Il professore di inglese e scrittore Thelonious "Monk" Ellison verga un romanzo satirico sotto pseudonimo con l'intento di smascherare le ipocrisie dell'industria editoriale.
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Molto carino il gioco sul tema razziale, tra ciò che i bianchi si aspettano e ciò che è reale. Ben fatto, divertente, fa riflettere. Un film intelligente.
Dramma familiare e satira sagace che punge, in maniera per nulla velata, le case di produzione (siano esse letterarie o cinematografiche) americane, andandone a smontare le ipocrisie e le contraddizioni. Non ci si lasci comunque ingannare, "American Fiction" non è un film contro la "diversity" (anche se sicuramente qualcuno con poco sale in zucca prenderà la palla al balzo e lo userà come esempio per concetti del tipo "non ne può più nessuno dell'inclusività, bla, bla, bla"), ma semplicemente contro un certo modo di metterla in scena; del resto lo stesso "American Fiction" si dimostra fortemente anti-razzista chiedendo che i personaggi di colore possano finalmente essere rappresentati senza stereotipi e mettendo in luce che i bianchi, siano essi produttori o consumatori, vogliono solo sentirsi assolti. A impreziosire il tutto abbiamo delle ottime performance attoriali (Jeffrey Wright bravissimo) e un finale che chiude il cerchio in maniera assolutamente perfetta. Ciliegina sulla torta la vittoria dell'Oscar alla miglior sceneggiatura, e chiunque abbia visto il film può capire quanto la cosa risulti "buffa".
Film fastidiosamente intellettualoide che crede di essere intelligente con i suoi spunti e considerazioni razziali ma invece rimane stucchevole e banale come non mai
Uno scrittore di poco successo, in un momento di crisi familiare scrive un suo nuovo romanzo che un pò per scherzo, e un poco per ripicca. Questo lo porterà a incontrare i grandi favori delle mejor editoriali fino ad arrivare come accade spesso, all'interesse della stessa hollywood per una trasposizione sul grande schermo. Questo American Fiction ha subito incontrato il favore della critica internazionale, proprio perchè vuole essere un atto di accusa e perchiulamento verso un sistema marcio dove bisogna attenersi a un 'trend di idee' per poter fare soldi e fama, dove i grandi capi ti masticano e poi ti risputano. Un soggetto che di per se in generale funziona, come anche la bella prova attoriale di J.Wright nei panni dello scrittore, in un film che per metà mantiene dei bei ritmi, iniziando a strascicarsi verso la 3/4. Ho invece preferito di gran lunga le musiche che accompagnano tutto il film, con quel ritmo Jazz brillante e in generale la prova attoriale Sterling Kelby Brown nei panni del fratello. Prodotto che mi ha convinto per metà, e non capisco tutto il clamore attorno, e anche tutte le nomine agli oscar.
Non so, sarà che è una cultura che non mi appartiene ma l'ho trovato un film pseudo intellettualoide parecchio noioso, dopo mezz'ora già non vedevo l'ora finisse. Qualcosa si salva, non è fatto male, ma non mi ha mai minimamente preso. L'unica cosa che mi è piaciuta sono i titoli di testa.
L'oscar vinto per la sceneggiatura di qualche giorno fa non puo' che far sorridere dopo aver visto il film. Perche' è proprio quello che il suo "autore" non avrebbe voluto!
Tolto questo episodio grottesco il film è molto simpatico ma un po' rinondante nella seconda parte dove esce fuori un po' di sentimentalismo di troppo.
Fortissimi i dialoghi con il proprio agente cosi come quelli con la casa editrice. Come tematiche sono sempre attuali ma sicuramente piu' vicine ad un territorio un po' lontano da noi Europei.
Originale, cinico ed abbastanza simpatico... Tuttavia lento e/o noioso in alcuni punti e con una trama un pò lontana dalla cultura italiana. Avesse durato venti minuti di meno magari gli davo 7 perché il protagonista è bravo ed alcune "trovate" molto interessanti.
Un film con due anime: la prima, fortemente satirica e graffiante, che smaschera le ipocrisie del mondo editoriale (e poi cinematografico) americano, gestito sostanzialmente da bianchi borghesi affamati di storie "nere" degradanti e folkloristiche, probabilmente per compensare un malcelato senso di colpa generale. Decisamente ben riuscita. La seconda anima, invece, è quella di una dramedy familiare in cui si sviscerano i rapporti umani del protagonista, quasi a dimostrare che anche un uomo nero possa essere borghese con problemi borghesi, lontanissimi dalle elucubrazioni mentali bianche sui ghetti. Una seconda parte, però, con molto meno mordente. Personalmente avrei premiato la sceneggiatura adattata di Poor Things, ma mi diverte da morire come l'Academy, che da anni ha il feticcio di premiare film e performance in nome della diversity e non per merito, abbia scelto proprio questo film come vincitore. È come se il regista e sceneggiatore Jefferson abbia attuato una beffa meta-cinematografica. Chi glielo spiega ai membri dell'Academy che American Fiction parla proprio di loro?
Ho apprezzato parecchio questo lavoro, dico la verità conosciuto perché candidato agli oscar, e ammetto ero partito anche con un lieve pregiudizio, ho ragionato con lo stereotipo: film con persone di colore candidato all'oscar -> sarà il solito pippone. E invece non è assolutamente così, anzi "American fiction" è un dramma pieno di ironia che si oppone a questa visione riduttiva, è una pellicola che si occupa proprio di smontare in maniera quasi sardonica gli stereotipi che avvolgono queste opere, gli archetipi affibbiati agli afroamericani, specialmente nel mondo occidentale, l'inconsistenza culturale della distribuzione, che qui ne fa un discorso prettamente letterario ma applicabile anche al resto dei media.
"The dumber I behave, the richer I get." dice Monk, il protagonista, professore di letteratura di poco successo fino a poco tempo prima che per sfogarsi ha scritto una sorta di libro parodia appositamente pieno di stereotipi sulle persone di colore: slang, droga, rap, vita di strada, insomma c'è tutto quello che un americano o un europeo medio può pensare quando gli parlano degli afroamericani. Fantastiche le scene in cui immagina i suoi personaggi che cascano esattamente dentro gli stereotipi, da plauso la direzione degli attori così impostati su uno slang forzato, con un linguaggio del corpo iperattivo e quasi molesto, così come deve agire lui davanti agli editori - o al regista che si propone di trasporre il suo libro al cinema - per convincerli del personaggio che interpreta, una finta genuinità che in realtà crea una macchietta, così come il mistero che fa aleggiare attorno a questo presunto scrittore ricercato per dare un forte clamore mediatico, d'altronde è questo quello che vogliono pubblico e produttori, no?
Ma le scene al riguardo si sprecano, dal primo incontro con la scrittrice che presenta il suo nuovo libro "In da ghetto", con la faccia biasimante di Monk che è fantastica, allo splendido finale col regista che vuole adattare il suo libro, altra stoccata del film, questa volta alla rappresentazione cinematografica che vuole alimentare gli stereotipi per darli in pasto ad un pubblico di pancia, obiettivamente, penso sia stata una scelta anche abbastanza coraggiosa quella di inserire la scena della polizia che irrompe alla premiazione è spara a Monk, con tanto entusiasmo da parte del regista che vede già fiumi di quattrini.
Assieme a questo presenta anche una forte ironia nei confronti delle case editoriali, come dice il produttore di Monk riguardo una delle regole del marketing: "Mai sottovalutare la stupidità delle persone", mostrando come il prodotto pieno di stereotipi venga promosso molto meglio delle precedenti opere migliori qualitativamente, così come è esilarante la scena in libreria in cui i libri di Monk sugli studi classici sono nel reparto "Southern literature", solo perché l'autore è di colore "The blackest thing in these books is the ink", un modo per dare ipocritamente risalto alle opere delle persone di colore, ma alimentando involontariamente il razzismo proprio disponendole in questo modo.
Personalmente, penso sotto questo aspetto sia un gran film
Poi, per gusto personale, ho apprezzato un po' di meno la parte drammatico/familiare, quella più intima in cui l'ironia è smorzata dai drammi familiari, dalla perdita della sorella, dall'elaborazione del lutto ancora in corso per il suicidio del padre, dalla malattia della madre, al fratello omosessuale che non si sente apprezzato, insomma questa parte mi ha fatto un po' storcere il naso per il suo eccessivo fatalismo, un calderone in cui tutto deve andare male per forza e l'ho trovata anche un po' patinata e melensa, però non è poi un malus così grosso per il film, capisco anche c'era un'esigenza di approfondire il personaggio di Monk e i suoi legami più stretti, e anche una certa incomunicabilità che traspare molto nel rapporto con la nuova compagna, ma anche questo fattore mi è sembrato eccessivamente preso dalla morale che "i geni sono soli e blablabla"
Momenti del genere a parte, è comunque un buon film per la sua ironia e la tagliente critica alla società contemporanea, ai media, in parte anche al capitalismo, nonché alla decadenza culturale della massa, una pungente denuncia agli stereotipi e una riflessione al ruolo degli afroamericani nella storia americana, Wright l'ho trovato eccezionale e tratteggia un gran personaggio, molto consigliato.
Cerebrale, cade su se stesso, poi si allontana, si inquadra, si erotizza con le pause, cade, torna a sé, non cambia nulla, bucce da evitare per non picchiare la testa. Everett lo so che sei un furbetto
American fiction è un film complesso ma dalla resa molto solida. E' un inno alle ipocrisie di certe mode ed ambienti letterari pronti a celebrare uno scrittore dalla penna ruvida e realistica. Solo che questo scrittore è un professore universitario che la vita del ghetto l'ha solo letta e scrive dei romanzi molto buoni, ma che vendono poco perchè non abbastanza "neri". E' un graduale isolamento quello del protagonista, uno straordinario Jeoffrey Wright: dal suo modo di scrivere, dalla sua stessa e problematica famiglia e dai suoi affetti. Questo sua battaglia contro i luoghi comuni e stereotipi lo aliena perchè non allineato ad una logica di mercato. Scrive per puro s***** un libro intriso di luoghi comuni e stereotipi sui neri e diventa un best seller. Cerca di sabotare la sua creatura sortendo l'effetto opposto. In un certo senso diventa come Don Chisciotte di fronte ai mulini. Una sceneggiatura ben delineata ed equilibrata sia nella narrazione che nella definizione dei personaggi, a volte volutamente stereotipati. American fiction è una pellicola dalla satira sottile ma puntuale che in molte circostanze coglie il segno. Nel complesso una sorpresa che non mi aspettavo.
Splendida sorpresa questo American Fiction: una sceneggiatura intelligente che smonta l'ipocrisia dietro lo sguardo bianco (ma non solo) con cui si afforntano le tematiche di diversity nel mondo della letteratura e del cinema. E se dovesse vincere l'oiscar come miglior sceneggiatura si compirebbe la beffa definitiva.
Ci ho visto della satira piuttosto accentuata in questo AMERICAN FICTION, del debuttante Jefferson, abbastanza ben tratteggiata da dialoghi interessanti e interpretazioni convincenti, quanto basta per meritare qualche candidatura ai prossimi premi oscar. La storia non è così originale nei temi trattati, e non ha nemmeno una narrazione fluidissima, ma i personaggi e le situazioni descritte mi sono sembrati discreti e ben definite. Di sicuro non è un capolavoro del genere dramedy ma, a mio avviso, non annoia e non provoca grossi fastidi.
What the "Fuck"? Wow: i neri statunitensi che sono riusciti a fare carriera, a integrarsi, a normalizzarsi, a imborghesirsi, a diventare professori universitari come lo scrittore vero Percival Everett e il suo alter ego fittizio Thelonious "Monk" Ellison esigono d'essere sociologicamente riconosciuti e mediaticamente rappresentati. "Anche fra noi ci sono rampolli d'una famiglia benestante tutta di laureati con padre suicida e disconosciuto figlio gay. Non è più un'esclusiva dei WASP, questa è la nuova inclusività". Benvenuti, contenti voi.