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E se il treno deraglia?
L'idea è buona e al contempo strampalata.
Tre registi, tre "autori" (se questo concetto è concesso oggi come oggi) s'incontrano per dar vita a un progetto comune. Un film a più mani insomma o una raccolta di più episodi. Esperimento questo tanto in voga negli anni '70, ripreso ultimamente da (uno spento) Antonioni insieme a Wong Kar Wai e Soderbergh nel film Eros.
Incontro questo forse più omogeneo, più intersecabile contenutisticamente, seppur anch'esso totalmente distante. Olmi, di formazione tutta italiana, Loach, un unicum per fama e maestria nel mondo inglese e lo scandinavo Kiarostami hanno un modo di sentire il cinema tutto europeo, e in questo si rispecchiano e trovano un dipanarsi della trama secondo convenzioni e convinzioni comuni.
Dicevamo dell'idea buona e strampalata, per la realizzazione particolarissima. Il film costituisce un unicum temporale e, nei limiti della narrazione, spaziale. I diversi girati però, si diversificano seccamente tra di loro, dando vita a microcosmi propri, a una struttura narrativa episodica, frammentaria e un po' esasperata che è propria di un corto. Per questo non funziona, non ingrana. Non racconta "storie", come vorrebbe, ma alza siparietti, più o meno simpatici e toccanti, su vissuti individuali, siparietti che hanno nell'esasperazione contenutistica e, nel caso di Olmi, formale, la loro più grande pecca.
Si diceva di Olmi, che mette in campo addirittura Carlo delle Piane accanto a Valeria Bruni Tedeschi. La storia raccontata è quella di un amore fugace e impossibile tra un vecchio farmacista e una giovane impiegata, amore che si sviluppa tra le parole di una lettera mai scritta. La parola, che rischia di cadere nella verbosità, caratterizza la trentina di minuti di Olmi, che ci inquadra un personaggio statico, pensieroso, a volte didascalico. Purtroppo ci dispiace registrare in questa prima trance una regia del tutto scombinata e trascurata. Piatti di pasta che scompaiono da un'inquadratura a l'altra (e periodicamente riappaiono) macchina gestita nello stretto in modo difficoltoso e sofferente, gestione degli attori alla ricerca di una sincerità passionale che sembra e appare forzata. Buco nell'acqua per Olmi dunque, che è anche l'unico a sentire l'esigenza di uscire fuori dal treno, di rompere una barriera fisica con dissolvenze incrociate e attacchi di montaggio. Segnale, forse, di un'incapacità di cogliere all'interno dello spazio designato per la messa in scena, il "sugo" (avrebbe detto qualcuno) della messa in scena stessa.
Ma questo sugo, questo perché del girare dentro un treno, non si coglie nemmeno nel secondo episodio, anche se, a differenza dell'Ermanno nazionale, Kiarostami gioca esclusivamente all'interno del treno. Non per questo Kiarostami si rende decisivo nella messa in scena di un divertissment malinconico che funzionerebbe bene come corto, non nell'economia più globale di un lungo girato a tre mani (ma a questo punto ci verrebbe da parlare di tre corti a tema, uniti un po' pretestuosamente). Kiarostami si sfoga in situazioni e parodie che sono comunemente decodificate e accettate in un corto. Situazioni normali ma al limite del normale, conversazioni calcate, quasi teatrali. In mezz'ora Kiarostami deve definire seccamente i personaggi, non lasciare ombra di dubbio (dubbio contemplato, e questo sì in modo accorto, da Olmi invece), inquadrare personalità che non lasciano scampo all'interpretazione. Il gusto dell'ambiguo è solo funzionale al portare avanti la storia. Kiarostami gioca sul legame effettivo che c'è tra i suoi personaggi, ma non in modo "necessario", cruciale per lo svolgimento della trama e della messa in scena. Trenta minuti che strappano qualche sorriso, ma che rischiano, col passare dei minuti, al di fuori della sala, di essere etichettati come inutili.
Loach non avrebbe bisogno di presentazioni. Il suo lavoro è riconducibile ad una maniera di far cinema "alla" Loach. Il regista inglese si ricrea ogni volta, ogni volta allo stesso modo si rigenera (ma sarà vero? Beneficio del dubbio). E così anche questa volta incardina il suo girato nella contrapposizione/incontro tra culture, status sociali ed ambienti particolari. E così un treno d'italiani accoglie tre giovani tifosi del Celtic in trasferta a Roma, che avranno un approccio tra lo scanzonato e il melodrammatico con una famiglia di albanesi, diretta a Roma per tutt'altro motivo (ma sarà vero?).
Loach come al solito gioca su figure che tendono ad avvicinarsi all'idealtipo del personaggio che tenta di rappresentare, salvo poi spiazzare con un qualcosa che mai t'aspetteresti (e perché proprio perché conosci Loach ti aspetti ogni volta). E così c'è il piccolo albanese immigrato, onesto ma anche no, e il boriosetto scozzese, violento testa calda ma anche no.
Loach è forse quello che meglio sa trasmettere un vissuto non artefatto e plasticoso, salvo poi naufragare appena messo piede a terra (la scena finale è, a dire il vero, imbarazzante).
Tutto sommato, questo Tickets, è un lavoro scialbo, mediocre, non fosse altro per il calibro delle penne che lo hanno firmato. Un'incontro che, nato come l'idea di girare tre documentari sullo stesso tema, forse era meglio se fosse rimasto nei canoni dell'idea iniziale.
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Recensione a cura di Pietro Salvatori - aggiornata al 14/03/2005
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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