Recensione the village regia di M. Night Shyamalan USA 2004
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Recensione the village (2004)

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locandina del film THE VILLAGE

Immagine tratta dal film THE VILLAGE

Immagine tratta dal film THE VILLAGE

Immagine tratta dal film THE VILLAGE

Immagine tratta dal film THE VILLAGE

Immagine tratta dal film THE VILLAGE
 

Se volessimo trovare un limite (limite, non difetto) a questa sesta opera dell' indo-statunitense Manoj Night Shyamalan – la quarta di peso, se si tralascia di considerare le prime due produzioni indipendenti – questi potrebbe essere che si tratta di un film da prima (e unica?) visione, avente dalla sua principalmente l'arma della seduzione, del travestimento, dell'inganno, della suggestione, molto più efficaci quando si è all'oscuro dello sviluppo della storia. Ma non è detto.
E', inoltre, un film personalissimo, che aderisce su un individuo invece che su un altro come la pelle sul proprio corpo, un film da prendere o lasciare, come dimostra l'evidente fenditura nell'inamovibile muro della critica.

A chi non avesse visto il film si consiglia pertanto, dopo questa doverosa premessa, di interrompere la lettura della seguente recensione, qualora non si voglia rovinare una possibile futura esperienza memorabile.

Convington è un piccolo villaggio americano della Pennsylvania, pacata dimora e riparo di una comunità ottocentesca come tante, col suo consiglio di anziani, il suo saggio, il suo personaggio fuori dagli schemi e il suo matto particolare.
La stranezza del villaggio sta nel bosco circondariale, che costituisce uno schermo dalla "Città" per via di misteriose creature che lo abitano, le quali non permettono il passaggio agli umani, ma allo stesso tempo si obbligano a non uscirne, secondo i dettami di un patto stipulato tempo addietro con gli anziani. Una stranezza con la quale, come spesso accade, tutti si abituano a convivere.
Ma l'esistenza del problema ricomincia a palesarsi con macabri avvertimenti: animali scuoiati lasciati morti nel villaggio, un violento gesto che gli anziani attribuiscono inizialmente, con poca convinzione, a coyote di passaggio.
Lucius però, ragazzo di poche parole insofferente ai segreti che popolano "ogni angolo di questo villaggio", è convinto che per venire a capo del problema bisogna recarsi nel bosco ed entrare in contatto con le creature, le quali avrebbero lasciato passare illeso Noah, lo scemo del villaggio, proprio in quanto scemo; sarebbero dunque dotate di una certa umanità che permette loro quantomeno di discernere l'innocenza dalla malintenzionalità.
Nel frattempo Lucius si innamora di Ivy, una sensibile e graziosa ragazza cieca; questo gli costa un'adirata e sofferta reazione da parte del disperato Noah, segretamente innamorato di lei, che lo pugnala in silenzio e più volte.
Per salvare Lucius, speranza dell'intero villaggio, Ivy è pronta ad andare in città attraversando il bosco, e a conoscere il mistero che lo circonda.

Nella prima parte di "The village" lo spettatore è un visitatore della comunità, una pedina incosciente come i giovani del villaggio, che viene iniziato alle sue regole.
Convington è l'embrione della civiltà moderna, più precisamente identificata con l'America, ma anche una sua possibile proiezione, come vedremo in seguito; una cittadina che rifugge dagli schemi sia di un'America tollerante che puritana, proprio perché non contempla altri sistemi di vita possibili al di fuori del proprio, un'astrazione dalla contemporaneità (ci riferiamo sempre a quella americana), la quale non ammette cellule singole e isolate, ma solo inserite in una fitta trama, interconnesse e condizionate tra loro.
Convington è appunto quella comunità ideale e perfetta (?) che solo può stare alla base o alla fine di tutto, che si sostiene su un ferreo tradizionalismo, bandisce del tutto il denaro e fa dell'oligarchia degli anziani le sue fondamenta, la forma politica primordiale per antonomasia. Una forma politica, quest'ultima, che sembra il tanto auspicato governo dei saggi proposto da Platone ne "La Repubblica" e per la quale è ancora più valido l'antico interrogativo "Chi custodirà i custodi?" dello stesso filosofo greco.
Le limitazioni, quindi, sono saggiamente imposte dalle regole del quieto vivere, secondo le quali, se si lascia indisturbato il vicino, questi si comporterà di conseguenza.

In questa prima parte il film adotta il ritmo e le tipologie dell'horror: rapide sequenze che spezzano la continuità e lasciano in sospeso, splendide carrellate sulla natura impenetrabile, un senso del mistero che va amplificandosi, un eccezionale uso dei colori che si caricano di significato.
Molto suggestive, in particolare, le scene con il rosso, il colore bandito perché attrae le creature: un mazzolino di fiori subito sotterrato, delle bacche, un mantello nell'oscurità e poi le porte segnate, un avvertimento che trae il proprio valore oscuro dalla tradizione biblica e romanzesca.

Nel bel mezzo di un quadro così orrorifico e minaccioso si inserisce la storia di Lucius e Ivy. In un mondo, quello di Shyamalan, dove l'eroe da fumetto ha tanta parte (come succede, in maniera abbastanza esplicita, in "Unbreakable"), Lucius (Joaquin Phoenix) assolve qui il ruolo dell'eroe silenzioso, unico che tenta di affrontare il problema e di vederci chiaro in una generalizzata situazione tipica da elefante nella stanza. Ivy (Bryce Dallas Howard) è il suo complemento femminile, altro personaggio positivo, carico di fede e amore.
E' straordinaria la fiducia con cui la ragazza cieca si affida alla mano di Lucius, ergendo la sua in segno di richiesta d'aiuto e di conforto: egli è un eroe romantico, che fa dell'amore la sua forza e il suo scudo, inarrestabile di fronte a qualsiasi minaccia.
"Ho paura come tutti gli altri solo quando penso che tu possa essere in pericolo" dice Lucius, e in questa confessione si rivela la preponderanza delle paure interne su quelle esterne, il terrore di una perdita e del vuoto dopo di essa, sul cui terribile potere gli anziani del villaggio, tutti reduci da importanti lutti, hanno ben saputo ammaestrare i loro figli.
E' lo stesso terrore interiore che spinge Ivy ad attraversare il bosco per curare Lucius ferito, a superare il timore per l'ignoto, per l'esterno, per l'estraneo, con l'amore, ancora una volta, a far da armatura. Questo ci conduce finalmente alla terza parte.

Il segreto che invade il villaggio, su cui si fonda apparentemente tutto il film, viene svelato tramite un sapiente montaggio in parallelo tra l'ingresso della ragazza nel bosco e il momento in cui il padre le mostra le maschere delle creature, nascoste in un capanno abbandonato; lo spettatore viene così a coincidere totalmente con Ivy.
La leggenda delle creature malevole è dunque uno spauracchio, una montatura architettata dagli anziani del villaggio per evitare la fuga dei giovani verso la città, il luogo in cui ciascuno di loro aveva vissuto un'esperienza dolorosa: un espediente per la perpetuazione tranquilla della comunità, che solo lo sciocco Noah aveva smascherato, e aveva contribuito inconsciamente ad intensificare con lo scherzo degli animali scuoiati.

Dopo un ultimo picco di tensione nel bosco, il ritmo si può nuovamente rilassare in città, dove un ranger comprensivo aiuta la giovane sperduta portandole le medicine richieste.
Il film si chiude con Ivy che torna al capezzale del suo amato sussurrando "Eccomi Lucius", lasciando presagire una grande speranza, ma anche un ciclo che ricomincia e si protrae. In perpetuo?

Innanzitutto, una considerazione sul colpo di scena finale. Tanti sono rimasti delusi da una virata di genere così decisa, aspettandosi magari di veder comparire creature spaventose in grado di non sfigurare di fronte a una così soddisfacente premessa. In particolare le accuse mosse a Shyamalan sono quelle di aver girato un horror/ non horror, costruito esclusivamente sull'inganno, su promesse non mantenute. Se fossi il regista, potrei rispondere, appagato: "E' esattamente così".

Le storie di Shyamalan non sono mai dominate da un orrore concreto e tangibile, né possono essere annoverate tra i racconti del terrore che fanno del macabro, di barocchi estremismi e di compiaciuta violenza i propri mezzi a disposizione. L'orrore è invece profondo e viscerale, scaturisce dall'interno e si estrinseca, per questo, con maggior vigore.
E' infatti consuetudine di questo regista trattare soggetti dalla psiche devastata (il pastore che ha perso la fede, interpretato da Mel Gibson in "The signs") e incutere paura con minacce ignote, incolori e inodori (esemplificativa quella di "E venne il giorno"). Che poi a volte non riesca, è un altro discorso. In ogni caso, tutti ricorderanno "Il sesto senso", l'horror psicologico che l'ha consacrato, anch'esso con fortissimi connotati psicoanalitici.
A parer di chi scrive, "The village" resta l'indubbio capolavoro di Shyamalan, sia visivamente, che per carica emotiva e per come riesce a condensare tutte le tematiche a lui care in perfetta armonia, senza sfociare nel ridicolo, raggiungendo livelli espressivi e concettuali altissimi e una maturazione artistica mai più eguagliata.

Rischiando di rasentare il banale, l'interpretazione meglio accetta e condivisa di questo film è quella che lo vuole un'allegoria degli Stati Uniti post 11 settembre, come già accennato prima.
In realtà, incasellare ogni film in un ben preciso quadro è sempre mortificante; dopo quella data, le persone sembrano vedere lo spettro degli states da tutte le parti, o comunque ovunque si faccia cenno ad un popolo e ad una democrazia. La portata va estesa: Convington può essere un qualsiasi paese del mondo, esistente-esistito-progettato-sognato, che si sia chiuso a riccio in difesa dall'incedere del mondo esterno, dal consumismo, dalla globalizzazione, anche dal denaro, "una cosa cattiva, che fa diventare nero il cuore degli uomini".
Esistono realmente tribù in Africa o in Sud America in tali condizioni, ma qui si parla di una cosa diversa: un villaggio isolato nel cuore dell'America e dell'occidente industrializzato. Lo spirito della New Harmony di Shyamalan è improntato all'associazione: gli anziani fondatori sono fuggiti a gambe levate dalla Città, la quale cominciava a diventare luogo troppo stretto e opprimente che portava, inevitabilmente, al dolore.
Il villaggio, così isolato, regredisce cronologicamente e assume un aspetto al giorno d'oggi scomparso dall'occidente; le storie sulle creature, oltre a ricreare l'ammaliante atmosfera di tempi andati fatti di superstizioni e credenze, rinvigoriscono la barriera fisica costituita dal bosco, con un ben più efficace ostacolo psicologico. E' in questo senso che i colori vanno a vestirsi di una carica semantica, laddove il rosso non può che, ovviamente, rappresentare il peccato e il delitto tagliato fuori dall'idilliaca comunità, e il giallo, colore dei mantelli usati per avvicinarsi al bosco, un simbolo di inoffensività.

Decisamente più calzante è la metafora dei governi che mantengono l'ordine instaurando regimi di terrore, tematica millenaria ancora attualissima, nella quale molti filosofi hanno compreso anche la religione, intesa come strumento di potere sulle masse; la legittimità di una tale manipolazione è dubbia e il pesante giudizio è lasciato allo spettatore, poiché il regista si erge super partes.
Visto con quest'ottica, il finale, che presuppone un ciclo rigenerativo, è pessimistico, convinti – come pensiamo siamo tutti - che l'autorità dei governanti non debba invadere la sfera del personale e controllarla influenzandone le scelte. Solo il ruolo eroico di Lucius, nella lampante prospettiva della sua guarigione, lascia ben sperare in un finale aperto.

Altro tema su cui Shyamalan insiste è quello del dolore per la perdita, vero motore dell'azione: gli anziani erano infatti tutti abitanti della misteriosa cittadina al di là del bosco e si sono trovati per aver perso, ciascuno di loro, un caro, a volte in maniera brutale. Insieme hanno dato vita al villaggio di Convington, all'interno di una riserva naturale, al riparo da occhi indiscreti e dal male di vivere, che scioccamente hanno tentato di chiudere fuori.
Naturalmente il dolore non si ferma davanti a un bosco di confino, ed è indicativo il fatto che il film cominci proprio con un funerale.
Inoltre, come già detto, è proprio il timore di una perdita che spinge Lucius e Ivy a compiere le loro azioni, è il dolore di una perdita figurata ciò che spinge Noah a ferire Lucius.

La storia di Ivy ha un che del platonico mito della caverna: la ragazza cieca è l'unica a ricevere la rivelazione, negata agli altri uomini ignoranti, ed ha per prima la possibilità di uscire dalla apparente realtà per tastare quella autentica. Come l'uomo platonico, accecato dalla lucentezza del sole, anch'ella tornerà nella caverna dai suoi fratelli, l'uno per tentare di rinsavirli e di salvarli, l'altra per restarci, abituata alla vita semplificata e ovattata del villaggio, seppur finta, e incapace di rompere con la tradizione tramandata dagli anziani.
Ancora un volta però sfociamo oltre il film, in quello che il regista non ci ha voluto mostrare, ed è di nuovo al buonsenso di Lucius e al suo ruolo di futuro leader che dobbiamo affidarci.

Detto questo, riteniamo comunque che la bellezza del film non risieda nel suo essere allegorico ma, come già esposto prima, nella sua potenza visiva straordinaria e nella sua capacità d'impatto, che basterebbero a vanificare qualsivoglia lettura.
Shyamalan sforna una regia magistrale: con trucchi da prestigiatore – altro non è, un cineasta – inganna lo spettatore, lo fa incuriosire alla normalità che egli abilmente stravolge, si permette addirittura di mentirgli, ma solo perché mente anche ai suoi personaggi.
Un abile colpo di genio sta quando ci mostra la creatura da vicino, durante l'assalto al villaggio, rivelandone la sua natura di fantoccio (lo spettatore non può certo pensare che non avessero abbastanza soldi per farla meglio!), ma lasciando intatta l'atmosfera di terrore e smarrimento; una sfrontataggine di questo genere, che ci spiattella davanti la risposta a tutto, prima che questa venga chiaramente spiegata a parole, dimostra che lo spettatore diventa complice dell'inganno, e capisce quel che vuole capire.
Dimostra anche che la paura non era legata alle creature, ma era il risultato di un'alchemica fusione tra le suggestioni create e la particolare risposta dello spettatore, dipendente dalle sue esperienze vissute, dai ricordi, dalla psiche; una paura intrinseca, che si annida dentro di noi e ha solo bisogno di esser tirata fuori, inspiegabile, inarrestabile, illogica e personale.

Non contento, Shyamalan rialimenta la tensione anche quando l'aveva smorzata del tutto, adottando per l'attacco finale di Noah uno stile distorto e irreale da film horror (nuova breve virata di genere), rappresentandolo come Ivy dev'esserselo immaginato nella sua testa, dove anche un buonannulla impacciato può trasformarsi in una letale creatura del terrore.

Un gran cast è stato radunato per questo film: Joaquin Phoenix, non nuovo a parti da predestinato con Shyamalan, è Lucius, mentre la bellissima Bryce Dallas Howard è un'intensa Ivy, forse la vera protagonista del film.
Di contorno ci sono nomi come Adrien Brody (Noah), William Hurt (Edward Walker, padre di Ivy), Sigourney Weaver e Brendan Gleeson nella parte di altri anziani del villaggio.
L'incredibile scenografia di Tom Foden, che tanta parte ha nel risultato finale, è stata costruita totalmente nei pressi di Chadds Ford, proprio in Pennsylvania, e durante i titoli di coda è possibile vedere alcuni schizzi preparatori del progetto. Il suo lavoro contribuisce all'opera di mistificazione compiuta da Shyamalan, perché tra paesaggi nordici, case di legno e gente che vive perennemente tra superstizione e fede, con costumi (Ann Roth), colori e simbologie che sanno, indubbiamente, di mitologico, si ha l'impressione di avere di fronte un'antica popolazione celtica, mentre mai si sospetterebbe di essere sulla costa est degli Stati Uniti, in un imprecisato presente.

Ma la menzione speciale va a James Newton Howard, già compositore per Shyamalan nei suoi tre precedenti lungometraggi, che qui firma un autentico capolavoro, nominato all'oscar per la miglior colonna sonora: musica fuori dal tempo e dallo spazio, altamente evocativa e sempre aderente a ciò che accade sullo schermo.

L'ultimo sfizio che si toglie Shyamalan e che, come sir Alfred Hitchcock, si è sempre tolto nei suoi film, è un breve cameo, qui difficilissimo da beccare: il regista è infatti il ranger seduto sulla sua scrivania alla stazione di polizia, di cui si sente inizialmente solo la voce, in seguito visibile dal riflesso di un'anta a specchio aperta dal suo collega.

Resta in sospeso la questione del colore che Lucius emana agli occhi di Ivy, che lei non rivela a causa di un suo apparente disinteresse; quello stesso colore che lei vede affievolirsi dopo l'aggressione.
Il nostro intuito però ci ha già suggerito la risposta...

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Recensione a cura di julian - aggiornata al 07/04/2011 14.16.00

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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