Recensione distretto 13: le brigate della morte regia di John Carpenter USA 1976
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Recensione distretto 13: le brigate della morte (1976)

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locandina del film DISTRETTO 13: LE BRIGATE DELLA MORTE

Immagine tratta dal film DISTRETTO 13: LE BRIGATE DELLA MORTE

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Immagine tratta dal film DISTRETTO 13: LE BRIGATE DELLA MORTE
 

"Assault on precinct 13" può essere considerato probabilmente il vero esordio cinematografico di John Carpenter. "Darkstar", il suo film precedente, era nato come mediometraggio di 45 minuti che, dopo aver avuto un buon successo all'interno dei circuiti universitari, fu successivamente gonfiato a 35 mm ed esteso nella sua durata per la distribuzione cinematografica. al contrario "Distretto 13" fu concepito fin dall'inizio come un lungometraggio.

Carpenter non ha mai fatto mistero di amare il genere western, tuttavia non ha avuto la possibilità in tutta la sua carriera di girarne uno, anche se le atmosfere e i rimandi sono presenti in tutte le sue pellicole. "Distretto 13", all'interno della sua filmografia, rappresenta ciò che è più vicino a questo genere o almeno il punto in cui Carpenter riversa tutto il suo amore verso quegli autori classici (Ford e Hawks), tenendo conto delle riletture moderne sul genere (Peckinpah e Leone) e delle novità emerse qualche anno prima in altri generi come l'horror (Romero). Inoltre è il primo film dove si mostra palese la denuncia verso la falsità del cosiddetto sogno americano, tema ricorrente nella maggior parte delle sue pellicole future.

La storia, racchiusa nell'arco di un'unica giornata, si compone di tre tronconi che si sviluppano parallelamente fra loro con l'orario scandito in sovraimpressione: nel primo un uomo, accompagnato dalla sua bambina, è alla ricerca della figlia più grande residente nel quartiere con lo scopo di convincerla a ritornare a casa, nel secondo un neopromosso tenente di polizia si reca verso il distretto di polizia n. 13 per sbrigarne le pratiche di chiusura, dato che lo stesso è stato ridislocato in un altro luogo, nel terzo un furgone blindato della polizia penitenziaria sta trasferendo tre condannati a morte verso il carcere di Sonora.
Il sottotesto che unisce queste storie è una gang del ghetto di Los Angeles che stipula un vero e proprio patto di sangue per vendicare la morte dei loro compagni uccisi dalla polizia durante la stessa notte. Ognuno dei protagonisti di queste storie, chi per dovere o chi per diverse vicissitudini, convergeranno inesorabilmente verso questo distretto in smobilitazione, luogo dove le tre storie si uniscono ed in cui la gang tenterà in ogni modo di penetrare all'interno dell'edificio difeso da pochi componenti.

Questo western metropolitano ricalca idealmente la struttura di "Un dollaro d'onore" di Howard Hawks. Il carattere stesso dei personaggi è determinato secondo canoni hawksiani: una moralità ben definita guidata da poche ma ferree regole di comportamento che permetteranno in poco tempo agli assediati di fare fronte comune verso la minaccia esterna. Da sottolineare anche la presenza del personaggio femminile di Leigh, prototipo di quella donna forte marchio distintivo di molti film del regista americano. Siamo però ancora lontani quindi dalla disaggregazione del gruppo operata dallo stesso Carpenter, dopo qualche anno, nel film "La cosa" e lontano perfino dalle tematiche romeriane de "La Notte dei morti viventi" dove il gruppo non raggiunge un livello di coesione tale da essere in grado in grado di fronteggiare gli zombi.

E proprio come degli zombi si comportano gli assedianti: ovviamente tangibili dal punto di vista fisico ma astratti nella loro identità, avanzano senza tregua verso questa specie di fortino come degli indiani nei western classici amati da Carpenter in gioventù. Questo sciame senza un volto definito obbedisce unicamente a delle regole che nulla hanno a che fare con la società, obbedisce a riti come il patto di sangue mostrato all'inizio del film che ne fanno un corpo unico privo di qualsiasi umanità, oltre che ad una propria identità, dedito solo alla violenza ed in grado di apparire e dileguarsi a piacimento facendo scomparire ogni traccia del loro passaggio.

E' grazie anche ad accorgimenti di questo tipo che Carpenter riesce a trasmettere quell'atmosfera da incubo che domina per tutto il film girato quasi interamente in notturna.
Siamo a Los Angeles, non in una giungla
Paradossalmente però tutta la situazione è determinata dalle leggi della giungla, anche se in un contesto metropolitano. Leggi non scritte che per gli assediati hanno lo scopo finale della pura e semplice sopravvivenza. In un tale contesto estremo ogni barriera sociale, ogni arbitraria divisione tra buoni e cattivi perde ogni senso. Di fronte ad una violenza così cieca può accadere anche che un tenente di polizia possa armare un condannato a morte e che quest'ultimo lotti fianco a fianco alle forze dell'ordine in nome dell'unico imperativo che la situazione richiede: salvare la pelle.

La maestria di Carpenter risiede anche nella semplicità con cui smorza sul nascere qualsiasi appunto che può essere fatto riguardo la credibilità o la plausibilità di questa scelta.
Un distretto di polizia in smobilitazione e semi-abbandonato, con ogni forma di comunicazione tagliata dal resto del mondo non è così diverso dalla stazione del Polo Sud teatro delle vicende de "La Cosa": le lande polari si sono materializzate nella città di Los Angeles con lo stesso senso di isolamento da qualsiasi contesto civile e di umana convivenza. L'autorità sta indietreggiando sotto i colpi di questa Nuova Frontiera alimentata da quel forte senso di sfiducia della stessa società americana nei confronti delle istituzioni precostituite che hanno avuto dei durissimi colpi alla loro credibilità a causa della guerra in Vietnam e dallo scandalo Watergate.
Quando l'uomo con la bambina sono in macchina per cercare l'indirizzo dove abita la figlia più grande, la bambina suggerisce di chiedere indicazioni a dei poliziotti, visto il loro continuo girare a vuoto. Ma l'uomo preferisce non farlo motivandolo con il fatto che avrebbero fatto troppe domande. Un piccolo segno di sfiducia in una scena all'apparenza banale che diventerà però, proprio per l'effetto di questa scelta, il vero motore dell'intera storia. Il successivo omicidio della bambina, una delle scene più agghiaccianti dell'intero cinema carpenteriano costruita peraltro in maniera superba con continue attese e disattese in modo da far aumentare la tensione a livelli altissimi, scatenerà una reazione a catena in cui l'uomo (individuo che dovrebbe rappresentare la cosidetta società civile) si abbandonerà alla sete di vendetta nei confronti degli assassini.
In definitiva non esiste quindi alcun contesto di civile convivenza nel ghetto di Los Angeles, solo la legge dell'occhio per occhio e dente per dente. L'ordine morale sopravvive solo nei componenti che si ergono a difesa del distretto, un ordine però dettato da singole scelte, fondato sul proprio eroismo individuale e sulle macerie delle autorità istituzionali.

"Assault on precinct 13" rappresenta quindi per Carpenter la fase embrionale del suo capolavoro successivo "1997: Fuga da New York", sia nei singoli personaggi (Napoleone Wilson-Snake Plissken) senza un apparente passato come gli eroi di Sergio Leone, sia per il fallimento di ogni istituzione che rende perfettamente equidistanti una società brutale e autoritaria come il governo degli Stati Uniti sia la legge della giungla che domina la società criminale di New York.

Forse proprio per questo pessimismo che permea tutta la pellicola, molto più vicino di quanto si pensi alla vita reale, che Distretto 13 non sarà accolto da un grande successo di pubblico e verrà colpevolmente sottovalutato dalla critica, per poi essere giustamente rivalutato anni dopo la sua uscita. Lo stesso film di Walter Hill "I guerrieri della notte", sotto alcuni aspetti come la violenza delle metropoli americane, è debitore della pellicola di John Carpenter.

"Distretto 13" può essere considerato quindi, anche per la sua collocazione temporale, il 1976, un film collante tra due periodi distinti: il grande cinema classico americano che si riverbera soprattutto nei suoi personaggi principali e la rifioritura di generi cinematografici che negli anni '70 ha avuto un notevole impulso riguardo il poliziesco ("French Connection") e specialmente l'horror che, grazie a pellicole come "La notte dei morti viventi" di Romero, sta vivendo una delle sue stagioni più feconde dal punto di vista creativo e qualitativo.

Carpenter inserisce all'interno della pellicola molte citazioni e omaggi al cinema passato e contemporaneo sia nei nomi dei personaggi (il tenente si chiama Ethan Bishop, incrocio fra l'Ethan di "Sentieri Selvaggi" e il Pike Bishop de "Il Mucchio selvaggio" di Peckinpah, lo stesso Carpenter usa lo pseudomino di John T. Chance, il nome del protagonista di "Un dollaro d'onore", come autore del montaggio), sia nelle caratteristiche peculiari degli assedianti che ricordano gli zombi di Romero e sia nella costruzione di alcune scene: il lancio del fucile da parte di Bishop a Napoleone Wilson ricalca fedelmente quello di "Un dollaro d'onore" tra Colorado e lo sceriffo Chance, mentre la sparatoria a colpi di silenziatore che frantuma vetri e oggetti del distretto richiama la sequenza finale di "Cane di paglia" di Peckinpah.

Una menzione particolare merita senza dubbio la colonna sonora firmata dallo stesso Carpenter, una delle più riuscite della sua filmografia, al pari di "Halloween" e "Fuga da New York". L'apporto della sua musica è decisivo per la riuscita della pellicola, grazie alla capacità di rendere ancora più angosciante e tesa l'intera ambientazione notturna. Un connubio, la notte e la musica, che sarà uno dei tratti distintivi dell'intero cinema di John Carpenter, perfettamente a suo agio quando calano le tenebre ed entra in scena l'incubo.

"Nothing happened?" "Where's the bodies?"

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Recensione a cura di The Gaunt - aggiornata al 10/04/2009

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