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Il cinema di David Lynch è un tipo di cinema fortemente influenzato dall'arte visiva e plastica.
Niente di strano, se si pensa che la formazione artistica del regista del Montana ha preso piede proprio dall'interesse dello stesso per l'arte pittorica, che lo aveva portato prima a frequentare i corsi della "Corcoran School of Art" di Washington D.C. ancora adolescente e poi, soprattutto, ad abbandonare il nuovo continente per il vecchio (anche se solo per poche settimane), nel tentativo di seguire le lezioni del pittore espressionista Oskar Kokoschka.
Anche le sue prime esperienze dietro la macchina da presa richiamano più una propensione alla videoarte che al cinema in senso stretto: nel 1966 produce, come compito di fine anno per il "Pennsylvania Academy of Fine Arts" l'ormai famoso "Six Figures Getting Sick", vero e proprio quadro in movimento che permetterà al nostro di produrre quello che sarà il suo secondo corto ufficiale: "The Alphabet".
La trama di "The Alphabet" è pressoché indefinibile: in uno scenario onirico, quasi da incubo, una ragazzina a letto è perseguitata dalle lettere dell'alfabeto, che provocano in lei un vero e proprio malessere, fisico e interiore.
La difficoltà nel definire una vera e propria trama nasce dal fatto che anche questo, come "Six Figures Getting Sick", è un ibrido distante dalla creazione cinematografica: un'opera sperimentale che combina animazione (da quella classica all'ormai famosa stop motion) a recitazione. Il risultato è un'opera surrealista che molto debito porta verso i quadri di Francis Bacon (pittore feticcio del regista) e che allo stesso tempo ricorda (forse per puro caso) i primi cortometraggi di Jan Svankmajer, artista ceco a Lynch quasi contemporaneo.
Il corto fu realizzato nel 1968 dietro commissione di H. Barton Wasserman, miliardario colpito dal precedente lavoro del regista, e dura solo 4 minuti. I temi trattati invece sono tanti e, seppur in maniera estremamente personale, sono quello dell'educazione, dell'istruzione, dell'apprendimento e, non ultimo, dell'infanzia.
Basta guardare il corto per rendesi conto di quanto per il regista questi siano temi negativi, temi che hanno sempre perseguitato Lynch e che furono alla base dei suoi inizi in campo cinematografico: basti pensare che il successivo cortometraggio "The Grandmother" e il suo primo lungometraggio, "Eraserhead", trattano a grandi linee l'infanzia, i problemi legati alla crescita e il tema della paternità.
In "The Alphabet" viene mostrato, attraverso un uso del colore e del sonoro fortemente alienanti, il senso di appiattimento che un tipo di educazione primaria come quella americana provoca nei bambini. Un vero e proprio spartiacque tra l'infanzia e la vita adulta, rappresentato da una nenia come la filastrocca dell'alfabeto.
Per Lynch infatti il linguaggio alfabetico, nel modo in cui viene imposto, è insieme conformazione al contesto sociale in cui si vive e svilimento degli altri metodi di espressione, come appunto quello visivo. Niente di strano quindi che il regista abbia scelto come mezzo per esprimere queste sue convinzioni un tipo di espressione più vicina a quella pittorica e sonora.
Le lettere, nell'opera, diventano esse stesse esseri viventi, organici, autosufficienti, figli ma anche genitori di un essere organico più evoluto: l'uomo, futuro genitore ma,soprattutto, futuro maestro.
L'alfabeto invece viene rappresentato con volto umano, un volto privo di occhi perché in realtà vuoto, senz'anima, ma dotato di bocca, simbolo del linguaggio, espressione di depravazione e corruzione. Tutto questo colpisce l'individuo, in questo caso il bambino, determinando in lui terrore e distruggendo ogni suo possibile futuro individualismo. La cosa avviene in maniera subcutanea, attraverso un esercizio di addomesticamento non dissimile, per meccanismo, dall'imparare a memoria (per l'appunto) una filastrocca.
Anche per questo Lynch descrive l'educazione come un'operazione inconscia, che ha in se tutte le caratteristiche dell'incubo: la protagonista del corto infatti è una bambina costretta a letto. L'atto finale di vomitare sangue è inequivocabilmente sintomo di disagio interiore, di una ferita provocata dalle istituzioni che si potrebbe rivelare mortale sulla individualità del bambino.
A metà strada tra racconto autobiografico (il sentimento di "ribellione" nei confronti della comunicazione vocale/scritta che colse lo stesso regista e lo portò ad abbracciare un tipo di comunicazione prettamente visivo) e biografico (l'idea del corto fu suggerito da un incubo della nipote di Peggy Lentz, all'epoca giovane moglie del regista e unica attrice nel film, che durante la notte recitò l'alfabeto urlando), il secondo corto della carriera di David Lynch è un'opera che non andrebbe spiegata ma vissuta, come tutta la cinematografia dello stesso regista. Il terrore di un'educazione alienante e conformante si rifletterà, più in là, sul terrore della paternità.
Rimane intatta invece l'analisi sociale del regista, il suo analizzare il lato nascosto delle cose, i retroscena di una realtà mai chiara e proprio per questo mai banale.
"Per favore, ricordati che devi concordare con la forma umana"
dice ad un tratto la bocca, nel corto. Il messaggio è inequivocabile: ricordati di essere come tutti, le differenze nella società in cui viviamo non sono tollerate, la stranezza fa paura.
Questa è la lezione che David Lynch non ha mai imparato. Per fortuna. Altrimenti non avremmo avuto i suo quadri, le sue musiche e, soprattutto, i suoi bellissimi film.
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Recensione a cura di Zero00 - aggiornata al 01/03/2011 10.58.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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