Recensione hanno fatto di me un criminale regia di Busby Berkeley USA 1939
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Recensione hanno fatto di me un criminale (1939)

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locandina del film HANNO FATTO DI ME UN CRIMINALE

Immagine tratta dal film HANNO FATTO DI ME UN CRIMINALE

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"Ci sono uomini che non si assomigliano, ma è difficile che abbiano lo stesso modo di muoversi" (cit.)

Negli anni trenta il cinema americano ambiva ad affrontare "apertamente" le tematiche sociali, ma senza ovviamente la libertà espressiva dei decenni successivi.
In ogni caso, i film di King Vidor, di Frank Borzage, di Preston Sturges, di Mervin LeRoy e George Stevens avevano sicuramente una certa impronta "progressista" che fece scalpore (per esempio non è un mistero per nessun appassionato di cinema che "Allelujah" di Vidor sia il primo film interamente all black del cinema, e che "I dimenticati" di Sturges metta duramente in discussione i valori dell'american way of life).
Il personaggio di Johnny "Burns" Bradfield nel film di Berkeley rappresenta perciò l'anello di congiunzione tra i prototipi maschili dell'epoca e i miti ribelli del cinema degli anni '50.

La particolarità di "Hanno fatto di me un criminale", diretto nel 1939 da un inedito Busby Berkeley temporaneamente in vacanza dai musical, è la costruzione dello script: una storia assai movimentata viene riassunta nella relativa brevità di un lungometraggio di media lunghezza (dura 92').

La vicenda racconta l'escalation di un giovane pugile (affermato fin dalle prime sequenze, cfr.) che si finge ingenuo e sprovveduto, e che viene incidentalmente coinvolto in una rissa col suo manager che si conclude con l'omicidio di un giornalista.
Ingiustamente accusato e ricercato dalla polizia, l'uomo sfugge ad un incidente in macchina dove viene dichiarato morto.
Privato della sua identità ma anche della sua "vita sociale", Bradfield emigra in Arizona, dove tenta di rifarsi una nuova vita: ospite di una fattoria che, di fatto, è un riformatorio per minorenni "difficili" si innamora, ricambiato, della giovane e attraente direttrice, e fa amicizia con i ragazzi del luogo, ai quali insegna "L'arte della Boxe". Ma proprio quando le cose si mettono al meglio, un cinico poliziotto svela la sua vera identità e gli dà la caccia...

Il film di Berkeley, remake di "Seconda aurora" (1933, Archie Mayo) è interessante per varie ragioni, al di là della sua caratura artistica piuttosto zoppicante.

Prima di tutto, non è direttamente un film sulla boxe, ma legato a un tema assai caro nel cinema americano: quello dell'individuo che perde tutto il suo potere e finisce per gestire drammaticamente il resto della sua esistenza.
Il film parla inoltre di un pugile già affermato, o perlomeno una Stella promessa nel firmamento della boxe, senza la consueta escalation del giovane ambizioso verso il successo che solitamente si vede nei vecchi film del genere.
Tutta queste premesse vengono accentuate da un fatto di cronaca, un omicidio, dove il protagonista è coinvolto e ritenuto l'unico colpevole.
A questo punto lo spettatore potrebbe parteggiare indistintamente per il giovane Johnny, ma è presto per farlo: produttori e regista hanno efficacemente messo in discussione la parabola sociale del protagonista, e la celata invettiva del film contro la giustizia descrivendo fin dalle prime sequenze il dualismo di Johnny e della sua proverbiale falsa ingenuità: è un cinico, che davanti alla vittoria aveva "ringraziato la mamma" e poi riso dell'aver menato per il naso i suoi ammiratori e la stampa, capace di ammettere di non avere veri amici e "nulla di ciò che conta".
Johnny viene scrupolosamente e severamente messo alla berlina da un mondo che è fatto a sua immagine e somiglianza. Ingannato da una donna (Ann Sheridan) e dal proprio manager, costretto però a perorare la causa (della sua morte ufficiale) per sfuggire a una giustizia che l'ha già condannato prima di averlo arrestato.

Se qualcuno ha qualche conoscenza diretta del cinema americano degli anni '30, troverà sicuramente molte affinità con altri film più o meno celebri: la società Usa di allora doveva avere un modo tutto suo di raccontare certe vicende, facilmente entusiasta del tipico clichè dell'uomo che "costruisce a modo suo la propria redenzione" (se Johnny è innocente, lo è altrettanto la sua condotta morale?).
In un film di Van Dyke, "Le due strade", Clark Gable sembra quasi rassicurato dall'espiazione della sua condanna a morte lasciando all'amico (poliziotto e quindi uomo onesto per partito preso) la consolante dimensione della "scelta giusta".
In "Angeli con la faccia sporca", di Micheal Curtiz, il reietto e asociale James Cagney si lascia andare a un'artificioso grido di paura, prima di finire sulla sedia elettrica, per disonorare la sua fama di "fuorilegge temerario" e non diventare un "cattivo maestro" per le nuove generazioni.

Se inizialmente "Hanno fatto di me un criminale" mette in luce il business della boxe, fatto di donne e soldi facili, di cui Johnny è affiliato e complice, tutta la fuga verso l'Arizona trasforma questo cinico sfortunato in un'imitazione elegiaca dei personaggi di Steinbeck o di Woody Guthrie.
Le sequenze che lo portano verso una nuova vita, mentre legge sui giornali del suo necrologio o quando, sudato e affamato, cammina per interi chilometri, sono memorabili, ma sembrano stranamente rispecchiare quel vezzo cinematografico di autori che alimentano una finta aria progressista ad una storia che in realtà ambisce a sminuire il suo apparente coraggio.

L'ambivalenza di Johnny è pari all'ambivalenza del film, che diventa rispettivamente un film sulla boxe, sulla delinquenza minorile (cfr. la presenza dei Dead End Kids in particolare) e sulla coscienza individuale di ciascuno di noi.

L'arrivo del protagonista a Rancho Rafferty, affascinato dalle grazie della direttrice (sorella di uno dei "ragazzi difficili" cfr. il bravissimo Billy Halop) e il rapporto quasi fraterno che si crea con la "banda" dei Dead End Kids conferiscono al film un valore particolare.

Per chi non lo sapesse, i Dead End Kids sono, appunto, i "ragazzi della strada sbarrata" dal titolo di quel film di Wyler ("Strada sbarrata", "Dead End" appunto) che è rimasto a modo suo un importante manifesto del cinema sociale americano degli anni '30.

La capacità di Johnny di adattarsi ad ogni circostanza lo rende vulnerabile, e (finalmente) ai nostri occhi umano e autentico, molto più di quanto avessimo creduto.

Il film di Berkeley è un decoroso prodotto dell'epoca, nonostante i dialoghi moralisti ed edificanti, e qualche situazione che, come previsto per storie del genere, rischia davvero (soprattutto per gli spettatori recenti) di far venire il "latte alle ginocchia". Non a caso, il tema della riabilitazione non ha qui nulla dell'invettiva di LeRoy, ma esprime unicamente una "ragione di vita" che tenta di ribaltare la recidività della coscienza.
Se Johnny viene "riabilitato" dal regista e dallo spettatore, anche il suo odioso persecutore finisce, quasi per curiose influenze astrali, a ridimensionare il suo implacabile senso di (in)giustizia: si tratta di Claude Rains, uno dei volti più espressivi e temuti del cinema americano (v. "Casablanca") che, anche nel momento cruciale della sua desistenza, non è abilitato cinematograficamente a destare un'improvvisa simpatia nello spettatore (e del resto nemmeno ci prova, grandiosa comunque la sua interpretazione, cfr.).

Nei clichè dei drammi dell'epoca ciò che eleva le pellicole a un certo interesse visivo è il melange tra commedia e dramma e non a caso a un certo punto il film prende toni più leggeri, senza enfatizzare l'esito finale, che pretende l'happy end pur se preannunciato da infausti e per fortuna non veritieri presagi.

La macchina hollywoodiana non è riuscita comunque a estinguere il parametro sociale del film, anche se è indubbiamente più felice l'approccio sentimentale della vicenda: sia nel rapporto con la bella di turno, sia nell'incantesimo dell'amicizia con i ragazzi del Ranch, il film ha un impatto emotivo che non tradisce.

Quando Johnny si iscrive a un'incontro di boxe per vincere 500 dollari a round è un uomo rinnovato ed entusiasta, ma presto deve fare i conti con la morsa della giustizia che tenta di metterlo nuovamente knock out.
Per questo inizialmente si rifiuta di partecipare all'incontro, provocando la delusione dei ragazzi del Ranch e, in particolare, del fratello della donna che ama, incapace di affrontare razionalmente questa notizia.

La sequenza del confronto tra il ragazzo e Johnny è un'altra sorpresa di un film stereotipato, ma ricco di momenti alienanti e prodigiosi: un momento di grande commozione e, per una volta, non gratuito.

In un certo senso il legame con altri film è incentivato proprio dallo sviluppo dello script: lo stesso Halop è il ragazzo che venne arrestato sulla "strada sbarrata" due anni prima, e l'amarezza dei ragazzi davanti alla momentanea rinuncia di Johnny sembra la stessa che affrontavano quando vedevano il loro "eroe" James Cagney gridare e singhiozzare davanti all'imminente condanna a morte in "Angeli con la faccia sporca".

Nella filmografia di John Garfield, Johnny Burns Bradfield non è il personaggio più memorabile, ma sicuramente il più significativo: anche se le ingenuità del film col tempo si sono rafforzate, l'ambivalenza del personaggio costituisce un perno nella carriera dell'attore, atto spesso a impersonare "uomini difficili che si confrontano con una realtà da cui si liberano faticosamente ma con tenacia".

Il Realismo americano non trova nel film un'esempio significativo, ma è altrettanto indubitabile che l'attore, rigorosamente attratto dal Metodo Stanislavsky e per queste ragioni artefice suo malgrado dell'Actor's studio e dei nuovi metodi di improvvisazione enfatizza questa sorta di perenne recitazione, quasi a voler trasmettere agli spettatori tutto il pathos individuale che a volte appesantisce l'aspetto "esteriore" del film.

Come uno strano ibrido tra l'animo conservatore delle tematiche qui presenti e una ben più temeraria invettiva sociale, "Hanno fatto di me un criminale" resta un prodotto medio interessante, sicuramente meno formale dei suoi contrastanti limiti stilistici.

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Recensione a cura di kowalsky - aggiornata al 21/11/2007

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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