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Andrej Tarkovskij e la religione.
Andrej Tarkovskij e lo spirito umano.
Andrej Tarkovskij e il dolore, la speranza, l'illusione.
"Stalker" è un film che non finisce mai di assumere nuovi significati e nuove connotazioni. Ogni volta che lo si studia e lo si penetra spuntano altri dubbi, altri stimoli per una riflessione sull'essenza di un capolavoro della storia del cinema che ha una forza immaginifica e allegorica forse unica.
Per introdurre il film ai nuovi adepti lo si potrebbe definire uno "studio dell'animo umano", un amaro (e realistico) approfondimento sulla nostra condizione di schiavi. Noi, uomini e donne, prigionieri dei nostri miti, delle sollecitazioni della società in cui viviamo: animali assetati di potere e di privilegi. E illusi, nella nostra naturale ingenuità, di poter così giungere alla felicità.
La "Zona" di Tarkovskij, terreno disabitato e incolto turbato da insondabili energie (forse) aliene, metaforicamente si pone come un luogo "neutro", esterno alla vita ordinaria, al contesto sociale che circonda la vita di ciascun uomo. Chi si reca nella "Zona" abbandona i suoi pregiudizi, la sua visione (filtrata) dell'esistenza; e si confronta con un luogo pericoloso, un "sistema irto di trabocchetti", come spiega la guida-Stalker che la "Zona" la conosce profondamente.
La "Zona" cambia continuamente, si evolve, si modifica negli elementi naturali che la compongono (compresi gli eventi atmosferici) perché rispecchia i moti dell'animo di chi vi si addentra. E smaschera i suoi fantasmi, le sue angosce.
Avventurarsi nella "Zona" significa, in parole povere, specchiarsi in un lago di acqua trasparente e cristallina. Solo che ad essere riflessa non è mai la propria immagine, ma la propria interiorità nuda e cruda.
Il viaggio dello Stalker, dello Scrittore e dello Scienziato (la Guida, l'Arte e la Scienza) prosegue con metafisica lentezza (al ritmo di carrellate al limite del ralenty e di silenzi lunghissimi) perché esso è, per l'appunto, scoperta di sé stessi, delle proprie paure. Un cammino spirituale, fra le perplessità dell'Arte e gli scetticismi della Scienza, che condurrà infine al luogo più prodigioso, e al contempo più pericoloso, della "Zona": la Stanza dei Desideri.
Questa "Camera" dal fascino mistico, in grado di realizzare le aspirazioni più recondite di chi la interroga, funge per Tarkovskij da elemento di "suspense" (viene raggiunta dai tre solo dopo un percorso estenuante), da metafora-principe e da chiave di volta per comprendere la poetica dell'intero film. Quando si arriva alla Stanza, dopo essere sopravvissuti ai cambiamenti e alle trappole della "Zona" del proprio animo, si dovrebbe essere pronti a varcare la sua porta e a mostrarsi per quello che si è: la Stanza, implacabile, restituirà (fisicamente o astrattamente) ciò che ciascuno realmente desidera nella sua intimità. Cosa rappresenta la Stanza? L'animo umano, certamente. Ma forse, più audacemente, personifica il Dio, quella divinità talvolta sfumata, ma imprescindibile, nella quale credeva l'ortodosso Tarkovskij. Perché la Stanza renderà giustizia e punirà gli esseri avidi, corrotti, meschini.
Né lo Scrittore né lo Scienziato, giunti sulla soglia, trovano il coraggio di entrare nella Stanza. Se lo facessero, quali desideri verrebbero realizzati fra quelle quattro mura diroccate, sperdute in una campagna immobile e inquietante? E' l'apoteosi della mediocrità, della corruzione. La conferma della durezza e della tetra ambiguità dell'animo umano. E dire che lo Stalker li aveva avvertiti tutti e due, nel bel mezzo del cammino: "La 'Zona' lascia passare soprattutto gli infelici, coloro che non hanno nulla e il cui cuore è perciò rimasto puro. Coloro che credono. Credono in qualcosa. La rigidezza e la stabilità, nella loro ottusità, sono compagne della morte, mentre la debolezza e la fragilità esprimono la freschezza dell'esistenza."
Proprio la capacità di "saper credere in qualcosa", in questo film ma più in generale nella poetica tarkovskiana, divide i disperati da coloro che coltivano qualche possibilità di elevazione spirituale o perlomeno di riscatto, nel cinismo imperante dei tempi che corrono. "Se l'umanità non ritrova i valori si condanna alla fine", gridava Andrej Tarkovskij, e la ricerca dei valori passa attraverso la riscoperta di quella fragilità, quella flessibilità indispensabile ad alleviare i dolori che l'esistenza riserva a ciascuno di noi e ad inseguire gli unici, possibili bagliori di felicità. Chi conosce la speranza? Solo colui che ha imparato a credere, che ha desiderato credere. E chi di noi potrebbe addentrarsi nella Stanza dei Desideri senza il terrore di essere esposto alle brutture del proprio spirito?
Dal punto di vista del linguaggio cinematografico, "Stalker" esprime la sua trasognata, ipnotica poesia attraverso inquadrature fisse piuttosto lunghe, spostamenti lenti dell'obiettivo e, in alcuni casi, insistenza sui primi piani dei protagonisti che parlano, talvolta interpellando direttamente lo spettatore con lo sguardo (come fa la moglie dello Stalker in uno degli ultimi fotogrammi). Le interminabili carrellate sui dettagli del paesaggio, a partire dagli oggetti sparpagliati alla rinfusa in varie parti della "Zona", assumono una forte connotazione metafisica e sembrano strizzare l'occhio a certi quadri di Giorgio De Chirico e Carlo Carrà: gli oggetti inquietanti potrebbero simboleggiare, nella loro misteriosa disposizione, l'enigma dell'Assoluto incarnato dalla "Zona" o (più concretamente) la condizione del nostro animo, fiaccato e impoverito da una storia, quella dell'uomo, segnata dalla guerra, dalla sopraffazione, dalla lotta per il potere.
Menzione finale per le musiche composte da Eduard Artemev: in un'atmosfera (quella della "Zona") carica di angoscia e pregna di sentori soprannaturali, l'effetto ipnotico-distorsivo ottenuto da sonorità così vibranti riesce a suscitare, contemporaneamente, un senso di fascino e di tenebrosa eccitazione.
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Recensione a cura di Matteo Bordiga - aggiornata al 09/11/2005
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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