nel corso del tempo regia di Wim Wenders Germania 1976
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nel corso del tempo (1976)

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locandina del film NEL CORSO DEL TEMPO

Titolo Originale: IM LAUF DER ZEIT

RegiaWim Wenders

InterpretiRüdiger Vogler, Hans Zischler, Lisa Kreuzer, Rudolf Schundler

Durata: h 2.56
NazionalitàGermania 1976
Generedrammatico
Al cinema nel Novembre 1976

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Trama del film Nel corso del tempo

Bruno gira in lungo e in largo la Germania a bordo di un camion: il suo lavoro è quello di tecnico riparatore di proiettori cinematografici. La sua attività si svolge prevalentemente in provincia. Robert invece si occupa dei disturbi nel linguaggio dei bambini, ha un amore genovese andato a male e una voglia matta di lanciarsi con la sua Volkswagen in un fiume. È così che si conoscono (Bruno assiste al tentativo di Robert) e decidono di fare almeno un pezzo di strada insieme.

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Voto Visitatori:   8,71 / 10 (7 voti)8,71Grafico
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Voti e commenti su Nel corso del tempo, 7 opinioni inserite

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Gruppo COLLABORATORI JUNIOR Invia una mail all'autore del commento emans  @  18/03/2023 19:50:12
   7½ / 10
Cinema particolare con genere da definire, possiamo inserirlo nel filone degli "Ont the road", intimista e molto prolisso.

Succede tutto nei primi minuti, poi nulla piu', sembra davvero avere una sceneggiatura non scritta con scene lasciate agli attori, bravissimi, protagonisti.

Malgrado questo pero' siamo di fronte a qualcosa di particolare e da vedere proprio perche rompe tutti gli schemi possibili. Fino ad assistere ad'una defecazione sulla neve tanto per intenderci...

Il cinema è anche questo per fortuna, non tutto deve seguire certi canoni, certo poteva durare di meno ma a pensarci bene non ci sono molte cose che toglierei.

Oltretutto il film parla proprio del cinema stesso attraversando un'epoca dove la settima arte sembra in decadenza contro una riforma sessuale che ha portato al cinema tante pellicole hard.
Forse un grido d'aiuto di Wenders?

Oskarsson88  @  25/12/2018 21:26:03
   8 / 10
Immagini molto belle, ritmo pacato, colonna sonora alla Easy Rider, una Germania che sembra l'America, due protagonisti poco loquaci, e una sceneggiatura ideata on the road come il film stesso. Un esperimento particolare, sulle vie dell'esistenza e su un cinema che non c'è più. Molto bello, anche se un pelino faticoso nelle sue quasi tre ore a basso ritmo.

kafka62  @  16/05/2018 09:57:01
   8 / 10
Quello di Bruno e Robert (i due protagonisti di "Nel corso del tempo") lungo le strade di una inedita Germania di frontiera è un viaggio molto particolare, almeno dal punto di vista cinematografico. Bruno ci viene subito presentato mentre compie gli abituali riti mattutini del risveglio: il camion, con cui gira in lungo e in largo la provincia tedesca per riparare vecchi proiettori, è la sua casa e gli conferisce immediatamente una connotazione nomade e itinerante. Robert invece è appena uscito da un rapporto matrimoniale, ma il suo comportamento (brucia la fotografia della moglie, guida ad occhi chiusi, si getta con l'automobile nel fiume) identifica una non dissimile disponibilità alla precarietà esistenziale del giramondo. Il lungo vagabondaggio su strada dei due non ha praticamente un inizio né tanto meno si indirizza verso una conclusione narrativamente tradizionale. "Dove va?" Non ha un'idea?" chiede Bruno a Robert, appena conosciuto. Quest'ultimo risponde che non importa, e incomincia a leggere da una tabella ferroviaria un elenco di località qualsiasi. Il viaggio wendersiano è un'esperienza fine a se stessa, una condiziona naturale dell'individuo, senza né meta né motivazione apparente.
Una volta depurato delle sue connotazioni ribellistiche e antisociali, il viaggio wendersiano non rifiuta, soprattutto da un punto di vista stilistico, i topoi del cinema on the road. Le inquadrature del mezzo di trasporto in moto (le ruote che girano veloci sull'asfalto, il muso del camion su cui risalta l'omino della Michelin, la superficie vetrata della cabina che riflette il paesaggio circostante) si alternano ai campi lunghi in cui il camion è ripreso mentre attraversa la campagna tedesca, la colonna sonora degli Improved Sound Limited (sigla dietro la quale si celano i fratelli Linstädt) è straordinariamente evocativa e risulta fondamentale per la creazione del climax, le situazioni e i comportamenti predominano sui dialoghi, la vicenda è perfettamente orizzontale e si srotola con la stessa imperturbabile indifferenza dell'asfalto stradale. Sotto questi angoli visuali, "Nel corso del tempo" potrebbe essere facilmente scambiato per uno dei tanti road movies statunitensi dei primi anni settanta, così come l'amicizia virile tra i due protagonisti, l'assenza della donna e la presenza di luoghi topici come le stazioni di servizio o i chioschi di bibite lungo la strada sono profondamente connaturati alla poetica americana del viaggio.
La massima espressione di questo mimetismo cinematografico si ha con l'atipica utilizzazione del paesaggio tedesco. La Germania di "Nel corso del tempo" è, nonostante i continui e puntuali riferimenti geografici disseminati nel film, del tutto irriconoscibile, è un territorio sterminato e senza identità, una no man's land in cui le coordinate spaziali tendono a perdersi tra le pieghe di un immaginario esclusivamente cinematografico. Così l'isolotto dell'infanzia di Bruno potrebbe benissimo confondersi con il "posto delle fragole" di Bergman o con la residenza paterna di "Cinque pezzi facili", allo stesso modo in cui le sconfinate pianure solcate da rettilinei asfaltati di cui non si riesce a vedere la fine potrebbero essere uscite da "Easy rider" o da "Duel". E' un paesaggio in cui la condizione del viaggiatore diventa, se così si può dire, ancor più ontologicamente inevitabile, percorso com'è da costruzioni inutili e senza senso (granai abbandonati, passerelle sospese a mezz'aria, casupole di frontiera disabitate), in cui non è dato trovare alcuno stabile punto di riferimento cui ancorarsi.
"Nel corso del tempo" è però anche, nella tradizione del bildungsroman tedesco, un film di formazione e di iniziazione. Bruno e Robert, durante il loro instancabile peregrinare, non si propongono mai di capire il mondo che li circonda, ma la loro amicizia, pur caratterizzata da lunghi periodi di incomunicabilità e di afasia, finisce per far crescere e migliorare entrambi. A far aprire loro gli occhi è soprattutto la comprensione dell'importanza che il passato riveste per le loro vite. Tra i due c'è all'inizio del film questo scambio di battute: «Non voglio sapere la tua storia». «Cosa vuoi sapere allora?». «Chi sei». «Io sono la mia storia». Per Bruno, il quale aveva fino ad allora vissuto in un presente senza prospettive, il pellegrinaggio nella sua casa d'infanzia (la sequenza emotivamente più forte del film) e la riscoperta delle proprie radici diventano un'esperienza folgorante e decisiva: "Per la prima volta mi vedo come uno che ha dietro di sé un certo tempo, e questo tempo è la mia storia. Tutto ciò è rassicurante". Anche per Robert la drammatica resa dei conti con il vecchio padre ha un significato euristico, di rivelazione e di consapevolezza insieme. Il suo sogno di un inchiostro capace di cancellare la vecchia struttura e di scrivere contemporaneamente nuove parole è un'illusione, un'utopia. Fuggire dal proprio passato non è una soluzione, ma solo un "falso movimento". Ecco quindi che l'orizzontalità che caratterizzava la costruzione del film lascia il posto a un'imprevista verticalità tematica: se il presente è un deserto che va progressivamente inaridendosi, un mondo alienato ed alienante, privo di valori e di significato (il paesaggio acquista in questo senso una valenza chiaramente metaforica), è dal passato che bisogna trarre nuova linfa per costruire un futuro dove "tutto possa cambiare", come è scritto nel messaggio lasciato da Robert all'amico prima di partire in treno. Contro la tentazione di fermarsi e di cedere all'inerzia e al radicamento (che si materializza nei due incontri emblematici del film, quello con l'uomo che non riesce a staccarsi dal luogo in cui è morta la moglie e quello con la cassiera del cinema a luci rosse, vittime patetiche delle proprie paure ed abitudini), il viaggio diventa perciò l'occasione per scoprire la propria identità ed accogliere in se stessi l'infinita varietà del mondo, quella varietà che Wenders traduce, nel linguaggio delle immagini, in una fitta e affascinante rete spaziale nella quale i mezzi di comunicazione (spesso – il camion e il treno – viaggianti parallelamente nella stessa inquadratura) intersecano le loro traiettorie, come il caso intreccia tra loro le singole esistenze.
Nel film è adombrato, oltre che un metaforico messaggio esistenziale, anche un discorso sul cinema. Questa componente metalinguistica e autoriflessiva non appare mai soverchiante, pur non essendo per nulla secondaria rispetto al piano più immediatamente narrativo. Il mestiere stesso di Bruno consente del resto a Wenders di affrontare direttamente, e in maniera del tutto naturale, i problemi e le prospettive del cinema di questo ultimo quarto di millennio. Il ritorno alle radici è anche – o soprattutto – necessità di riesumare, contro l'imbastardimento della produzione corrente (dominata da Hollywood e dalla pornografia), il cinema dei padri (Lang e Murnau su tutti, verso i quali Wenders mostra di avere in "Nel corso del tempo" non pochi debiti espressivi, a partire dall'espressionistico bianco e nero), affermando la predominanza dell'immagine (la scena delle ombre cinesi è un simbolico ed affettuoso omaggio al periodo del muto), della semplicità (Robert scambia la propria valigia e i propri occhiali con un quaderno in cui un bambino ha descritto quello che vedeva) e della moralità (è significativo l'atteggiamento della donna che gestisce l'ultimo cinema, la quale preferisce sospendere la programmazione in attesa di tempi migliori). Ecco allora il senso che è possibile dare al finale aperto del film: quell'insegna illuminata con il nome del cinema ("Weisse Wand", che significa "Schermo Bianco" ma le cui iniziali sono anche l'acronimo di Wim Wenders) è un esplicito invito a restituire una nuova dimensione, una ritrovata verginità, all'immagine filmica. La disponibilità mostrata da Wenders nel lasciarsi impressionare dalle emozioni del movimento diventa così una ottimistica apertura di credito verso un cinema migliore, maggiormente sincero ed autentico.
Il regista tedesco non è esente da ambiguità: lamenta, con le parole di Bruno, che "gli americani ci hanno colonizzato il subconscio" ma non esita a citare Peter Fonda o Bob Rafelson, è fiduciosamente rivolto, pur non essendo un autore ascrivibile all'avanguardia, verso il nuovo ma riempie il film di oggetti anacronistici e superati (il juke-box, il sidecar, ecc.), adotta un taglio di ripresa pseudo-documentaristico (pur con l'uso anti-documentaristico di diaframmi e riflettori, per ottenere immagini più nette e contrastate) ma poi concede ampiamente alla psicanalisi e alla metafora. Nonostante questo, o forse – paradossalmente – proprio per questo, "Nel corso del tempo" è una delle pagine cinematograficamente più pure del cinema on the road, e non solo di quello. Dai suoi fotogrammi si ricava un fascino irripetibile, una suggestiva magia che fa capire come il cinema sia fatto insieme di ispirazione e di tecnica, di disponibilità un po' naïf ad assorbire le sensazioni del reale e di abilità di rappresentazione e messa in scena (anche nei particolari apparentemente meno importanti, come ad esempio la scelta del formato dell'inquadratura).

Gruppo COLLABORATORI Terry Malloy  @  28/08/2013 19:11:36
   9½ / 10
Citato da tutti i manuali di cinema per descrivere un concetto di sceneggiatura "work in progress", che segue la storia passo passo, si forma con lei, nasce ogni giorno dal lavoro sul campo, on the move. Questo è un road-movie atipico, poiché non è solo la storia a svilupparsi lungo i tornanti della Germania, ma anche lo stesso making of.
Il cinema è un'arte (nel senso greco del termine) molto particolare perché ha sempre sfruttato, dalla Nouvelle Vague in poi specialmente, oggetti reali, ossia appartenenti al mondo reale. È un'arte che si è sempre fatta all'interno del mondo, con la casualità che ne deriva. Non stupisce che le pagine di sceneggiatura di questo film sono poco più che la scena dell'incontro tra i due protagonisti. Nel mondo reale, chi può dire cosa accadrà? Wim Wenders aveva ben chiaro cosa mostrare, egli stesso è stato protagonista di un suo viaggio-film, di un documentario di ciò che avrebbe mostrato poi, sulle soglie degli anni '80, in questo piccolo capolavoro. E la storia stessa è quasi un'autobiografia: vediamo i luoghi dell'infanzia di Wenders, ascoltiamo la sua musica, vediamo i suoi tesori dell'infanzia (nella scena in cui King of the Road trova i suoi), vediamo la sua vita, attraverso il cinema. Si può dire che Im Lauf sia il suo 8 1/2. Ma Wenders non voleva fare semplicemente questo. Voleva anche omaggiare un'intera storia culturale. Una storia culturale che lega intimamente due paesi simbolo di uno scontro mondiale che ha portato la civiltà occidentale sul crinale dell'annullamento. Germania e America. L'America – da sempre musa ispiratrice di Wenders, e aggiungerei, di tutti noi – fa da sfondo immaginario, fa da paradigma per tutto lo svolgimento del film. Wenders dice che spesso i paesaggi del film si confondono con quelli del West statunitense, specialmente se qualcuno li vuole vedere così: ecco, qui passa una dichiarazione di poetica. Wenders sembra mostrarci la Germania, ma in realtà fa molte cose in più, semplicemente sfumandole in un tutt'uno che rende arte ciò che parrebbe solo una mera riproduzione realistica. I contatti con l'America stanno nelle memorie cinematografiche, Nicolas Ray, Sentieri Selvaggi, Easy Rider, oppure in quelle musicali, Rolling Stones e Bob Dylan, o anche in quelle letterarie, non a caso Faulkner. Ma soprattutto nel capolavoro del postmoderno americano, le fotografie di Walker Evans, che fanno da matrice visiva per le locations di questo film. Non serve che ce lo dica Wenders che i luoghi fanno il film, sono quelli che raccontano questa storia. È evidente, com'è evidente che l'interesse per i personaggi, la loro psicologia, la loro storia, le loro azioni sono semplicemente un fatto da narrare tra gli altri. A Wim Wenders interessa tutto ciò che è soggetto allo scorrere del tempo, un tempo che sta facendo, in sordina, un sacco di danni. Eppure il cinema di questo grande cineasta tedesco sembra suggerirci, e lo dirà anche Bruno in un dialogo indimenticabile (benché WW non sia un grande sceneggiatore, a suo stesso dire), che il tempo riesca a "tranquillizzarci". In effetti, non sembrano soffrire di un disagio particolare questi due viaggiatori, anche quando espressamente ci raccontano dei loro demoni. La strada, la solitudine, la casualità della vita sembrano cullarli, in tutto ciò che è memoria. Non da ultimo, il cinema, i cinema che chiudono, le testimonianze delle persone comuni, la cui vita è appena accennata, come dice la bigliettaia: "Vivo da sola con mia figlia, e mi va bene così". Rispetto a questo personaggi secondari, i primari ci rivelano poco altro. Non sappiamo davvero il perché Kamikaze telefoni continuamente. Ma dopo un po' non c'importa più. L'importante è continuare a vedere. La Germania, i cinema, i posti che non sfuggono agli occhi di un viaggiatore come Wenders. Ascoltarlo mentre, a distanza di anni, racconta, scena per scena, i dietro alle quinte del film è un'emozione grandissima. La voce calda e confidenziale, in lingua tedesca, che ci racconta cos'è successo in quei magnifici giorni d'avventura, che ci illustrano senza rendersene conto una diversa concezione del cinema, di un cinema prima vissuto e poi immaginato e poi ancora realizzato, le differenze con l'oggi, su stessa ammissione di un regista che ora non ripeterebbe l'esperienza, poiché non più "ingenuo". I tempi dove autore, produttore e regista coincidevano. Ma ora è troppo faticoso. "Ci siamo serviti di tutti i mezzi di trasporto usati in Germania". E così, la cura degli oggetti, delle parole della gente, le interviste a personaggi umili, le case fatte di lamiere ondulate, i ricordi fumettistici all'interno di una "pizza", contenitore per pellicole, con Wenders che si chiede divertito come potesse accadere realisticamente che un bambino ne possedesse una ("ma era l'unico contenitore che avevamo trovato"), il b/n "che permette di osservare i personaggi nel profondo", gli oggetti di scena che ritornano, come il libretto con le immagini di Wolfsburg ("certi oggetti di scena vivono di vita propria"), le improvvisate ed amatoriali tecniche di ripresa, con il binario di 10 m, un furgoncino spinto a mano per riprendere i due durante una corsa per permettere di sentire i dialoghi, lo stesso caravan immatricolato a Monaco con l'omino Michelin che troneggia a mo' di polena, caravan con cui si presentarono, da veri hippies, a Cannes e si cercò di non farli entrare, complice anche la celeberrima scena della cacca. Wenders definisce Im Lauf un film che "parla di un proiezionista". Ed è vero. Le tappe di questo anomalo road-movie, anomalo perché in fin dei conti non è un giro a caso, come era quello di Kerouac, ma una serie di villaggi in cui proiettare film, un tour, una tournée, tantoché in una delle loro separazioni Kamikaze dirà: "conosco il giro che fai" – le tappe di questo road-movie sono cinema sparuti, dispersi, dimenticati, vuoti, o già chiusi, o perseguitati, o latori di pessime immagini (indimenticabili quelle tre sequenze montate per la ragazza da King of the Road – brani di film che Wenders definisce "rappresentativi del cinema anni '70"), e in una scena si avrà addirittura un omaggio alla Croce di Malta, il marchingegno che garantisce la proiezione. Il tutto sotto lo sguardo di Robert Mitchum, una delle tante immagini di attori e registi (Lang alla fine, con la benda da pirata) che punteggiano i muri degli interni di tutto il film. Eppure questa rappresentazione realistica, e quasi direi civile, impegnata, seria, non sembra tale. Tutto è storia, tutto è racconto. Wenders è un raffinato autore postmoderno, che ha sfruttato stilemi e generi del cinema classico, per raccontare cose che di classico non avevano nulla. L'utilizzo delle dissolvenze, quasi didascalico, la scelta stessa della colonna sonora, il rock da strada, e del genere, il road-movie, che altro non è, secondo la stessa interpretazione del regista, che la versione moderna del western, dove la diligenza, il cavallo, sono sostituiti dal camioncino. Wenders ci ha regalato un film che idealisticamente chiude non solo gli anni '70, ma anche un intero pezzo di cinematografia. Un autore europeo che sapeva confrontarsi dialetticamente con il cinema più importante, quello americano, e non solo con il cinema, ma con un'intera cultura e un'intera storia.
"Con poche persone si può comunque fare cinema"

WW – END

Ottins  @  12/06/2011 19:27:26
   10 / 10
Per me è qui che si ritrova il miglior Wenders. Paesaggi affascinanti che fanno da contorno a un film che convolge malgrado i ritmi a volte lenti.

Gruppo COLLABORATORI ULTRAVIOLENCE78  @  04/07/2009 15:32:25
   8½ / 10
Splendido questo viaggio metaforico, che si dipana lungo la frontiera della Repubblica Democratica Tedesca. Il terzo film della cosiddetta trilogia della strada (“Alice nelle città”, “Falso movimento”, “Nel corso del tempo”) s’incentra sul percorso a due, intrapreso casualmente e rocambolescamente (nel contrasto tra la staticità di uno, intento a radersi con tutta calma la barba, e il dinamismo dell’altro, che a tutta velocità si getta con la macchina nel lago) da un revisionatore di proiettori itinerante (“King of the road”) e uno psicolinguista (“Kamikaze”). Si tratta di un “on the road” intenso e suggestivo, in contro-tendenza rispetto alle pellicole americane dell’epoca, perché ammantato da un lirismo scevro da verbosità e tutto teso a stabilire una sorta di legame metafisico tra i personaggi e i luoghi (quelli dei paesaggi e delle distese della Germania di confine, che richiamano le panoramiche e i campi lunghi dei western “fordiani”). Così la zona di divisione e nel contempo di contatto tra due realtà limitrofe assurge a emblema del rapporto instauratosi tra i due protagonisti, i quali pur mantenendo una sorta di ideale e costante distanza, resa dal silenzio in cui quasi sempre sono calati, riescono in rari ma straordinari momenti a trovare un’empatia e un punto di contatto profondissimi: su tutti, quello in cui i due amici, proprio dopo uno scontro verbale e fisico, stabiliscono una lenta e progressiva intimità fino ad arrivare a confidarsi reciprocamente le rispettive esperienze con le donne, tutte caratterizzate da una struggente e insormontabile incomunicabilità di fondo. Ed è questo il significato primario dell’opera, incentrato sull’essere “così lontani così vicini”, s’immortala metaforicamente nella bellissima immagine finale, ove si vedono i due protagonisti prendere strade diverse, l’uno col camion l’altro in treno, ma successivamente avvicinarsi e incrociarsi con lo sguardo per l’ultima volta in prossimità di un crocicchio.
Il film si configura, ovviamente, anche come una riflessione sul tempo che passa (così come quel treno che di tanto in tanto si ode e si scorge transitare) e sui cambiamenti che si generano sia nella vita individuale di ciascuno di noi che in quella collettiva: così il passaggio, da parte di “King of the road”, dalla nostalgia per quello che è stato e che non tornerà più (la sua casa d’infanzia) al prosieguo rasserenato della sua vita (“per la prima volta mi sento come uno che ha un certo tempo dietro di sé, e questo tempo è la mia storia”. E’ una sensazione tranquillizzante” affermerà in un punto cruciale del film) si riflette sull’idea stessa di cinema che, nella transizione dagli autori classici ai nuovi (hollywoodiani), ha sicuramente perso molto ma che, nonostante la decadenza dilagante (cfr. la chiusura dei cinematografi di provincia), può comunque trovare altre e feconde strade (che qui Wim Wenders si sia implicitamente, e con un po’ di vanità, autocandidato a film-maker della rinascita dello settima arte mi sembra abbastanza indubbio).
“Nel corso del tempo” è, in definitiva, un’opera molto positiva e conciliante (ma del tutto lungi dalla retorica di pellicole come “Nuovo Cinema Paradiso”, per fare un esempio per certi aspetti similare sotto il profilo dei contenuti), perché se da un lato mette in scena il dolore per la perdita di qualcosa (che può essere la fanciullezza, un amore o addirittura una persona cara che muore), dall’altro mette in risalto l’importanza di cogliere la speranza per il futuro, nella consapevolezza che la vita è fatta di ineludibili e ineluttabili passaggi e che va accettata per quello che è (“eppure esiste solo la vita, la morte non esiste!” dirà, al termine del resoconto della tragedia che lo ha colpito, l’uomo rimasto vedovo). Insomma, alla “ricerca del tempo perduto” si coniuga quella del tempo che ha da venire.
Un film esemplare, nonostante la scarsità di risorse (il che ancora una volta conferma l’assioma secondo cui quando ci sono idee buone, il resto viene da sé), per come è stato concepito e diretto: costruito su inquadrature fisse e movimenti “accennati” della macchina da presa, funzionali a una narrazione che fa del lento scorrere del tempo il suo fulcro e che, attraverso variazioni grandangolari, conferisce eguale dignità al fattore-spazio.
Ottime, infine, la colonna sonora, siglata dagli “Improved Sound Limited”, e la fotografia in bianco e nero (Robby Müller), che coglie in maniera superlativa i paesaggi tedeschi.

DarkRareMirko  @  25/05/2009 19:43:24
   9½ / 10
Grandissimo film di un Wenders ancora non sottomesso alle lusinghe Hollywoodiane, il qual senso è il rappresentare due persone che trovano nella solitudine un vero e proprio stile e significato di vita.

Si presentano poi molti altri temi, come l'amicizia persa e ritrovata, passato e futuro del cinema, morte e risurrezione del cinema stesso, vagabondaggio.

Certi dialoghi tra i personaggi son costruiti a mò di intervista; non mancano nemmeno veri e propri omaggi al cinema del passato, tutte ombre e risate.

Quasi 3 ore dove non accade granchè, dove non si possono carpire molte emozioni e sentimenti, ma che comunque rappresnetano momenti di grandissimo cinema, che io poi non ho minimamente trovato noioso.

Wenders sottolinea il tutto con riuscitissimi gingle musicali, sequenze molto riuscite (tipo il viaggio in moto con sidecar), metafore poi non molto difficili da ocmprendere (tipo il parallelismo nel finale tra rotaie-strada/amicizia persa-incrociata-ritrovata) e con movimenti di macchina delicati, curati e molto ben calibrati.

Da non perdere; versione originale con sottotitoli italiani.

Per una volta, un film dove mi sento di dire che il doppiagigo italiano sarebbe risultato in tutto e per tutto veramente dannoso.

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Recensione a cura di Gabriele Nasisi

MARILYN HA GLI OCCHI NERI
Locandina del film MARILYN HA GLI OCCHI NERI Regia: Simone Godano
Interpreti: Miriam Leone, Stefano Accorsi, Thomas Trabacchi, Mario Pirrello, Orietta Notari, Marco Messeri, Andrea Di Casa, Valentina Oteri, Ariella Reggio, Astrid Meloni, Giulia Patrignani, Vanessa Compagnucci, Lucio Patané, Agnese Brighittini
Genere: commedia

Recensione a cura di Severino Faccin

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