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"Succeda quel che succeda non esci vivo da qui"
Basta guardarlo negli occhi per capire che non scherza, Malamadre, occhi di fuoco, ardenti come tizzoni, incutono paura e ti fanno sentire codardo.
È il galeotto più temuto e carismatico della prigione, Malamadre. Spaventa perchè è brutale, ti fa sentire una nullità perchè è truce e ha la freddezza di uno stratega.
Ne sa qualcosa Juan Oliver, il giovane agente di polizia penitenziaria, fresco di assunzione, che, all'improvviso, per uno strano scherzo del destino, se lo ritrova di fronte proprio nel giorno del suo esordio come secondino.
Succede che il giovane ventiseienne Juan Oliver, sposato e con un figlio in arrivo, è stato appena assunto come guardia carceraria nel penitenziario di massima sicurezza di Zamora. Un lavoro duro e difficile che gli consentirà, comunque, di guardare con fiducia all'avvenire, e di assicurare la tranquillità economica alla sua famiglia.
Succede anche che, per un eccesso di zelo e per impressionare favorevolmente i suoi superiore, decida di presentarsi con un giorno d'anticipo sulla data stabilita come primo turno di guardia, lasciando a casa la bella moglie incinta al sesto mese del suo bambino.
Per fargli prendere confidenza fin da subito con una realtà a lui completamente estranea, almeno fino al giorno prima, e ragguagliarlo circa i regolamenti e le dinamiche che regolano la vita carceraria, due colleghi "anziani" decidono di fargli fare un giro e visitare alcuni locali della prigione.
Ma proprio nel momento in cui sta passando nel famigerato "braccio di massima sicurezza", dove sono detenuti i criminali potenzialmente più violenti e pericolosi, un pezzo di intonaco si stacca dal soffitto in ristrutturazione e i calcinacci gli crollano addosso, procurandogli un lieve stordimento e una ferita alla testa. In attesa che riprenda i sensi, aspettando l'arrivo di un medico, viene fatto sdraiare sulla brandina di una cella vuota (ovviamente la 211).
Nel frattempo quel brutto ceffo di Malamadre, dopo essere riuscito ad immobilizzare un secondino e a sottrargli le chiavi delle celle, assume il controllo del braccio e organizza una rivolta contro il duro regime carcerario.
Accortisi del pericolo imminente ai due accompagnatori non rimane altro da fare che scappare, abbandonando il futuro giovane collega al suo destino.
Quando Juan riprende i sensi, capisce subito cosa sta succedendo e si rende immediatamente conto del grave pericolo cui va incontro.
Dopo un primo momento di smarrimento, per non rischiare di farsi linciare, decide di liberarsi di tutto quello che potrebbe far capire chi è, e cosa stia facendo in quel luogo.
Comincia così la sua discesa agli inferi: si slaccia le scarpe e butta le stringhe insieme al portafoglio nel gabinetto, nasconde la giacca sotto il lettino e si infiltra tra i detenuti, fingendosi uno di loro, un assassino appena rinchiuso in prigione. Cercando così di salvarsi la pelle e resistere fino a quando la rivolta non sarà domata.
Ma nessuno a priori è destinato a stare dalla parte dei buoni, come nessuno è nato per essere solo cattivo; tutto dipende dalle circostanze e dalle opportunità che la vita ti offre.
Bellissimo (e sconvolgente) nella sua cruda violenza, "Cella 211 per certi versi si ricollega al vasto filone del genere carcerario, di cui gli americani sono abili maestri (si pensi a quell'indiscusso capolavoro di "Papillon", ma anche al mitico "Brubaker", al drammatico "Fuga di mezzanotte", al coraggioso "Le ali della libertà, al duro "Fuga da Alcatraz", all'intenso "Il miglio verde"), ma per certi versi ne sovverte gli stilemi e le strutture, forse perchè il sistema carcerario americano è profondamente diverso a quello europeo; per concezione, per organizzazione, ma anche per legalità.
Nel cinema americano si cerca sempre una via di fuga o la catarsi compulsiva, in "Cella 221" (ma anche nel recente, straordinario "Il profeta"), invece, nessuno vuole scappare o essere affrancato, si ritrova invece un microcosmo interno violentissimo in cui si evidenziano tutte le metafore del mondo esterno: i medesimi meccanismi di potere, le medesime ingiustizie sociali, i privilegi politici, l'amicizia virile, il sospetto, la vendetta.
"Cella 211", inoltre, è un film di forte denuncia sociale sul sistema carcerario spagnolo (concetto che si può estendere ai sistemi carcerari di vari Paesi europei), che invece di rieducare annienta definitivamente l'individuo nel possesso della sua identità. La corruzione all'interno dilaga: i secondini spesso fanno comunella con i detenuti più rispettabili, si scambiano favori, si passano la droga, si comunicano informazioni.
E poi c'è il problema del sovraffollamento delle carceri, delle condizioni di vita disumane dei prigionieri, della violenza gratuita dei secondini sui soggetti psicologicamente e moralmente più deboli. Tutti temi di grande attualità che molto spesso la cronaca ci racconta e le associazioni umanitarie denunciano, con scarsi risultati, perchè passato il primo momento di indignazione, tutto torna come prima, se non peggio di prima.
"Cella 211" si permette anche un severo giudizio politico sull'ETA e sui privilegi di cui godono i terroristi baschi detenuti; il tutto sotto l'occhio benevolo del Governo.
Anzi è proprio la loro temporanea presenza nel braccio dei detenuti comuni a far scattare la rivolta di Malamadre, quando si rende conto che i tre prigionieri potrebbe costituire un'ottima arma per far pressione sulle autorità governative, preoccupate della loro incolumità e della gestione complessiva dei delicati rapporti con il governo basco, in quanto la loro eventuale morte innescherebbe tutta una serie di ritorsioni da parte dei militanti dell'organizzazione in Spagna.
Su tutto incombe l'emblematica presenza della cella che dà il titolo al film. Una cella che l'incipit ci mostra in tutta la sua drammatica realtà, e un detenuto che nella luce di una flebile fiamma, stanco delle angherie a cui era sottoposto da parte dei secondini, si taglia le vene con un temperino improvvisato, mentre il sangue gocciola e tinge di rosso l'acqua sporca del lavandino.
Ecco perchè la cella 211 era vuota.
Sta tutta quì la morale del film e il suo brutale messaggio. Perché è tra quelle mura, su cui è disegnata tutta la disperazione di chi l'ha occupata, che l'energia ferina pulsa sotto la superficie delle cose e delle persone.
In "Cella 211" si fondono insieme la razionalità del regista Daniel Monzon e la genialità di Jeorge Guerricaechevarria, che ha collaborato con il regista nella stesura della sceneggiatura del film, infondendogli quel tocco spiritoso, virato allo humour nero, che fa di un film violento e maschio uno spettacolo godibile, che disturba ed emoziona fino all'ultimo istante.
Geniale la cura stilistica di Monzon per i dettagli: ad esempio, l'inquadratura insistita della nuca di Malamadre e della sua massiccia testa rasata, mostrandocene nei dettagli ravvicinati, le ferite e il sangue che macchia le magliette; come pure l'uso del flashback con cui ci mostra, idealizzandoli, squarci della vita coniugale di Juan Oliver, che rappresentano momenti emozionanti e quasi poetici, in un film drammatico e intenso, e psicologicamente violento.
Così come apprezzabile appare la scelta del regista di non parteggiare per nessuna delle parti in causa; egli infatti ci mostra l'aggressività, la durezza, la brutalità che serpeggiano nel microcosmo carcerario, ma anche la slealtà, la malefede, la falsità del mondo esterno, e soprattutto dei politici, del direttore della prigione, dei secondini, dei giornalisti che travisano e distorcono le notizie.
E poi ci sono le numerose inquadrature dall'alto, che riescono a darci perfettamente l'idea del caos feroce della crudele rivolta dei detenuti, e del senso di angoscia claustrofobica che attanaglia tutti coloro che si trovano costretti a condividere spazi angusti e sovraffollati, come appunto sono diventati gli istituti di pena.
Daniel Monzon sa usare alla perfezione i volti, indovinatissimi, di tutti gli attori, a cominciare dal superbo Luis Tosar, epocale nel tratteggiare il difficilissimo ruolo di Malamadre.
Molto bravo anche l'esordiente Alberto Ammann, un giovane attore argentino alla sua prime esperienza importante, che si dimostra già capace di passare con disinvoltura dal ruolo del ragazzo per bene a quello aggressivo e alterato dalla rabbia e dalla violenza.
Ottimo anche il braccio destro di Malamadre, interpretato da un solido Carlos Bardem (fratello di Javier) e la brava e bella Marta Etura.
Il film ha vinto otto premi Goya (gli Oscar spagnoli) tra cui quello per la miglior regia, miglior sceneggiatura non originale, miglior attore protagonista a Luis Tosar, miglior attore esordiente al bravo Alberto Ammann e miglior attrice non protagonista a Marta Etura.
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Recensione a cura di Mimmot - aggiornata al 28/04/2010
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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