tarantino di Copenaghen".
Perché Winding Refn fin dal suo esordio con "Pusher" si è preoccupato più della messa in scena che da ciò che mette in scena. Con "Drive" aveva trovato il modo di amalgamare questi due elementi, diluiti nella storia d'amore che mitigava l'aspetto violento. Con "Solo Dio perdona" il discorso è più complesso e più complicato, perché lo sguardo della cinepresa procede sempre verso un'unica direzione e si addentra sempre più nei meandri oscuri di una mente precaria, una vera e propria giungla di desideri e di paure.
In questo viaggio onirico "Only God Forgives" percorre sentieri già tracciati da Jodorowsky (cui il film è dedicato), riduce all'essenziale i dialoghi e si racconta per metafore visive in cui si muovono personaggi tormentati e violenti, affetti da alienazione emotiva che rasenta la psicotica schizofrenia, dietro i cui sguardi si celano e si agitano sentimenti complessi e introspettivi.
Man mano che la vicenda si va esaurendo, con quel suo ritmo lento e flemmatico, ci viene svelato il fascino di personaggi misteriosi dietro cui si celano abissi di efferatezza. Julian è un personaggio freddo e distaccato, reso apatico dalla violenza che ha contraddistinto la sua vita in famiglia, conduce una vita incompleta, capace a stento di comunicare con gli altri; Ryan Gosling, l'attore (ormai alter ego cinematografico di Winding Refn) che lo interpreta è come sempre raffinato e carismatico, capace con la forza del suo sguardo magnetico di esprimere le più forti passioni con un minimo mutamento di espressione. Pur avendo pochissime battute (Ryan ha un dono, afferma il regista: "riesce a dire mille parole senza pronunciarne nemmeno una") riesce ad esternare il disagio del suo protagonista grazie alla monoespressività che dimostra di saper padroneggiare. Vive in una sorta di limbo in cui il suo sguardo perso nel vuoto, un corrucciarsi appena accennato, la battaglia contro i demoni che lo perseguitano, gridano tutta l'umanità persa dal suo personaggio.
Il suo antagonista, Chang, interpretato magistralmente dal thailandese Vithaya Pansringarm, è il giustiziere che esercita la sua giustizia con una freddezza e una precisione angoscianti. La sua imperturbabile mitezza si scontra con gli improvvisi e folgoranti lampi di violenza. Un angelo della vendetta che si erge a giudice della criminalità, senza passato come l'One-Eye di "Valhalla Rising".
Senza emozione nell'uccidere. Perché Chang si sente come Dio. Premia il giusto e punisce chi ha sbagliato. Lo fa sfoderando una spada da dietro la schiena alla maniera dei samurai. Il taglio della mano è la punizione per impedire violenze future. È la divinità contro cui l'Edipo/Julius si scaglia senza voler realmente vincere. Chang è terribile come il Dio del Vecchio Testamento, onnipotente come il Dio Cristiano, punitivo come il Dio del Corano. Perché Chang è come Dio e come Dio dà e toglie. Ma soprattutto, solo lui perdona.
Giocasta/Chrystal è interpretata da una sfolgorante e ossigenatissima Kristin Scott Thomas, un'intuizione perfetta quella di prendere un'attrice abituata ai ruoli fragili e introversi e tirarne fuori una Lady Macbeth moderna. Il suo personaggio colpisce fin dal momento in cui si presenta alla reception dell'albergo e insulta la malcapitata dipendente, fino alla scena della sua morte, passando per la scena clou del ristorante cinese in cui invita a cena Julian. Lui non volendo andare da solo porta con sé Mai, la prostituta con cui si accompagna, ma con la quale non riesce ad avere contatti fisici. E' davanti a lei che offre il meglio di sé come madre castrante, con frasi tipo: "Povero Julian, non è stato facile per lui crescere avendo in casa un fratello maggiore più intelligente e con l'uccello enormemente più grosso".
Con "Solo Dio perdona" Winding Refn affina maggiormente il suo stile, e ci consegna una storia che dà luogo ad un lungo incubo onirico, un viaggio allucinato, crudele ma seducente, emozionante ma algido, che al piacere della visione fa coincidere la voglia di perdersi in essa.
Un capolavoro! Forse è troppo, di sicuro è cinema di qualità.
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Recensione a cura di Mimmot - aggiornata al 12/06/2013 15.38.00
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