L'apartheid nel Sudafrica del 1963 attraverso gli occhi di una tredicenne bianca che rimprovera ai genitori, giornalisti comunisti, di occuparsi troppo delle lotte civili dei neri e troppo poco di lei.
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Un film rischioso perché scadere nel retorico su un tema delicato come l'apartheid era piuttosto tangibile. Invece Menges struttura questo film adottando lo sguardo della figlia più grande preadolescente e rimane sul pezzo come i buoni giornalisti, cioè adottando il semplice racconto di formazione di una ragazza che acquisisce piena coscienza di ciò che le sta succedendo intorno. La fuga del padre, l'attivismo politico della madre ed il graduale isolamento sociale pur appartenendo ad un ceto sociale tutto sommato più che benestante. Una presa di coscienza che il pugno alzato insieme a sua madre e sua nonna al funerale di un attivista nero assassinato in carcere rappresenterà il suo traguardo definitivo. Un bel film, non c'è che dire.
Appartiene a un certo tipo di pellicole che solitamente cercano di commistionare dramma politico-sociale, spettacolarità e una forte enfasi (e/o retorica) per emozionare il pubblico. Tutt'altro: questo mi è sempre parso il più sincero, toccante e appassionante film sull'Apartheid diretto da un'occidentale. L'idea della ragazzina testimone della crudeltà adulta non è certo nuova, ma l'attrice è bravissima e riesce ad essere sempre persuasiva. L'epilogo finale è forse un pò troppo in linea con il cinema sociale hollywoodiano, ma ha il respiro di un grande Inno liberatorio.