Recensione arrivederci ragazzi regia di Louis Malle Francia 1987
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Recensione arrivederci ragazzi (1987)

Voto Visitatori:   7,83 / 10 (39 voti)7,83Grafico
Voto Recensore:   8,00 / 10  8,00
Miglior film stranieroMigliore regia stranieraMigliore sceneggiatura straniera
VINCITORE DI 3 PREMI DAVID DI DONATELLO:
Miglior film straniero, Migliore regia straniera, Migliore sceneggiatura straniera
Miglior filmMigliore regiaMigliore sceneggiaturaMigliore fotografiaMiglior montaggioMigliore scenografiaMiglior sonoro
VINCITORE DI 7 PREMI CÉSAR:
Miglior film, Migliore regia, Migliore sceneggiatura, Migliore fotografia, Miglior montaggio, Migliore scenografia, Miglior sonoro
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locandina del film ARRIVEDERCI RAGAZZI

Immagine tratta dal film ARRIVEDERCI RAGAZZI

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Immagine tratta dal film ARRIVEDERCI RAGAZZI

Immagine tratta dal film ARRIVEDERCI RAGAZZI
 

Probabilmente Louis Malle percepiva l'emozione di questo film da sempre o meglio da quando visse la propria adolescenza in un collegio religioso a Fontainebleau nella Francia occupata dai nazisti, diventando suo malgrado diretto testimone dell'applicazione delle leggi antisemite, deliberate da Hitler e perpetuate dai suoi collaborazionisti in tutta Europa. Invece passeranno parecchi anni prima della realizzazione del film, il regista girerà numerosi lungometraggi di grande successo, tra cui il primo "Ascensore per il patibolo" (1958),che lo consacrerà esponente di quella Nouvelle Vague cui egli in realtà si sentirà totalmente estraneo.
Sarà proprio "Au revoir, les enfants", il lavoro al quale forse ha lavorato in modo più viscerale, a dargli nel 1987 grandi soddisfazioni personali e professionali: un Leone d'oro alla 44esima mostra di Venezia, tre David di Donatello e due candidature all'Oscar, oltre all'opportunità di trarne il suo primo libro, omonimo, pubblicato nel 1993.

Forse "Arrivederci ragazzi" avrebbe dovuto essere la sua opera d'esordio e, nonostante il ritardo di trenta anni, per certi aspetti lo è, nel momento in cui determina la rinascita del regista dopo la stanchezza avvertita durante il "periodo americano".
In seguito alla lunga parentesi hollywoodiana, infatti, dalla quale escono film come "Pretty baby" e "Atlantic city", Malle decide di tornare in Francia, si sente finalmente pronto a girare il suo film, a raccontare quella storia incubata da troppo tempo nella profondità della sua memoria. Si sente pronto e lo dice: "È solo quando la memoria viene filtrata dall'immaginazione, che i film arrivano realmente nel profondo dell'anima".
Sembra che con l'immaginazione il regista abbia depurato il ricordo, rendendolo meno doloroso. Attutita dal tempo trascorso e dalla riflessione, dilavata dai sensi di colpa per i privilegi di borghese ricco e protetto, la memoria pare riconsegnargli intatto il ricordo di quella prima importante amicizia.

La storia del film, si è capito, richiama una vicenda autobiografica dell'adolescenza del regista, che ci racconta con toni delicati e senza retorica il suo doloroso passaggio dall'infanzia all'età adulta, segnato dall'episodio della deportazione del suo amico ebreo avvenuta a causa della feroce ideologia nazista.

Per precisione, bisogna ricordare che un lungometraggio sull'adolescenza nella Francia occupata era già stato realizzato dal regista nel 1974 con "Cognome e nome: Lacombe Lucien", film incompreso dagli intellettuali dell'epoca, che non avevano colto l'intento di Malle a delineare la "semplicità" del male concretizzandolo nelle normali scelte di un povero contadinotto analfabeta, senza la spinta di alcun idealismo.
Tralasciando però le polemiche, il richiamo, ora, ci interessa per notare come nel film del '74 s'intravedono temi, ambientazioni e personaggi ripresi in Arrivederci ragazzi, anche se nel primo film ancora non trapela la forza evocativa preponderante nel secondo.
Ed è proprio questa forza evocativa ad avvicinare il lavoro cinematografico di Malle al capolavoro letterario di Uhlmann, "L'amico ritrovato", dove il tema dell'amicizia fra due ragazzi si fonda con quello spaventoso dell' ideologia nazista.

Il racconto del cineasta francese,tuttavia, non è ambientato in una scuola della Germania nazista, bensì nel collegio di Sainte-Croix nella Francia occupata, in un piccolo mondo a sé, quindi, dove forse è più semplice descrivere la vita adolescenziale, amplificando ogni sensazione attraverso dialoghi appena sussurrati e lunghe pause colmate da sguardi intensi; altresì sublimate da un'eccellente fotografia dai toni freddi e lividi come gli ambienti all'interno del seminario, come l'inverno di quel gelido 1944.

Il fulcro della storia è il rapporto tra i due ragazzi, figlio dell'alta borghesia parigina uno, ebreo in incognita l'altro. Un rapporto dapprima difficoltoso, poiché Julien rifiuta di far amicizia con il "nuovo arrivato", schernito dagli altri compagni; ma è proprio dall'emarginazione coatta di Jean che nasce l'interesse di Julien, incuriosito sia dagli insoliti comportamenti del nuovo compagno, sia dall'indefinibile tristezza che lo caratterizza. Ha inizio così un'amicizia sommessa, ma non per questo superficiale, in cui la sofferenza interiore ha un ruolo preponderante.

Il regista descrive i sentimenti attraverso lo sguardo dei ragazzi: noi vediamo il mondo adulto con i loro occhi, avvertiamo le metafore nei loro giochi, la difficoltà del crescere, l'incomprensione verso una realtà in cui l'ingiustizia e la prevaricazione appartengono alla normalità (emblematica la sequenza del ristorante).
Julien, profondamente disorientato dal distacco dalla madre, ricerca un nuovo punto di riferimento affettivo; Jean, sensibile e intelligentissimo, mistifica la propria identità fra paura e solitudine, pur di sopravvivere. Si attraggono, ciascuno per ragioni diverse, si riconoscono entrambi parte di una realtà sfumata e indefinita, si legano attraverso la purezza di un sentimento autentico (struggente la sequenza in cui, durante uno dei frequenti bombardamenti, la silenziosa complicità spinge i due protagonisti a restare a suonare insieme il pianoforte, mentre tutti corrono al rifugio).

È interessante sottolineare come, all'interno delle storie individuali, il regista-sceneggiatore riesca sapientemente a calare la Storia, evidenziando in che modo, pur in un collegio di cosiddetti "protetti", permangano i disagi causati dalla guerra: le lezioni spesso interrotte dalle sirene di allarme per i continui bombardamenti, la totale mancanza di acqua calda,la penuria di cibo, le ingerenze dei collaborazionisti nella vita del collegio. Ai margini del racconto due altri personaggi-chiave, affatto secondari: padre Jean, figura fondamentale all'interno del convitto, adorato dai ragazzi, il cui principio reiterato: "Per me la vera educazione sta nell'insegnarvi a far buon uso della libertà" non lo salverà dall'odio irrazionale partorito dall'ideologia nazista; e Joseph, lo sguattero della scuola, beffeggiato e umiliato dai convittori perché claudicante e analfabeta, cercato tuttavia perché gestisce il mercato nero all'interno del collegio.
Quest'ultimo è il personaggio che più si avvicina al Lacombe Lucien sopra menzionato, sarà lui la causa del precipitare degli eventi: licenziato essendo colto nell'atto di rubare alimenti dalla dispensa, si vendica denunciando alla Gestapo padre Jean per avere nascosto e protetto giudei sotto falso nome.

Il drammatico epilogo sfiora la poesia (tracciato da brevi ma intense sequenze in cui i ragazzi sotto falsa identità e il direttore del collegio vengono strappati dalla loro vita quotidiana per essere deportati in un campo di concentramento) e suscita profonda commozione.
Ma non c'è retorica nel commiato finale tra i due amici, negli occhi di Julien e Jean resta solo un vuoto affettivo traboccante d'interrogativi sospesi.

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Recensione a cura di Pasionaria - aggiornata al 02/10/2008

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