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"Strappalacrime" è la definizione che viene data ad un genere di film ormai riconoscibile. Non è però, come è comune convinzione, necessariamente sinonimo di pellicola scarsa e diretta ad un pubblico cerebroleso, ma può dirsi, al pari di ogni altra opera, riuscita o meno. Certo, il nome in particolare sembra ispirarsi a quelle che riuscite non lo sono affatto, quelle che cercano letteralmente di strappare lacrime allo spettatore al di là della qualità della storia raccontata. "Autumn In New York", in questo senso, è un esempio perfetto. A dirigere è Joan Chen, attrice che ha lavorato nelle più famose serie televisive degli anni '80 e in seguito nel "Twin Peaks" di David Lynch. Dopo aver partecipato ad altre pellicole, sempre come attrice, nel 2000 gira questo suo primo lungometraggio. L'inesperienza dietro la macchina da presa c'è e si vede, e non è forse un caso che la sua carriera da regista inizi e finisca qui.
Will Keane (Richard Gere) ha 48 anni, è proprietario di un ristorante ed è apprezzato nel suo lavoro al punto da guadagnarsi la copertina di una famosa rivista. Non mostra intenzione alcuna di avvicinarsi sentimentalmente ad una donna, defilandosi nel momento in cui avverte che un rapporto sta per farsi troppo serio. Quando però incontra Charlotte (Winona Ryder) il suo equilibrio comincia a vacillare sotto i colpi di emozioni che non riesce a controllare come ha sempre fatto.
Un soggetto classico, quindi. In tutta probabilità solo sullo schermo lo si è visto centinaia di volte. In sé non è affatto un aspetto negativo, del resto creare qualcosa di totalmente nuovo ad oggi è forse quasi impossibile. Diviene però particolarmente negativo nel momento in cui un regista non riesce a renderlo personale, capace di distinguersi, o più semplicemente vivo, perché a quel punto non si ha a che fare solo con una pellicola non riuscita, ma con una pellicola, oltreché scarsa, già vista.
È quanto accade con l'esordio di Chen. Il film è infatti assolutamente debole, così come la sceneggiatura su cui è costruito. La stessa non funziona in nessuno dei suoi elementi costitutivi, a partire dai personaggi.
Will e Charlotte non sono altro che due stereotipi in nessun modo capaci di allontanarsi dall'anonimato. Il primo, nello specifico, viene delineato senza alcuno spessore individuabile. Non è sufficiente affidare ad una manciata di scambi triti e ritriti il ritratto di un uomo; non è sufficiente dire che è incapace di provare sentimenti profondi, che ne è spaventato perché agli occhi di chi guarda appaia immediatamente tale. È invece necessaria un'introspezione che renda il protagonista vero, credibile e quindi in grado di generare empatia. E di certo non è questo il caso, essendo Will un cliché senza forza alcuna, descritto con atteggiamenti banali e posticci. Charlotte, dal canto suo, dovrebbe essere la donna che scardina le porte del cuore di un uomo che ha vissuto un'intera vita da donnaiolo, come lo definisce la stessa Charlotte; così forte e interessante da smuovere Will.
Peccato non sia così. L'unica cosa che la rende, seppur solo in superficie, più umana è la malattia da cui è affetta, perché per il resto non è che una ragazzina alquanto banale, non simpatica come la pellicola vorrebbe far credere e con qualche sorriso di troppo.
A mostrare una spiccata banalità, tuttavia, non sono solo i personaggi. I dialoghi, allo stesso modo, sono quanto di meno originale ci si possa aspettare e contribuiscono enormemente alla non riuscita della pellicola. Scontati all'inverosimile e per nulla accattivanti. Sempre alla ricerca della frase ad effetto, anche a discapito di credibilità e solidità, finanche a sfiorare il ridicolo; basti vedere la sequenza in macchina, in cui Charlotte dice di riconoscere la verità toccando il cuore di un'altra persona, perché lei è malata di cuore. Come se tutto ciò avesse un senso logico. I dialoghi inoltre, come tutto il film, cercano appena possibile la frase strappalacrime, tanto che le parentesi dedicate a questo scopo durante la visione non si contano. Piange Will, piange Charlotte, piange la figlia di Will e piange pure la nonna di Charlotte. Piangono tutti, insomma.
Neanche le interpretazioni riescono a sollevare la pellicola, essendo come tutto il resto discutibili. Winona Ryder è brava, ma in questo ruolo sembra non crederci troppo nemmeno lei. Richard Gere invece è insalvabile. La sua prova è convincente quanto il personaggio che interpreta; si muove tra sorrisi sornioni non riusciti ed espressioni degne di una soap-opera, risultando al termine inequivocabilmente finto. I caratteristi invero mostrano una certa capacità attoriale, ma se è il protagonista a non funzionare non servono a molto. E non servono a niente se anche lo sguardo registico non fa nulla per elevare un racconto in caduta libera. La mano della Chen infatti non riserva virtuosismi, non appassiona, non penetra nei suoi personaggi.
Si limita a riprese da cartolina che vedono i due protagonisti passeggiare sul molo o discutere nel bel mezzo di un incrocio che a quanto pare per l'occasione è stato chiuso al traffico.
Il classico esempio di film preconfezionato, pertanto, che da offrire non ha nulla, se non l'attore di richiamo e un uso poco parsimonioso delle lacrime.
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Recensione a cura di K.S.T.D.E.D. - aggiornata al 20/02/2012 17.07.00
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