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"Quando si svegliava in mezzo ai boschi nel buio e nel freddo della notte allungava la mano per toccare il bambino che gli dormiva accanto. Notti più buie del buio e giorni uno più grigio di quello appena passato. Come l'inizio di un freddo glaucoma che offuscava il mondo".
("The road", Corman McCarthy)
Il cinema fatica ogni volta di più a rappresentare il nostro immaginario ed a concretizzarlo nelle paure ataviche di una profezia futura. Sembra arrendersi all'evidenza, all'impossibilità di creare uno spazio, una lettura inedita, anche attraverso le minacce - sempre meno improbabili - dell'universo letterario.
Il cinema contemporaneo sembra complice di una maschera, per cui, per quanto discutibile, il volto divistico di Will Smith nella recente versione cinematografica di un classico Mathesoniano ("Io sono leggenda") assiste inerme alla fine definitiva del blockbuster classico, consegnato ai posteri di una tangibile prospettiva "umana".
"The road" non è forse soltanto la "cartolina inerte di un'apocalisse prossima ventura", come ha duramente giudicato Paolo Mereghetti sul "Corriere", ma travisa lo spirito di un romanzo universale come quello di McCarthy oltre che deludere le tante aspettative della critica e degli spettatori.
Il "viaggio" di un uomo e di suo figlio davanti alle macerie di un mondo perduto, di una civiltà distrutta e senza speranza, non può e non deve ridursi all'aspetto iconografico di uno scenario apocalittico di una certa suggestione visiva (l'ottima fotografia di Xavier Aguirre, così scarna e sommessa, così sinistra e placidamente terrificante!).
Hillcoat affonda nelle pieghe del bellissimo romanzo di McCarthy senza lasciare traccia: l'eterna e inesorabile sopravvivenza (e lotta contro o in favore di ogni anelito di speranza) dei due protagonisti sembra essa stessa denutrita dalle ambizioni mccarthiane, che osava sfidare ogni regola sconfinando l'atrocità del mondo distrutto nei territori della fede perduta (Cristologica, forse), del plausibile assassinio di un padre verso il proprio figlio, dell'amore che annienta la morte, della separazione "divina" con la sacralità della famiglia, del terribile dramma umano dell'Uomo che non riconosce più il senso della propria esistenza, nè il suo habitat naturale ("Forse per la prima volta capì che ai suoi occhi lui era un alieno. Un essere venuto da un pianeta che non esisteva più").
Il problema di "The road" è che, pur essendo apprezzabile lo sforzo del regista di preservare l'ambientazione del romanzo in ogni suo aspetto, senza cercare facili espedienti commerciali, resta un film inerme, come la psicologia dei suoi personaggi. Il dolore della vicenda, per quanto presente, non riesce a provocare sussulti, ma soprattutto non provoca l'angoscia che le pagine di McCarthy riuscivano a preservare: pagine che raccontano una morte annunciata ma non solo, che rivelano una fine che può dare inizio a una nuova era piena di incognite e di punti interrogativi. Vorremmo uscire dalla nostra passività di spettatori e viverlo dentro di noi, questo film. Vorremmo poter esalare gli ultimi respiri nella stessa circostanza, ed evadere dalla nostra finzione, dal modo improprio e assurdo con cui esorcizziamo le paure.
Nulla, non accade nulla: lo spazio cinematografico ci racconta di un'uomo e del suo bambino, vestiti da barboni, mentre vagano per giorni davanti a una breve eternità ("Come il mondo morente abitato dai nuovi ciechi, che lentamente si cancellava dalla memoria").
Le pagine di McCarthy, nel loro lirismo apparentemente poetico, erano/sono semplicemente sublimi, ma al tempo stesso la sublimazione del dolore non portava alcun beneficio nel lettore: un libro di eccellente fattura può anche essere una faticosa lettura se è capace di evocare gli spettri del nostro immaginario e di costringerci a trascorrere tanto, troppo tempo.
Nonostante il suo approccio stilistico epico-narrativo, il film non "aliena" lo spettatore dalla sua funzione passiva, nè lo incoraggia a riflettere.
Attraversato dall'amore di un uomo per il proprio figlio, il romanzo ne definisce sottilmente la sua ambiguità, mentre nel film questa percezione non viene presa abbastanza in considerazione: soprattutto nelle sequenze dove il giovanissimo interprete (Kodi Smit-McPhee) dimostra, anche nelle difficoltà, una forza e un coraggio superiore al padre, il regista sembra voler rassicurare lo spettatore che non ci saranno esiti imprevisti, ma è evidente che non ha alcuna intenzione di alluderli.
Definito dalla stampa americana senza mezzi termini "il film più importante dell'anno", "The road" è un'opera non priva di meriti, ma che sembra quasi conciliante col fatalismo forzato che filtrava, ma con un'infinità di sfaccettature in più, nel testo di McCarthy.
Le atmosfere rievocano la fantametafisica del sottovalutato "Quintet" di Altman, ma non c'è vera rabbia, privo com'è il film della disperazione che interagiva anche visivamente nelle durissime parole dello scrittore ("Lui ci provava a parlare con Dio, ma la cosa migliore era parlare con il padre, e infatti ci parlava e non lo dimenticava mai").
I flashback che rievocano un passato felice, una sorta di post-mortem cinematografica, non fanno altro che immortalare una Charlize Theron vittima designata (precoce, nello stretto ambiente familiare della famiglia a tre) di un mondo destinato all'estinzione.
Sospeso in un tempo infinito, invece, l'universo della deflagazione non si pone più interrogativi nè libera (se non per un istante) gli istinti primordiali, incapace di esprimere gli interrogativi di McCarthy sulle conseguenze delle azioni dell'uomo, sulla verità celata della catastrofe, sui vertici dell'uomo annientati dalla stessa umanità ritrovata, rada e sperduta, tra le macerie, come nella lotta alla sopravvivenza di milioni di anni fa.
Resta, vero, la notevole prestazione degli attori e dei comprimari: uno strepitoso Montensen, non ancora liberato dai suoi trascorsi epici, ma tremendamente meditativo nella sua illuminante alienazione umana, una Theron sempre più prossima a liberarsi dalle sue antiche esperienze "fatali", e un paio di brevi ma intense apparizioni di Guy Pearce e soprattutto di un irriconoscibile Robert Duvall.
Ma la stessa intensità non sembra trasparire nel film: una fotografia che risalta la decadenza di un mondo privo di luce e di vita (con una vaga ma delirante incursione horror) sembra purtroppo apparire distante, sconnessa, persino in un set estraneo agli stessi interpreti.
E l'Uomo? Non sarà forse l'incomprensione ideologica tra romanziere e autore un segno del suo inesorabile declino? L'estinzione o l'istinto visionario (perciò impercettibile) delle SUE paure?
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Recensione a cura di kowalsky - aggiornata al 21/05/2010
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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