il tempo che ci rimane regia di Elia Suleiman Belgio, Francia, Italia, USA 2009
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il tempo che ci rimane (2009)

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locandina del film IL TEMPO CHE CI RIMANE

Titolo Originale: THE TIME THAT REMAINS

RegiaElia Suleiman

InterpretiElia Suleiman, Saleh Bakri, Ali Suliman, Amer Hlehel, Menashe Noy, Nati Ravitz, Lotuf Neusser, Avi Kleinberger, Ziyad Bakri, Ehab Assal, Alon Leshem, Lior Shemesh, Daniel Bronfman

Durata: h 1.45
NazionalitàBelgio, Francia, Italia, USA 2009
Generedrammatico
Al cinema nel Giugno 2010

•  Altri film di Elia Suleiman

Trama del film Il tempo che ci rimane

Attarverso la storia di Fuad, membro della resistenza palestinese, dalla creazione dello stato d'Israele nel 1948 ai giorni nostri, si traccia la ricerca dell'identità di suo figlio. L'esistenza stessa di questo sconvolgimento politico porta Elia Suleiman, attore nel suo stesso film, a chiedersi: è lui a portare la Palestina con sé o è la Palestina ad estendersi al resto del mondo?

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Voto Visitatori:   7,57 / 10 (7 voti)7,57Grafico
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Voti e commenti su Il tempo che ci rimane, 7 opinioni inserite

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Gruppo COLLABORATORI JUNIOR Invia una mail all'autore del commento LukeMC67  @  16/06/2010 01:19:07
   9 / 10
Mentre noi Occidentali non siamo capaci neanche di guardare in faccia la nostra bimillenaria cultura profondamente antisemita (gli Ebrei erano o no "popolo deicida"?!), né, tantomeno, i suoi effetti nefasti in particolare dal Nazismo ad oggi, da quei popoli martoriati arrivano invece sempre più espressioni di analisi e di sguardi (auto)critici o pesantemente (auto)ironici. In particolare proprio la Israele della impasse politica attuale sembra essere la culla migliore di artisti che non risparmiano critiche alla propria storia o che sanno filtrarla attraverso le lenti spesse del disincanto e del grottesco.

Suleiman va oltre e arriva alla perfetta straniazione attraverso una regia rigorosissima (mai come in questo caso il termine italiano "regia" è inadeguato a rendere l'operazione di lucida "mise en scène" operata in questo film) e un proprio silente "mettersi in scena" (appunto!) che ci regala un volto -il suo- perfettamente imbilico tra l'impotenza e l'incredulità.

Sarà una moda, ma i registi più rivoluzionari del momento sembrano ormai prediligere lo "stile-Haneke": inquadrature fisse, rigorosissime nella loro costruzione fotografica, lunghe, talvolta lunghissime; niente montaggi serrati (bastano la tv e Hollywood per questo!), niente -o pochissime- soggettive, dialoghi scarni, essenziali, grandi silenzi o intere sequenze lasciate al commento musicale. Cinema allo stato puro, insomma; fine delle contaminazioni-degenerazioni televisive, si torna alle origini del mezzo, si torna all'immagine, ovvero alla fotografia.
E come non apprezzare le complesse soluzioni visive che Suleiman ci profonde a piene mani (pardon, a pieni occhi): godetevi la scena del ferito conteso tra medici e militari in un ospedale israeliano, per esempio.
Ma lo stile di Suileman differisce notevolmente da quello di Haneke: se il Maestro austriaco è un mago dell'immagine non-visibile, suggerita; se egli incalza sulle prospettive inaspettate e sulle realtà che rimarrebbero "fuori campo" se descritte da una regia "classica" (pensate alle insistite inquadrature degli interlocutori dei protagonisti che parlano nel suo "Nastro bianco", per esempio), Suileman fa l'esatto contrario: mostra tutto il mostrabile da varie angolazioni non risparmiando nulla ai suoi spettatori. Ma, ed è qui il tocco di genio, nel mostrare tutto tiene una distanza, un distacco che ci trasmette palpabilmente quell'impotenza che lo pervade.
Il grottesco gronda da ogni quadro della descrizione soggettiva della storia di Israele che Suileman ci propone attraverso la storia della sua famiglia; e nell'incedere del tempo che rimane da vivere (e che è vissuto) si consuma l'apparente stemperarsi di passioni attraverso una omologazione che l'America "colonialista", "imperialista", ma necessaria, finisce coll'imporre culturalmente.
Non ci sono solo "Spartacus", "Titanic", o il delizioso brano dance della sequenza della festa e del finale che fonde mirabilmente disco-music a melodie o ritornelli arabeggianti da world-music; c'è semplicemente la stanchezza di stare perennemente all'erta, c'è la voglia di quotidianità, quella quotidianità che nella prima parte del film (dedicata al passato) si traduceva nella ripetizione pedissequa di situazioni uguali a se stesse mentre oggi si banalizzano attraverso il semplice ignorare la situazione di assedio in cui arabi e israeliani vivono vicendevolmente. Una situazione che è già assurda e grottesca in sé: chi assedia chi?
Se lo smarrimento del regista è totale ed è straordinariamente reso dalla surrealissima sequenza di apertura (un piccolo capolavoro nel capolavoro: veri amanti di Cinema, godetevela senza moderazione!), l'apparente sguardo severo che egli dà del (e sul) presente è in realtà accompagnato dalla asciutta crudeltà con cui ci viene mostrata la tentata esecuzione del papà da giovane o il suicidio del giovane idealista, così come dal caustico surrealismo delle iniziali sequenze del soldato iraqueno intento a marciare verso città "da liberare" o, ancor più, dalla firma della resa agli ebrei invasori del nonno, Sindaco di Nazareth: all'assurdità delle disposizioni imposte dall'Esercito israeliano fa seguito lo scatto di una foto-ricordo di cui noi vediamo solo... i goffi preparativi e il deretano del fotografo (!) mentre l'istantanea che ci viene mostrata subito dopo è quella dei notabili che stazionavano DIETRO al fotografo stesso!! Geniale.

Potentissime le parti puramente "visionarie" del film: come non avere stampato in mente il salto con l'asta aldilà del muro recentemente costruito a Gerusalemme o il diluirsi nel ritmo martellantemente "dance" delle intimazioni militari al coprifuoco durante la festa dei giovani a Ramallah; per non parlare del carro armato che punta pedantemente il proprio cannone su un giovane spensierato dal momento dalla sua uscita di casa per gettare l'immondizia nel cassonetto prospicente fino all'intera sua telefonata agli amici per invitarli alla festa della sera, il tutto nella assoluta noncuranza del giovane stesso... E proprio quella sequenza dà la filosofia del film: ormai la situazione mediorientale è scaduta a livello di tragica farsa dove si gioca per sfinimento sui sentimenti più profondi della gente, stanca di tutto. Che si ribella sfidando i poteri con l'arma dell'indifferenza, forse più potente di ogni arma da combattimento.

Lo sguardo del regista, però, è pessimista al massimo: nel tornare a trovare la mamma malata

Nascondi/Visualizza lo SPOILER SPOILER
seguirà l'impietosa sfilata di teppistelli che parlano delle loro bravate trascinando il poliziotto che li ha ammanettati come un cagnolino impotente, piegato e umiliato perché svuotato del suo ruolo. Se nel '48 l'azione del giovane padre era tesa a combattere un nemico e a salvare vite umane, oggi l'azione dei giovani è narcisisticamente fine a se stessa, generatrice di violenza effimera e sostanzialmente inutile perché buona a gonfiare solo il proprio narcisismo adolescenziale. E anche lo studio può al massimo permettere di saper guardare; ma a distanza, però, perché di partecipazione e di identità collettiva non c'è neanche l'ombra (altrettanto geniale il "duello" a colpi di colonne sonore famose ingaggiato tra i tre invecchiati protagonisti e un giovane che passa sulla stessa strada solcata all'inizio del film dal soldato iraqueno).

Ultima nota sui dialoghi: molto serrati e verbosi nella parte dedicata alla sua famiglia di origine, via via scarni fino a scomparire (o a confondersi con la musica) dal momento dell'entrata in scena del regista fino a quel momento rimasto in sfocatura e in penombra sullo sfondo dell'auto che lo riportava in Israele dopo la lunga permanenza negli Stati Uniti. Se i luoghi della memoria rimandano inevitabilmente alle origini, essi vengono però sfigurati irrimediabilmente dalla realtà (devastante la "gentile irruzione" del marito della badante della mamma, non a caso anche lui poliziotto): non restano allora che la Memoria e il Sogno.
E la potenza del Cinema che li descrive.

2 risposte al commento
Ultima risposta 06/12/2010 22.44.48
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Crimson  @  06/06/2010 23:54:07
   7½ / 10
A quasi otto anni di distanza dal suo film-rivelazione 'Intervento divino', Elia Suleiman torna a non proferire parola (espediente raro, originale e funzionale): è il suo sguardo allucinato il mezzo attraverso il quale ogni silenzio del film genera una potenza comunicativa superiore al linguaggio parlato.
La cifra stilistica è maturata, l'architettura del film interseca con abilità i tratti surreali a-la Tati con una trama più composita e scorrevole, che prende spunto da numerosi episodi autobiografici.
Il film così ripercorre la storia della famiglia Suleiman a partire dalla nascita dello Stato d'Israele (1948). Il padre Fuad fabbrica armi clandestinamente e si distingue per la sua umanità (salva la vita a due persone) e resistenza all'occupazione dell'esercito israeliano. Anche se Elia non è ancora nato, questa è la parte più autobiografica e meno avvincente; ma un punto di partenza indispensabile affinchè tutto il resto della narrazione cominci a nutrirsi dell'elemento della Ripetitività, strumento-cardine del cinema di Suleiman.
E' attraverso la ripetitività tambureggiante delle situazioni (le migliori riguardano il vicino di casa e l'impossibilità di pescare in pace) che la descrizione si sposta al 1970 (con Elia che a dieci anni viene ripreso a scuola per aver definito l'America dapprima 'colonialista' e successivamente 'imperialista'), anno in cui muore il presidente egiziano filo-palestinese Gamal 'Abd al-Naser, che segna profondamente le speranze palestinesi. Ogni riflesso politico e sociale è sempre filtrato attraverso episodi apparentemente di poco conto, intimi, famigliari.
E' a partire dalla descrizione dei primi anni '80 che il film lievita. Elia parte per gli Stati Uniti lasciando una situazione profondamente lacerata e quando torna il tempo non ha minimamente scalfito le stesse condizioni che lo avevano costretto a partire. In un incrocio sempre più geniale tra elementi onirici e realtà, lo stile trova un'armonia singolare, trasmette un senso di prigionia sadica; al linguaggio parlato subentra quasi definitivamente un silenzio straniante. Le sequenze più belle sono quelle in cui E.S. cerca di scuotere la madre semi-inferma, o assiste impotente al suo decadimento. E' il medesimo senso di scoramento che prova osservando, fuori dal proprio contesto famigliare, una convivenza con la guerra e l'odio ormai radicata tanto da impregnare il tessuto sociale stesso.
Molte sequenze restano impresse, dal fantomatico salto con l'asta del muro di Gaza alla lotta tra militari e infermieri per accaparrarsi un ferito.
La sequenza del carro armato è sufficiente per esprimere il senso del film e della capacità del regista di far confluire il surreale nel reale, e viceversa - perchè in fondo, il messaggio è che ormai il limite è talmente invisibile che i due piani sono equivalenti.

1 risposta al commento
Ultima risposta 15/06/2010 21.14.06
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