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La decisione di far uscire nelle sale (in pochissime, per la verità), il 27 gennaio il film della regista Rose Bosh è stata presa per ricordare la data del 27 gennaio del 1945, quando le truppe sovietiche dell'Armata Rossa, nel corso dell'avanzata verso Berlino, arrivarono nei pressi della città polacca di Auschwitz e scoprirono il tristemente famoso campo di concentramento, liberando i pochi sopravvissuti e rivelando al mondo intero l'orrore perpetrato dai nazifascisti nei confronti non solo degli ebrei, ma anche di oppositori, zingari, omosessuali, disabili e di quanti non corrispondevano alle teorie eugenetiche tedesche, che sostenevano la necessità di creare una razza superiore e perfetta.
Una data simbolo che è stata chiamata, per volontà dei legislatori di diversi paesi (fra cui la Germania), la "Giornata della Memoria", istituita per non dimenticare la Shoah e come monito affinché quanto avvenuto non si ripeta mai più, per nessun popolo, in nessun tempo e in nessun luogo.
Per la verità i sovietici prima di arrivare ad Auschwitz avevano già scoperto e liberato altri campi nazisti, ma fu con l'apertura dei cancelli di Auschwitz che il mondo venne a conoscenza degli strumenti di tortura e annientamento, approntati dai nazisti di Hitler per sterminare oltre 1 milione di persone.
Se è giusta e doverosa la necessità di ricordare la pagina più buia e dolorosa della storia dell'umanità, altrettanto giusto e doveroso è dare un senso a quella memoria, oggi più che mai necessario davanti allo sconcerto per quel vento di revisionismo che sta investendo alcuni paesi, tra cui, purtroppo, anche il nostro.
Lontano da qualsiasi approccio pietistico e ricattatorio, una risposta adeguata a quella necessità la dà il film "Vento di primavera" (trasformazione inadeguata e fuorviante del titolo originale "La Rafle", che sarebbe stato più giusto tradurre in "La retata o Il rastrellamento").
Un'opera vibrante e coraggiosa, a tratti anche emotivamente insostenibile che narra, con grande attenzione storica, un greve episodio della seconda guerra mondiale in Francia e che rende attuale la necessità della memoria. Un episodio poco esplorato dagli storici e quasi del tutto ignorato dai libri di storia francesi.
Prima che la storia abbia inizio, una scritta ci avverte che i fatti narrati nel film, anche i più efferati e inverosimili, sono realmente avvenuti e documentati.
Siamo nella Francia occupata dai nazisti, nell'estate del 1942, e precisamente il 14 luglio del 1942, uno dei giorni più bui della storia dell'umanità.
Nella cittadina francese di Vichy si è insediato il Governo collaborazionista del generale Pétain, che profanando i principi guida della Repubblica Francese di "Liberté, Egalité, Fraternité", ha avviato una politica di dura persecuzione che rende insostenibile la vita degli ebrei francesi.
Prima costringendoli a cucirsi sugli abiti la stella gialla a cinque punte di David, come simbolo della loro diversità, poi emarginandoli gradualmente nei luoghi pubblici e infine estromettendoli definitivamente dal lavoro, dagli uffici statali e dalle scuole. La popolazione si divide: alcuni sono solidali e cercano di aiutare i loro concittadini semiti, altri, invece, li insultano e li scherniscono.
La quasi totalità delle famiglie ebree di Parigi trovano rifugio nelle case sulla collina di Montmartre, tra queste anche quella dell'insegnante Schmuel Weismann, con sua moglie e i loro tre figli. Non sanno che sulle loro vite si stanno addensando nubi minacciose e le ombre della barbarie o forse lo sanno, ma non lo vogliono accettare e continuano a nutrire speranza e fiducia, convinti che una tale follia non possa durare a lungo.>br /> Non sanno che quella notte si sta decidendo il loro futuro, non sanno che Hitler e Pétain stanno negoziando il loro destino. E così la mattina del 16 luglio, 13.000 ebrei (per la verità Hitler ne voleva 20.000) furono prelevati dalle loro case e ammassati nel Vélodrom d'Hiver.
Qui saranno costretti a vivere nella più assoluta promiscuità, in condizioni disumane, quasi senza cibo, né acqua e senza servizi igienico-sanitari, prima di essere smistati in alcuni campi di detenzione nei dintorni di Parigi, in attesa di essere trasferiti definitivamente nel campo di concentramento di Auschwitz, da dove la quasi totalità di loro non farà più ritorno.
Tra loro c'erano oltre 4000 bambini.
Joseph, 11 anni, figlio di Schmuel Weismann è uno di loro, l'unico sopravvissuto e testimone di quella terribile tragedia.
Il tutto è visto con i suoi occhi e con quelli di due suoi amici d'infanzia, i fratellini Simon e Nono Zygler, che reagiscono alla cattività inventandosi giochi fantasiosi da bambini, giochi che fanno impazzire e arrabbiare le guardie.
A tentare, per quanto è possibile, di rendere meno dolorosa quella situazione ci sono: l'infermiera Annette Monod che cerca di opporsi a quello scempio; il medico ebreo David Sheinbaum che si prende cura dei piccoli ospiti e condivide con loro un percorso doloroso e amaro e alcuni pompieri che, contravvenendo agli ordini, li riforniscono di acqua con gli idranti e accettano di consegnare i loro messaggi a parenti e amici.
Fino a quando, un mattino, Joseph e gli altri bambini non vengono separati dai loro genitori, che non vedranno mai più.
Rimasta per molti anni un episodio poco esplorato dagli storici, la deportazione degli ebrei di Parigi al Vel d'Hiv ha avuto la peculiarità di vedere per la prima volta presi di mira dei bambini per annientarli.
Determinata a girare un film per raccontare al mondo l'obbrobrio di quanto accaduto quel lontano 16 luglio, la regista Rose Bosh è riuscita a rintracciare a New York, dove ora vive, il vero Joseph Weismann, il quale, anche se con infinito dolore, si è prestato ad aiutarla a ricostruire con ricchezza di particolari quegli eventi e le sofferenze che hanno causato.
Il tono documentaristico e una narrazione scarna ed essenziale rendono il film della Bosch fruibile ad un vasto pubblico (che non ha avuto modo di sperimentarlo per la solita, scarsa distribuzione dei film non di cassetta), coinvolto nell'azione per la forte carica empatica della storia raccontata; facendogli, inoltre, scoprire l'abisso senza fondo dell'animo umano, ma anche i piccoli e grandi eroismi di coloro ben consapevoli che prima di essere ebrei quelli erano soprattutto essere umani.
E così la storia di Joseph Wiesmann finisce per amalgamarsi con la più ampia storia degli uomini e del mondo.
Il film è soprattutto memoria e poi storia, nel senso che gli eventi, invece di essere raccontati in modo asettico e distaccato, ce li fa sentire sulla pelle quando ci mostra tutto l'orrore di azioni scientificamente programmate ed attuate nei confronti di inermi cittadini innocenti.
Vediamo così, in parallelo, le immagini di avvenimenti privati di singole famiglie che si intrecciano con il riemergere di sentimenti antisemiti in molta parte della popolazione, pronta a cogliere l'attimo per mostrare la propria rivalsa discriminatoria, a dimostrazione di come la follia nazista sia riuscita, come una piovra, ad allungare i suoi tentacoli sulla società francese.
Ma il film vuole essere anche un omaggio (come dice la regista stessa) a quanti durante "La Rafle" si sono adoperati per offrire solidarietà e aiuto alle persone in fuga, a dimostrazione che non tutti francesi furono conniventi con il regime nazista.
Nel cast, accanto ai due giovanissimi talenti, Hugo Leverdez, nel ruolo di Joseph, e Oliver Cywie in quello di Simon, troviamo un insolitamente buono Jean Reno, nel breve ruolo del medico ebreo del campo, che si adopera, in condizioni impossibili, ad alleviare le sofferenze degli internati e la brava Melanie Laurent (già vista in Bastardi senza gloria, di Tarantino), la crocerossina cristiana che opera in mezzo allo scempio per dare un minimo di assistenza ai disperati in attesa all'interno del Vel d'Hiver.
Bellissima e suggestiva la colonna sonora che comprende brani di artisti, quali Claude Debussy, Philip Glass, George Delerue, Ray Ventura e melodie dell'epoca interpretate dai grandissimi Edith Piaf e Charles Trenet.
Con grande abilità e freddezza, Rose Bosch riesce a mostrare la terrificante miscela di sadismo dei soldati tedeschi con la micidiale macchina di sterminio nazista, di cui Joseph Weismann fu testimone. Se un appunto si può fare al film, questo risiede forse, in un eccesso di didascalismo, che lo rende poco personale e quasi asettico, il che non inficia, però, la solidità del racconto, che la regista ha voluto ricondurre a fatti certi e assolutamente documentati.
Probabilmente di fronte a tanto orrore, così meticolosamente pianificato, l'unica cosa che si può fare è solo una doverosa presa di coscienza, "perchè la luce resti accesa, per sempre".
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Recensione a cura di Mimmot - aggiornata al 10/02/2011 16.00.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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