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Esaurita la crisi (fase?) creativa di "Takeshi's" e "Glory to the filmaker!", capolavori vintage di fusione/riciclaggio artistico, l'"Essere Takeshi Kitano" (alias "Beat Takeshi") torna (apparentemente) al suo rapporto di amore, odio e contraddizione con il suo pubblico.
Ma non facciamo in tempo a versare le lacrime per la novella del ragazzino che diventa orfano, costretto a diventare "artista" (affresco impetuoso e solo apparentemente furbo che rievoca quasi il magma tragico-familiare di "Yi yi" - cfr. Edward Yang) che ci troviamo a ridere, sarcasticamente, di un'inedito inferno Dantesco, quello della metafora di Zenone, o "dell'infinita corsa dell'artista verso l'Utopica affermazione di sè".
La storia del ricco industriale appassionato d'arte, che impone al figlio Machisu lo stesso amore, salvo poi togliersi la vita davanti a un fallimento finanziario, diventa un'opera ambivalente (come se Kitano stesse volesse compiacere il desiderio dei suoi spettatori più fedeli e della critica più intransigente), stratificata, sicuramente dadaista, è una riflessione sull'oggetto di desiderio/rimozione, il vettore artistico, come viscerale e frustante bisogno di coltivare la propria individualità (non "custodirla", come direbbero molti, ma renderla accessibile agli altri).
Ossessionato com'era dai due "doppi" ("Takeshi's") o dal dubbio amnetico su quale strada cinematografica intraprendere ("Glory to the filmaker!"), ora Kitano chiude la sua controversa trilogia mettendo a nudo persino gli atroci dilemmi dell'arte, attraverso la sua invasiva (e orribile) imitazione pittorica dei modelli precostituiti ("bisogna quasi morire per l'arte"), sfidando tutti i rischi dell'action- painting, cercando di celebrare a modo suo Basquiat o Pollock, Andy Warhol e Liechtenstein.
E' un Kitano diverso, ma riconoscibile: un autore che celebra - Wellesianamente - l'"F come falso", simbolo (e sintomo) del degrado qualitativo entro cui si trovano gli schemi dell'arte indotta e la vasta conoscenza che ha nel circuito universale.
Più che una riflessione sull'Arte, "Achille e la tartaruga" (o dell'impossibilità di raggiungere la gloria, come Machisu assieme alla fedele moglie Sachiko) diventa una distruttiva parabola sull'annientamento dell'ego, sovvertendo ogni parametro (confine) tra pubblico e privato.
Stratificato come un Dubuffet, Kitano ha reso astratta la dimensione domestica dello spettatore (quella della prima parte del film, evidentemente). Ed è proprio l'astrazione che esprime, anche banalmente o in modo ridondante (vs. i cromatismi altisonanti dell'ambizioso "Dolls" non sono gli stessi delle deliranti "croste" del Kitano pittore-vintage) l'essenza più comune a un'artista che reclama, sempre, di esistere.
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Recensione a cura di kowalsky - aggiornata al 22/09/2008
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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