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Nel panorama poco edificante dei film sulla danza, certamente "The Company"si distingue quanto meno per l'apprezzabile intenzione di un regista della statura di Robert Altman di restituire all'arte tersicorea parte del suo faticosamente e non del tutto conquistato statuto, anche per quanto riguarda la possibilità di una sua messa in scena attraverso lo strumento cinematografico.
La proposta parrebbe voler essere quella di costruire un film effettivamente "sulla danza", con particolare rilievo all'elemento coreografico e al suo rapporto con la macchina da presa.
Le coreografie sono indubbiamente ottime sia per tecnica (perfetta nei ballerini chiamati a recitare nella parte di loro stessi, eccezion fatta per la Campbell, che ha tutte le ingenuità tipiche della ballerina non professionista), che per impatto visivo. Il montaggio e la resa delle immagini gestiscono magistralmente l'ovvio limite della performance non fruita dal vivo, e alcune inquadrature dei danzatori durante gli spettacoli strappano l'applauso. L'impressionismo della resa cromatica, la dirompente forza della musica che incornicia la solidale figura del corpo di ballo, incantano per potenza e, semplicemente, bellezza.
Qui si riconosce la firma Altman, per l'attenzione alla coralità delle coreografie, l'allusione allo spirito aggregativo del gruppo proiettato al comune obiettivo, e tuttavia rimane, mai ricomposto, lo strappo intuitivo (senza dubbio intenzionale) fra narrazione e immagini.
Nonostante i velleitari e ripetuti input sul rapporto fra cinema e danza, o meglio, fra immagine e movimento (discorso che difficilmente si lascia sorvolare, Bergson e Deleuze su tutti non sono passati invano), la sensazione finale è quella di un film approssimativo, che milita al di qua o al di là di un confine da lui stesso creato.
O dalla parte della coreografia, o dalla parte della storia, che per quanto sapientemente delineata manca al suo posto, togliendo efficacia all'opera nel suo complesso.
Altman ci propone infatti una trama ossificata, con sceneggiatura quasi assente, dialoghi scarni e scarsi di contenuto, ripercorrendo polemicamente (con malcelato passo incerto) il consueto clichè degli sporadici film sul balletto, solitamente relegati ad una sottocategoria del genere cinematografico.
L'articolazione narrativa è ancora una volta codificata: la ballerina Ry (Neve Campbell) fa parte della prestigiosa compagnia Joffrey Ballet di Chicago, a cui dedica una riservata fatica, barcamenandosi fra un amore finito male (rigorosamente con un compagno che le preferisce un'altra danzatrice) ed un altro appena iniziato (con un ragazzo qualunque, usuale escamotage per incastrare nella trama la difficoltà da parte di un danzatore di conciliare carriera e vita privata). Il tutto avviene in un contorno appena accennato di lavori saltuari per pagare l'affitto, madri invadenti vagamente alcolizzate, lezioni estenuanti, infortuni e piedi ulcerati dalle scarpette da punta (che peraltro la Campbell, a differenza delle colleghe, non usa mai).
Più marcato vorrebbe essere il ruolo del vezzoso direttore della scuola, indiscusso leader carismatico della compagnia, affidato all'interpretazione di Malcom McDowell. Anche in questo tuttavia, viene meno il complesso intreccio psicologico che salda il rapporto fra coreografo e ballerino, e il tutto si riduce all'ossequioso star sull'attenti di una pletora di insegnanti e aiutanti, rimproveri mascherati da benevoli suggerimenti, capricci imposti e quasi mai discussi, digressioni embrionali su tematiche di rilevanza sacrosanta (l'Aids, la danza inesorabilmente associata ad un gusto femminino da precludersi agli uomini).
Imperdonabile poi, a ben guardare, la benché minima allusione all'elemento competitivo all'interno del gruppo, che davvero toglie credibilità a qualsivoglia velleità realistica da parte del film.
Altman sembra quindi scarnificare volontariamente l'aspetto individuale della persona-danzatore in una sorta di presa di distanza intellettuale: ci viene forse richiesto di intuire la demistificazione proprio di quei clichè che ci vengono proposti? Se anche si volesse supporre un maldestro sottofondo critico, una presa di posizione su quella messa in scena di corpi e nient'altro che spesso viene confusa con la danza, il bersaglio in ultima analisi sembra restare intatto e la potenza dell'intenzione cede il passo ad un autocompiaciuto tributo a se stesso da parte del regista e del proprio strumento.
Resta in definitiva il sospetto di un'altra occasione persa per poter parlare di danza umanamente (questo sì definitivo riconoscimento), al di là del nervo teso durante la piroetta, e scavando a fondo nella faticosa conquista quotidiana della persona che fa dell'imparare il proprio modus vivendi, e che non smette, non deve smettere mai, di scavalcare se stesso, i propri limiti, le proprie abilità. Di quel personalissimo sottofondo di paura e fierezza che ogni ballerino sente dentro di sé, della commistione quasi schizofrenica fra disciplina e libertà di sentire e far sentire se stessi, in questo film poco rimane.
Le dilatate sequenze coreografiche che scandiscono la storia, comunque, consolano in parte l'occhio appassionato dall'ennesima delusione di un sedicente missile intergalattico che ritorna indietro fatto a pezzi. Sarà per la prossima volta.
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Recensione a cura di aura tiralongo - aggiornata al 12/09/2006
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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