Recensione strada sbarrata regia di William Wyler USA 1937
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Recensione strada sbarrata (1937)

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locandina del film STRADA SBARRATA

Immagine tratta dal film STRADA SBARRATA

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Immagine tratta dal film STRADA SBARRATA

Immagine tratta dal film STRADA SBARRATA
 

"TUTTE LE STRADE DI NEW YORK FINISCONO IN UN FIUME. PER MOLTI ANNI, LE LURIDE PANCHINE DELL'EAST RIVER CONFINAVANO CON LE CASE DEI POVERI, SICCHE' UN GIORNO I RICCHI SI ACCORSERO CHE IL PAESAGGIO SUL FIUME ERA IL PIU' BELLO DELLA CITTA', E COMINCIARONO A COSTRUIRE LE LORO CASE SU QUELLE RIVE... E ORA LE TERRAZZE DELLE VILLE SIGNORILI SI ALLINEANO AI TETTI DELLE ABITAZIONI DEI POVERI."

Precursore come pochi altri dei rebel movies degli anni '50, "Dead end" resta, per l'innovativo linguaggio cinematografico e la superlativa tecnica adottata, uno dei più importanti film americani della storia.

La sua celebrità, al di là delle ingenuità stilistiche, è dovuta al fatto che mai, al realismo poetico di un certo cinema americano e soprattutto europeo - pensiamo per es. ai francesi - si conciliava una denuncia sociale così illuminante e "scomoda".
Cineasti come Preston Sturges, Gregory Lacava, Melvyn Leroy, Frank Borzage uscirono, non senza difficoltà, dai clichè hollywoodiani, imponendo alle major storie di tutti i giorni, dove lo spettatore - americano in primis - poteva riconoscersi nella difficile transizione degli Usa post- proibizionismo, prima e dopo l'elezione e la presidenza di Roosevelt.
A dire il vero, sei anni prima di William Wyler e del suo film King Vidor aveva dichiaratamente adottato un meccanismo simile raccontando storie di vita comune in un film dal titolo emblematico: "Street scene" ("Palcoscenico della strada"), guardacaso interpretato anch'esso da una giovane attrice di nome Sylvia Sydney.

Rivedere oggi "Dead end" (da non confondersi con l'omonimo horror moderno) significa immergersi in quelle storie, in quei personaggi, viverli "dentro", come se non appartenessero esclusivamente a un immaginario cinematografico ma fossero identità celate di tanti volti anonimi, di tante esistenze dimenticate che Wyler ha voluto in qualche modo omaggiare nel suo film.
La prima impressione è che, per quanto il film possa sembrare datato, esistono nella storia del cinema decine di esempi di film "costruiti" in questo modo, a cominciare dai capolavori di Elia Kazan (il bellissimo esordio "Un albero cresce a Brooklyn" in particolare, e successivamente "Un tram che si chiama desiderio"), fino ad arrivare al recente esempio di Spike Lee ("Do the right thing").
La fusione di diversi elementi (gangster movie, noir, dramma sociale, film sentimentale etc.) contribuisce a renderlo ancora oggi un classico, che forse sfrutta la sua sincerità - più idealista che ideologica - al servizio della storia.

La rappresentazione della vita di quartiere non è volutamente epica come quella di Sergio Leone ("C'era una volta in America"), nè prevalgono elementi che possano precognizzare l'imminente arrivo del Neoralismo in Italia.
Eppure proprio i Dead End Kids, così battezzati attraverso un geniale battage pubblicitario dai mass-media dell'epoca, hanno non poche reminescenze con gli adolescenti senza futuro di Sciuscià della coppia Zavattini-De Sica.

Chi sono i Dead End Kids? Ma, soprattutto, di cosa parla "Dead end"?
Il titolo del film allude a quella zona dell'East River di New York dove i quartieri popolari e le ville lussuose vissero per un lungo periodo una addosso all'altra, come raccontato dal narratore all'inizio del film. E proprio in quel contesto, in quella falsa utopia di modello democratico, convivono tutte le contraddizioni della stessa democrazia, dove due mondi lontanissimi si scontrano, ognuno con le loro rivendicazioni materiali e sociali.

Qualcuno può benissimo tacciare "Strada sbarrata" di essere un film progressista, per quanto lo spirito del New Deal sia obiettivamente ancora presente anche nelle ragioni sociali della storia.
È quel piccolo mondo dove l'universo proletario fatìca a raggiungere la minima soglia di sopravvivenza quotidiana e il mondo borghese ostenta soprattutto la sua miseranda condizione di privilegiati.
Regista e produttore scelsero i Dead End Kids come rappresentanti "devianti" di quella normalità che è facile identificare con la microcriminalità e la delinquenza giovanile. Un fenomeno oggi sfruttato in ogni parte del mondo - si pensi al nostro Marco Risi di "Mery per sempre" e "Ragazzi fuori" - ma che all'epoca poteva essere l'ennesimo elemento di novità di un film costruito abilmente per spiazzare ogni tipologia di spettatore.

È facile prevedere che la realtà prese il sopravvento sulle intenzioni.
Infatti, "Strada sbarrata", pur essendo effettivamente un film notevole, riesce qua e là a sedare le sue inquietudini, imprimendo alla storia un alone romantico e idealista che frena in parte le sue aspirazioni sociali.
Veti imposti dai produttori? Materiale troppo esplosivo per lo spettatore d'epoca minato dalla condizione irreversibile di "distrarsi"? Forse. Ma anche il linguaggio utilizzato dal film, la spiccata veridicità della recitazione, è messa sotto accusa. Qui entriamo, già nel 1937, a far parte del cosiddetto metodo Stanislawsky, da uno script scritto da Lillian Hellman di origine teatrale, sceneggiato a sua volta da Joseph Hays, e girato interamente negli studios con un'esposizione formale degna di un'allestimento Brechtiano.

La storia potrebbe essere benissimo un plot tra i tanti, come enfatizzato dopo il successo del film dal suo quasi-sequel, "Angeli con la faccia sporca" (1938). Una tra le tante vicende che allude a un realismo sottilmente smorzato da un fortissimo alone di speranza.
I Dead End Kids vivono questo dualismo cercando di esprimere - e lo fanno benissimo - la loro autenticità, fronteggiati da un leader sofferto e "professionale" come Billy Halop, sconosciuto comprimario.

Non è tanto nel Bogey "Faccia d'angelo", gangster tornato nel vecchio quartiere dopo un'operazione di chirurgia plastica e in fuga dalla polizia, nè in un povero architetto, Dave (Joel McCrea) che l'appassionato di cinema deve trovare i primordi di un cinema allevato alla scuola di Lee Strasberg, ma proprio in questo ragazzino esordiente capace di attraversare minime facciali, paure, complessi, rancori e rimorsi come il Marlon Brando di quindici anni dopo, il primo e ultimo James Dean, il primo Paul Newman.
A Billy Halop è richiesta, come in altri film - pensiamo alla complessa disperazione in "Hanno fatto di me un criminale" (1939) - una "summa" dell'interiorità di un ragazzo cresciuto in un ambiente "difficile", dove un'incosciente "bravata" può diventare un atto teppistico, o dove la mente del ragazzo si perde, verso l'epilogo, tra desiderio di vendetta per un tradimento e l'angoscia di finire in riformatorio.

Più complessa l'interpretazione di Bogart, e, a dirla tutta, trasognata e amara più che mai. Il tema del gangster che torna nel vecchio quartiere era assai sfruttato anche allora, ma forse mai prima di "Dead end" si assisteva a un simile trasporto emotivo, a un pathos tanto struggente, quando Babyface, prototipo del Nemico Pubblico, sbeffeggia l'architetto Dave per tutto il prestigio e il denaro (rubato) di cui gode, per lo status raggiunto in barba ad ogni contesto morale possibile.

Per tutto l'arco del film si assiste gradualmente alla sgretolazione mentale del soggetto, a cominciare dal conflitto con Dave, trovando il culmine nel breve, intenso e doloroso, incontro con la madre che lo rinnega. È uno dei tanti schiaffi in faccia che Faccia D'Angelo riceve nel corso della sua breve e fatale visìta, senza contare l'incontro con l'ex-amante - un'indimenticabile Claire Trevor - costretta per necessità a scegliere "un'altra strada" per sopravvivere nel quartiere. Babyface sembra guardare con interesse i giovanissimi ribelli del quartiere e a trovare disdicevole la moralità della sua ex-fiamma.

In definitiva, Wyler esprime con coraggio queste amarezze, ma tende a semplificare la storia per ragioni forse commerciali. Un outsider come Dave, quasi perennemente disoccupato e diviso dall'amore di due donne di ceto diverso, si trova suo malgrado a diventare simbolo della purezza morale, e a consegnare il quartiere alla sua quiete (fatalista?) esistenziale.

"Strada sbarrata" sembra rivelarci che esiste anche l'"altra faccia della povertà", implicando il rigore morale come unica concessione a una vita duratura e migliore. Naturalmente è facile avvistare un certo buonismo politically correct in questo contesto, perchè alla fine le scelte di vita di Dave o di Babyface hanno entrambe un loro senso comune, al di là del dualismo tra il bene e il male.

È evidente che il formalismo del film, da taluni criticato per la rappresentazione teatrale di una realtà ben più complessa e devastante, consente soprattutto allo spettatore di ricercare l'effettivo contrasto tra i vari temi e personaggi e la loro negatività o positività... L'amore di Dave per Drina (Sylvia Sydney) è autentico ma contrastato dall'interesse per una ragazza ricca... L'anziano giudice agisce, nella sua crudele cecità, contro una forma a suo modo di vedere ripugnante di società. E l'effemminato, rigoroso nipote non è forse soltanto vittima dei suoi privilegi? In fondo, fin dalle prime immagini si percepisce il segno di una devastante solitudine.

Tra i comprimari, si segnala il personaggio di Ward Bond, portinaio rispettoso e remissivo di una condizione sociale che lo vede al centro dell'attenzione, tra i detriti della periferia e il contesto abbiente che "serve" per necessità.

Nel segno di un'illuminante ottimismo al di là della perenne condizione di fallimento - "prendi il tuo denaro e vattene con lei, hai bisogno di rifarti una vita", dice Drina a Dave - "Strada sbarrata" si chiude, letteralmente, arrestando le ambizioni e privilegiando i valori umani e affettivi.

Wyler esprime così - in maniera forse edulcorata - l'inconciabilità di due mondi diversi, la ricchezza e la povertà.

Nel lungo piano-sequenza, forse il più leggendario, dello scontro a fuoco tra Dave e Faccia D'Angelo, la mdp in presa diretta immortala lunghe scale antincendio, volti spauriti, il grigiore urbano di un "palcoscenico da strada" nella notte, quando il giorno si prepara a celebrare a modo suo il suo unico eroe... Nel segno della giustizia o del fallimento?

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Recensione a cura di kowalsky - aggiornata al 01/09/2010 14.41.00

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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