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La quiete dopo la tempesta è quello che la natura offre alla natura dopo essersi scatenata in tutta la sua violenza. Ogni manifestazione di potenza è seguita dal silenzio e dalla calma della quiete che trasferisce ai suoi abitanti naturali, gli animali e le piante, il piacere del ritorno alla normalità, restituendo quell'equilibrio e quell'armonia propri della natura stessa.
L'uomo è stato perfettamente in grado di imitare la furia devastante degli elementi, lo ha fatto quando ha iniziato ad utilizzare le bombe, ma con una variante: al loro seguito, invece della quiete, ha lasciato sempre e soltanto miseria e distruzione, cenere e macerie, disperazione e morte. Questo limbo, questo cono d'ombra, questo spettrale letargo che si viene a creare dopo ogni devastazione causata dall'uomo è l'anno zero del film di Roberto Rossellini preso in esame in questa recensione.
Siamo a Berlino, è il 1947. Il piccolo Edmund, appena tredicenne, è costretto - con lavori saltuari più o meno leciti - al mantenimento della propria famiglia. Il giovane vive in un modesto appartamento con il padre (un uomo afflitto da una malattia cardiaca che lo fa stare cronicamente a letto), il fratello (che a causa dei suoi trascorsi nazisti passa le sue giornate costantemente nascosto in casa) e la sorella (sempre in bilico tra responsabilità familiari e prostituzione).
L'incontro casuale con un suo anziano ex insegnante segna per sempre la giovane esistenza del ragazzo. Ambiguo, mostruoso nell'approfittare del contesto per esplicare le sue tendenze pedofile l'uomo, intriso di ideologia nazista, circuisce il bambino esponendogli le proprie idee riguardo alla superiorità dei forti sui deboli, sulla necessità di eliminare i secondi per salvare i primi.
Condizionato dalle parole dell'uomo, Edmund vede nella figura del padre l'anello debole di questa catena e, in un momento di ingenua confusione interiore, lo avvelena. Scacciato dal maestro che non vuole responsabilità sull'accaduto, il giovane vaga per la città disorientato ed afflitto dal rimorso; salito all'ultimo piano di un edificio diroccato, sotto lo sguardo della sorella, si getta nel vuoto.
Lo scenario che si presenta a noi all'inizio del film è lo stesso che appare agli occhi del giovane Edmund mentre cammina tra le rovine di una città distrutta. Berlino sopravvive faticosamente agli orrori della guerra, sfiancata e annichilita, come lo sono tutte le città che, al termine di un conflitto, offrono lo stesso panorama allucinante di distruzione.
la macchina da presa ci introduce immediatamente all'interno di un quadro di sofferenza dove, in una cornice di ceneri e macerie, si muovono i protagonisti della pellicola, ne più ne meno di come si sarebbero mossi gli abitanti reali di una qualsiasi città bombardata in qualunque altra parte del mondo. E' l'aspetto realistico e documentaristico che Rossellini ha voluto dare alla pellicola, quel mostrare il reale e penetrare la condizione umana che tanto ha affascinato molti giovani critici e registi di quei tempi, portandoli in seguito a realizzare film seguendo questo modello.
Al di là del rischio che si corre quando la tendenza ci porta a celebrare il cinema italiano degli anni '40 e '50 facendoci gridare, spesso con troppa facilità, al capolavoro, un anno come il 1948 si può comunque considerare particolarmente fertile in questo senso. A pochi mesi di distanza escono lavori come "Ladri di biciclette", "La terra trema" e "Germania anno zero", opere importanti di altrettanto importanti registi quali Vittorio De Sica, Luchino Visconti e Roberto Rossellini, film di notevole intensità che all'epoca furono oggetto di dibattiti critici e discussioni più o meno calorose.
Al centro di uno dei momenti più innovativi e dinamici del cinema italiano, il 1948 rappresenta il fulcro, il crocevia dell'incantevole periodo neorealista nonchè importante momento storico in quanto lo stesso anno entrava in vigore la costituzione della repubblica italiana, ed è proprio in questo anno "magico" che Rossellini impiega tutte le sue forze per realizzare quello che da molti è considerato il suo capolavoro: "Germania anno zero".
Al pari di "Roma città aperta" e "Paisà" anche "Germania anno zero" richiese un impegno notevole da parte del regista. Come i due precedenti lavori, il film fu girato in tutta fretta durante i mesi di guerra e di dopoguerra; bisognava cavalcare il drammatico momento, organizzare il lavoro, elaborare il soggetto, trovare gli attori.
Berlino non poteva essere ricostruita in studio: le macerie, gli edifici diroccati, la miseria erano lì in tutta la loro drammatica realtà ed erano scenari che andavano descritti e raccontati prima che avvenissero i naturali mutamenti di prospettive, sia visivi (era sufficiente che gli alberi dalla loro livrea invernale si vestissero di foglie per cambiare radicalmente atmosfera) che psicologici (con il passare dei mesi il ricordo della guerra si faceva sempre più lontano).
Le basi per costruire la struttura e la vita della famiglia di Edmund, il giovane protagonista della storia, Rossellini le trovò penetrando all' interno delle vite di normali famiglie tedesche che sopportavano realmente quella condizione. Nacque così il personaggio del padre malato, il cui interprete fu trovato al "mercato degli schiavi" locale nel quale si raccoglievano disoccupati di ogni età pronti ad offrirsi ad un potenziale datore per lavori di qualsiasi specie; del fratello, perennemente condizionato dal terrore di essere scoperto e catturato e perciò ridotto ad una vita parassitaria; della sorella, frequentatrice di locali bazzicati dai soldati alleati, disposta a prostituirsi per qualche sigaretta americana.
Da questo quadretto, già di per sé desolante, emerge la figura del maestro di scuola nazista, odioso rappresentante di un mondo ormai distrutto, mostruoso esempio di cinismo e perversione volto soltanto a sfruttare il momento di destabilizzazione che stava imperversando per soddisfare i propri piaceri. Insidia Edmund per esaudire le sue inclinazioni pedofile e indottrina il ragazzo con folli teorie di ideologia fascista; teorie che trovano, nell'ingenuità del giovane, il fertile terreno per essere messe in pratica tanto da condurre al drammatico epilogo.
"Germania anno zero" completa quindi la trilogia della guerra valicando i confini per documentare la tragedia tedesca, la Berlino che appare a noi così profondamente ferita e spettrale, in cui si vede la gente in coda ai negozi di generi alimentari e a praticare il mercato nero per le strade, dove i bambini giocano a piedi nudi tra le macerie. E' lo specchio riflesso di tutta la Germania del dopoguerra, è uno sguardo rivolto ad un intero popolo, sconfitto, all'interno del quale si muovono una moltitudine di individui rappresentati qui dal piccolo Edmund e dalla sua famiglia.
Assoluto protagonista, Edmund (un bravo Edmund Meschke) fu scovato da Rossellini durante una sua visita in un circo: il bambino era il figlio di un domatore di cavalli. Quel viso dolce e malinconico, ma segnato nelle espressioni dalle atrocità della guerra rendendolo a tratti duro, affascinò il regista. In quei lineamenti vi trovò la solitudine dell'infanzia negata del protagonista, quella tristezza di fondo propria di quei bambini che, invece di ricevere tutela da parte degli adulti, sono costretti a donarla a loro in un penoso ribaltamento dei ruoli (è Edmund a provvedere alla famiglia).
E' l'ennesima denuncia sociale di un regista nei confronti delle responsabilità che gli adulti dovrebbero avere nei riguardi delle nuove generazioni, lo aveva già fatto magistralmente Vittorio De Sica con film come "Ladri di biciclette" e "Sciuscià", denunce che sembrano giacere lì, in un limbo, mai ascoltate. Ancora oggi, riguardo ai sempre più drammatici problemi dell'infanzia, l'umanità è ancora ferma all'anno zero.
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Recensione a cura di Marco Iafrate - aggiornata al 12/03/2009
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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