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"Guardo e vivo con me stesso ogni giorno"
Charles Manson
L'attrazione morbosa della gente comune per gli assassini efferati deriva molto probabilmente dall'Iconoclastia di certi efferati delitti. E' una forma distruttiva e al tempo stesso onnipotente di rimozione umana, che assume i connotati di una disperazione impossibile, o del degrado inviolabile della pietà. Non è forse meno ardita del traguardo di un campione olimpionico, o meglio ancora di un appassionato di sport estremi, per quanto votata al nichilismo assoluto della devianza psichica, o del disprezzo artificiale verso ogni forma di vita. Sul trionfo della follia rispetto alla ragione fior di letterati e musicisti hanno sprecato fiumi d'inchiostro e di note, a condividere con la loro personale forma d'Arte quella Paura ancestrale alla quale l'uomo fa riferimento, quella che nega l'esorcizzazione e anzi si espande alla ricerca perpetua del male. L'hanno cantato gli Slayer, Nick Cave con le sue Murder Ballads, Ozzy Osbourne, Diamanda Galas, i Talking Heads e molti altri. La truculenza iconografica del dark o del black metal nordico ha aggiunto nuove inquietudini in questo senso.
Gli spettatori possono restare affascinati dalla maschera diabolica del "mostro" che vedono sullo schermo, ma in realtà devono esorcizzare la paura che provano, e l'impatto è ancora più urticante se si percepisce dall'esterno, ad esempio nei fatti di cronaca reale. Anni fa potevamo obiettare certe perplessità sulla trilogia di Hannibal Lecter (separata dal pre-capolavoro di Micheal Mann, "Manhunter"), per l'ineffabile seduzione che esercitava sugli spettatori. Ma quanti di noi hanno potuto provare disprezzo per un nichilista tanto adorabile, quasi come fosse al di sopra degli altri nella sua giostra di morte?
"Non riesco ad affrontare i fatti, sono teso e nervoso. Non posso rilassarmi non dormo perché il mio letto è in fiamme. Non toccarmi, sono un vero filo elettrico"
Psycho Killer - Talking Heads
"The Iceman", il bel film di Ariel Vromen, ha un impatto completamento diverso. E tragicamente epico, quasi stoico nel tratteggiare la "normalità" di un assassino riuscendo a condensare la brutalità dei gangsters di Scorsese-De Niro alla follia di certi drammi Elisabettiani o Shakesperiani. L'effetto straniante è dovuto alle molteplici intuizioni del regista, che in fondo fa leva unicamente sul contesto morale.
La figura di Richard Kuklinski, uno dei più spietati criminali della storia, si avvale del volto e del ghigno sardonico di Micheal Shannon, abilissimo a smascherare la gelida dimensione del carnefice, ma con qualche forzatura scenica in più. Se cercate sul motore di ricerca il volto del "vero" Kuklinski vi apparirà la faccia comune di un uomo ordinario, quasi come uno dei tanti self-made man che hanno vissuto e operato negli States. La vera "mostruosità" di K. Ci viene svelata poco dopo. Quest'uomo, inizialmente al servizio della mafia italo-americana, si è macchiato di circa 200 delitti, ma i particolari più raccapriccianti riguardano la sua "abilità" nel sbarazzarsi dei cadaveri. In certi casi, metteva una telecamera fissa - ah l'angustia legge del mezzo cinematografico, gli snuff movies sembrano roba da dilettanti al confronto - lasciando che i loro corpi venissero divorati dai topi. Usava ogni tipo di arma da fuoco o da taglio. Scopriva nel cianuro la possibilità di depennare totalmente una qualsiasi traccia temporale sull'ora del decesso. La denominazione di "Uomo di ghiaccio" deriva dal cadavere di una delle sue tante vittime, tenuto congelato per due anni in un frigorifero.
Il film di Vromen contrappone però la "normalità" del Male al Bene, dovendo però interrogarsi su altri fattori. Già l'inquietante doppia personalità di Micheal Shannon ne esce ridimensionata, visto che è di gran lunga più scoperta (e per questo meno inquietante, per quanto sembri paradossale) rispetto al "vero" Kuklinski. L'escalation di K. non diverge poi molto da quella di altre onorabili carriere di gangsters viste al cinema da Scorsese, Sarafian o Tarantino. Siamo quasi dalle parti di "Goodfellas", a cercare l'affidabilità del Potere criminale in mano a uomini che conoscono certo la sopraffazione e l'omicidio, ma senza troppe elucubrazioni mentali, in barba al sodalizio che sposa una crudele lucidità alla patologia mentale.
E per queste ragioni Micheal Kuklinski, l'uomo che sfrutta la malavita per le proprie ossessioni, è un psyco-killer atipico e interessante. Un individuo che scopre quanto la sua tipica attitudine criminale trovi libero sfogo nella violenza "su commissione". L'escalation di Kuklinski-.Shannon ha, nel film, il respiro classico di "Scarface" di De Palma, almeno quanto un omicidio dalla panchina di un parco che potrebbe vedere tranquillamente, al suo posto, il De Niro di qualche decennio fa.
"Un punto da chiarire è se la malattia determini il delitto o se il delitto stesso, per virtù proprie, non sia sempre accompagnato da qualche fenomeno morboso"
Delitto e Castigo - Fedor Dostoevskij
Questa citazione di Dostoevskij esprime forse il dualismo della personalità di Kuklinski. In generale, i psyco-killers si impongono come figure solitarie, come il Peter Lorre di "M", come l'assassino di "The Lodger". L'omicida come singolo individuo, svincolato da legami o complicità, in perenne conflitto con se stesso, mai che arrivi a quel bisogno di riscatto dall'ombra con l'aspettativa di una vita comune a molti altri, alla ricerca di un'impossibile affinità.
L'esistenza di K. è anche quella di un uomo rispettabile, un padre affettuoso e un marito devoto, ammogliato ad una bella italo-americana, Barbara Pedrici, sempre o quasi all'oscuro del demone che vive accanto a lei. Ma non è del tutto rassicurante questa sua falsa identità. I fotogrammi del suo esilio dorato nel rito familiare portano K. - o perlomeno il K. del film - a declamare James Stewart per poi trovarsi davanti la redenzione negata di un Tom Stall, ovvero il Viggo Mortensen di "History of violence".
Colpisce l'abilità dell'autore di descrivere l'assassino su commissione fino al sempre più logorante assedio dei suoi conflitti mentali. Se esiste una Norma sul crimine questo è l'aspetto più intrigante del film. E altrettanto la sua figura familiare, trait d'union tra la società repubblicana e i conflitti irrisolti di natura progressista. Nel suo bisogno di "proteggere" la propria autodifesa, o i riconosciuti affetti traditi, K. sembra vedere estinguersi drammaticamente le sue illusioni di normalità.
"Talvolta ho l'impressione di essere all'inseguimento di me stesso…voglio fuggire…fuggire da me stesso. E il giorno dopo leggo sul giornale quello che ho fatto, leggo, leggo… ho veramente fatto questo?"
Peter Lorre in "M" di Fritz Lang
Esiste anche una sorta di predisposta ambiguità, nel film, di cui il regista si prende una discreta fetta di responsabilità. E' tutta nel mondo abbiente, agiato di Joseph Micheal Kuklinski, nel suo essere, dopotutto, l'Uomo che regala alla propria moglie e alle tre figlie tutto quello che desiderano. Possibile che Barbara - nella notevole interpretazione di Wynona Ryder - non si sia mai accorta di nulla? Possibile che non abbia mai avuto dubbi sulla provenienza del denaro? Torna alla mente il Patrick Bateman di qualche lustro fa, e di certo la manipolazione del denaro come Potere assoluto da rivelare una sorta di tragica immunità sociale. Ma il dramma che si libera alla fine sembra concedere solo spazio alla squallida solitudine di una condanna, senza concessioni sentimentali al bisogno di comprare gli affetti perduti, e a lungo vanificati. Lo spettatore ne rimane coinvolto, vittima anch'esso del fallimento di un benessere mendace e letale, di una previsione funesta già ampiamente descritta in un drammatico confronto di famiglia. La chiave di lettura principale del film è tutta nella sequenza della visita del fratello in carcere, che suona come un pernicioso passaggio di consegne… biblico. Caino e Abele vengono "uccisi" dalla stessa colpa, divisi tra chi è stato precocemente tolto di mezzo dalla società e chi vorrebbe giocare la sua ultima carta, fino allo stremo delle conseguenze...
"La storia non è che un quadro di delitti e sventure"
"L'ingenuo" - Voltaire
L'ambivalenza di K. sta tutta nell'interpretazione di Micheal Shannon. E' un po' l'Uomo ideale di una società condannata all'estinzione, il sicario perfetto di un romanzo di Landsdale o Gischler, o il psyco-killer agghiacciante che perde a poco a poco la sua lucida follia. E' l'individualismo sfrenato che colpisce Cole Frankel (Ray Liotta, guarda caso) nel suo dannoso potere, o forse un quarantenne che si ostina a proteggere quasi amorevolmente la propria famiglia (il dramma dell'"incidente" alla figlia minore). O magari l'imperturbabile fuorilegge socio di un tardo-hippy che difende la sua rassicurante "onestà omicida" (?!).
Da qualche parte, si legge con profusione di dediche che quanto si è visto sullo schermo è troppo logorato dall'abitudine. Prendete le ultime immagini e reclamate spiegazioni. Un uomo solo, la devozione e l'inganno. Che non cancella né estingue l'orrore e la difesa.
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Recensione a cura di kowalsky - aggiornata al 14/12/2012 16.47.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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