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Il giovane avvocato londinese Arthur Kipps riceve l'incarico di recarsi a Crythin Gifford, un villaggio della brughiera inglese, per occuparsi della successione di Alice Drablow, una ricca vedova che ha vissuto gli ultimi anni della propria vita isolandosi all'interno di Eel Marsh House, una villa sperduta in mezzo alla palude e raggiungibile soltanto quando c'è la bassa marea.
Kipps è accolto con ostilità dagli abitanti del villaggio e sembra che nessuno gradisca la sua presenza in loco ad eccezione di Mr. Daily, l'uomo più ricco di Crythin Gifford.
Kipps si trova coinvolto in misteriosi e tragici eventi legati alle apparizioni di una donna vestita a lutto.
"The Woman in Black" è liberamente tratto dall'omonimo romanzo di Susan Hill del 1983, che già ha avuto una trasposizione televisiva diretta dal regista austriaco Herbert Wise nel 1989 e numerose trasposizioni teatrali.
Questa nuova versione, che non è assolutamente un remake del film di Wise, è stata diretta da James Watkins, giovane regista inglese che si è imposto sul panorama internazionale con l'interessante "Eden Lake"(2008), un horror incentrato sulla tematica del bullismo giovanile che fu assolutamente snobbato dalla distribuzione cinematografica italiana. È inutile ribadire per l'ennesima volta come il nostro Paese si dimostri il meno attento alle evoluzioni dei generi cinematografici, negando spesso spazio e visibilità alla maggior parte delle opere cinematografiche sia straniere, sia nostrane, che escano dai canoni rigorosamente mainstream, e recando un danno incommensurabile alla vita culturale italiana. Danno che si ripercuote inesorabilmente anche sul piano economico oltre che morale. Fortunatamente esiste Internet grazie a cui, che piaccia o meno a tutti quei sedicenti difensori del diritto d'autore che ormai è divenuto un pretesto per censurare e controllare il Web, anche un autore bistrattato dai circuiti cinematografici ufficiali italiani, come appunto Watkins, è riuscito ad ottenere visibilità e notorietà. Oltre a Internet, il merito va anche a tutti quei giovani che non si accontentano di subire passivamente le scelte preconfezionate di un sistema distributivo oligopolistico, arbitrario e, soprattutto, anacronistico e vetusto.
La regia di Watkins è infatti il principale punto di forza di questa pellicola e non meraviglia che la produzione abbia riposto fiducia in questo giovane e bravo regista. La scelta si è rivelata vincente dato che in poche settimane di programmazione il film ha incassato circa novanta milioni di dollari.
"The Woman in Black" mutua dal romanzo tutti i propri principali difetti, mentre trova nella dimensione cinematografica i propri pregi. L'intreccio narrativo si sviluppa intorno a una storia di fantasmi assolutamente ordinaria, che sembra aver voluto emulare i romanzi gotici del diciannovesimo secolo col difetto di non aggiungere nessun genere di messaggio sotteso. In sintesi si tratta di una narrazione fine a sé stessa, che non offre allo spettatore nessuno spunto di riflessione e che scivola via senza lasciare traccia. La sceneggiatura scritta da Jane Goldman è assai sapiente e rispetta scrupolosamente la grammatica cinematografica di una ghost story dalle atmosfere gotiche. Seppur debole nei dialoghi, anche a causa dello scarso approfondimento psicologico dei personaggi, la sceneggiatura ha un'alternanza di valenze di scena che rasenta la perfezione. Inoltre, la Goldman ha cercato di spurgare al meglio la storia per darle forza e solidità narrativa, oltre che ritmo ed equilibrio strutturale. Naturalmente non poteva scrivere un film completamente differente dall'opera da cui esso era tratto e quindi è incappata inesorabilmente in quei difetti propri dell'opera letteraria fra cui primeggia l'assoluta mancanza di originalità seguita dalla già citata assenza di contenuti. La Goldman è anche riuscita a dare delle buone caratterizzazioni ai personaggi e in particolare ad Arthur Kipps, cercando di instaurare quell'empatia che dovrebbe nascere fra il protagonista e il pubblico. Purtroppo, per quel che concerne quest'ultimo punto, l'operazione è riuscita a metà. Se possibile, il personaggio di Kipps è ancora più banale di quello descritto nel libro della Hill e gli espedienti adottati dalla Goldman per dargli spessore sono troppo abusati nella cinematografia di genere per riuscire a convincere a pieno uno spettatore che già conosca la cinematografia di riferimento. In questo non è neppure stata aiutata dalla scelta dell'attore protagonista, poiché Daniel Radcliffe appare assolutamente troppo giovane e troppo infantile rispetto al ruolo affidatogli.
A valorizzare, invece, i pregi della sceneggiatura interviene l'eccellente regia di James Watkins che si avvale anche dell'ottima fotografia di Tim Maurice-Jones, che non solo ha accompagnato Guy Ritchie durante la sua carriera antecedente a Sherlock Holmes, ma che ha anche lavorato per Michel Gondry e Barry Levinson.
Watkins, pur essendo soltanto alla sua seconda regia cinematografica, dimostra una padronanza della tecnica assai invidiabile. La sua cura per i dettagli e la ricerca del particolare creano suggestioni visive di grande bellezza. In tal senso è favolosa la sequenza iniziale durante la quale le tre bambine abbandonano il loro gioco e calpestano quegli stessi oggetti che prima maneggiavano con cura. Altrettanto eccellente è tutta la sequenza che si svolge nella camera del piccolo Nathaniel Drablow, dove le bambole e i pupazzi meccanici, che sono davvero pezzi d'epoca e che non sono stati costruiti appositamente per il film, si conquistano la scena diventando protagonisti assoluti.
La macchina da presa non si limita mai a seguire semplicemente i personaggi. Watkins alterna sapientemente le angolazioni delle inquadrature con i vari piani di inquadratura e con le soggettive, trascinando lo spettatore nell'ottica dei personaggi e preparando colpi di scena dall'effetto sicuro. Le notti che Kipps trascorre all'interno di Eel Marsh House regalano al pubblico tensione e brividi assicurati. Anche se in alcuni casi a farla da padrona è la classica costruzione della reazione pavloviana fondata sul binomio immagine repentina e suono spiazzante, la regia prepara i colpi di scena con perizia e non lascia delusi.
L'interpretazione di Daniel Radcliffe è valida, specie se si tiene conto del limite impostogli dalla propria fisicità che lo rende più infantile rispetto al personaggio interpretato e della necessità di riuscire a sbarazzarsi del personaggio che lo ha reso famoso e con cui parte del pubblico potrebbe continuare ad identificarlo. Resta discutibile la sua scelta per il ruolo di Kipps, ma non il suo lavoro di attore. Radcliffe, infatti, regge sulle proprie spalle l'intero film, mentre gli altri attori gli passano accanto alla stregua di comparse.
A quest'ultima considerazione fa eccezione Ciarán Hinds, che interpreta Mr. Daily e che si dimostra un validissimo comprimario.
"The Woman in Black" è un film assolutamente ordinario e banale, che però è stato scritto molto bene e diretto egregiamente. Indubbiamente la sua dimensione tecnica e artistica riscatta la sua scarsezza contenutistica.
Si tratta di un prodotto che non lascia il segno e che si dimentica in un batter di ciglio, ma che, durante la visione, intrattiene a dovere e concede allo spettatore la giusta evasione dalla realtà.
Si tratta comunque di una scelta produttiva azzeccata, tenuto conto del fatto che il film ruota quasi interamente intorno a un solo attore e che la maggior parte della sua durata si svolge in una sola location. Il costo di produzione non è stato ufficializzato, ma i diciassette milioni di dollari riportati da alcuni siti Internet sembrano davvero tanti per un film che ha tutte le caratteristiche per essere stato realizzato a basso costo. Comunque, anche se tale stima fosse corretta, i costi di produzione sono stati ben compensati dall'enorme successo commerciale della pellicola.
"The Woman in Black" è un film di intrattenimento assolutamente demodé e culturalmente nullo. Ciononostante, è un esempio che dovrebbe far riflettere alcuni sedicenti produttori cinematografici, specialmente italiani, che gettano tanto disprezzo verso la cinematografia di genere Horror affermando falsamente che si tratta di prodotti di nessun interesse commerciale né culturale. È evidente che in tutto il mondo un pubblico interessato al cinema Horror esiste, quindi commercialmente parlando la Domanda di mercato c'è. In quest'ottica appare ridicolo che i produttori italiani si rifiutino di produrre l'Offerta di mercato, ma queste sono le perversioni cui si va incontro quando si è convinti che cultura e commercio non possano coesistere né precedere di pari passo. Un film Horror ha sempre un alto potenziale commerciale. Se poi i suoi autori ne sono capaci, esso può avere anche un alto profilo culturale. Ma, come abbiamo già avuto modo di costatare, il mondo italiano della produzione cinematografica ha ottiche vetuste ed obsolete, oltre che presuntuose e pretestuose, specie tenuto conto della qualità media dei film italiani degli ultimi anni.
Riflettete, cari produttori, perché il pubblico è assai meno sciocco e addormentato di quello che voi pensiate. Internet, che piaccia o meno, esiste e permette di reperire le opere prodotte su scala globale. Se questa è una tigre troppo difficile da cavalcare, forse è bene che cambiate mestiere consentendo invece agli autori di svolgere il loro ed al pubblico di assistere ai prodotti desiderati.
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Recensione a cura di Carlo Baldacci Carli - aggiornata al 09/03/2012 16.25.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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