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"Poiché non potevo fermarmi per la morte, essa benigna si fermò per me.
Il cocchio conteneva noi due sole e l'immortalità".
Emily Dickinson
Erika Bain (Jodie Foster), borsa in spalla e microfono alla mano girovaga per la città di New York. Come un segugio fiuta piste fatte di suoni, si perde fra le ombre dei miti passati e delle piccole vite di tutti i giorni.
Nostalgica e pensosa, ascolta le tracce lasciate da milioni di abitanti senza nome, segue le scie rumorose dei vagoni della metropolitana. Indugia assorta per i percorsi che furono di Poe, Sid Vicious, o dei sogni di carta come la piccola Eloise, il suo gatto ed una tartaruga ghiotta d'uva passa.
Cammina per le strade e semplicemente ce le racconta.
Le cose, i sentimenti, le sensazioni più grandi e profonde non hanno bisogno di essere proclamate a gran voce, si vivono silenziosamente, perciò la vita, la morte, la paura sono mute. Per cui, nel suo programma radiofonico descrive suadente il proprio vagabondare, il rimbalzare di una pallina da tennis, i propri paesaggi interiori colmati dal fluire della vita metropolitana.
Ama la sua città, ne ama la quieta indifferenza degli abitanti, l'artificiosa affettazione dei numi d'avanguardia, la burbera spontaneità della sua vicina di casa, ma soprattutto Erika Bain ama il suo uomo: David.
Già in molti altri film di Neil Jordan la violenza arrivava a sovvertire la narrazione, a volte in maniera lieve e fantasiosa ("Breakfast on Pluto"), altre con tratti surreali e provocatori ("In compagnia dei lupi", "The Butcher Boy"), in altri casi quasi assolvendo un ruolo da deus ex machina ("La moglie del soldato", "Fine di una storia").
Qui la violenza è tanto prevedibile quanto repentina e immotivata, irrompe brutale come spesso avviene nella vita.
David muore per mano di tre balordi durante una passeggiata al parco ed Erika, dopo due settimane di coma, si ritrova sola e diversa ad affrontare il vuoto che la divora. Estranea a se stessa non è più in grado di affrontare i luoghi noti e amati, quell'ombra lunga sul prato.
Le pareti della sua casa diventano via via un bozzolo, un guscio, una corazza.
Dentro di se sente crescere una mobile complessità che nessuna frase può contenere o esprimere. Dietro le parole vi è qualcosa che cerca d'uscire dal silenzio, battendo colpi su un muro di prigione.
Erika luttuosa e dolente rischia di svanire, persa dentro il proprio corpo; presto di lei potrebbe restare null'altro che un riflesso, una voce.
Per affrontare lo spirito predatore dell'animo americano le sue mani non le bastano, deve renderle assassine, la sua sola legge diviene quella del taglione, deve lasciar gridare la sua nove millimetri. Ora Erika può affrontare la vita. Ora è nuovamente una donna "coraggiosa" (come ci indica chiaramente il titolo originale "The brave one").
Con una pistola in mano i suoi occhi da gatto si fanno ferini, nel buio cerca una depravata vendetta, pur essendo ben cosciente dell'immoralità dei propri atti. È una donna spezzata, che davanti al microfono della sua radio riacquista lucidità e trova parole di disgusto e orrore verso l'animale notturno in cui si è mutata.
Un'anima dilaniata che si dibatte e grida rabbiosa contro il suo stesso furore.
L'ambiguità viene sottolineata ed approfondita anche grazie alla garbata amicizia offertale da Sean Mercer (Terrence Howard). Il rapporto fra i due è complesso ed autolesionista per Erika: questi è infatti il detective della omicidi che indaga sulla sua scia di morte, un uomo che crede profondamente nei valori della propria divisa e che inconsapevolmente segue la sua segreta ragnatela.
I detrattori di questa pellicola la tacciano di essere una versione femminile de "Il giustiziere della notte", coglieranno forse forzate similitudini con "L'angelo della vendetta", di certo denunciano la scarsa originalità della trama.
Ma la gamma espressiva di una straordinaria Jodie Foster fa chiaramente impallidire ogni ricordo di Charles Bronson; la regia di Neil Jordan, curata e partecipe in ogni dettaglio ci porta ben lontano dalle atmosfere malsane e maledette di Ferrara. Inoltre, benché sia un peccato che qui il regista dublinese non abbia riadattato la sceneggiatura, è pur vero che per amare questo film bisogna forse dimenticarne la trama, seguirne i suoni, le ombre, gli odori.
Il suo maggior pregio è proprio quello di delineare con garbo l'aggressività di chi ha paura, questo film non vuole raccontare meramente gli eventi, ma l'impatto che hanno su Erika, la frattura che imprimono su una donna in bilico tra ragione e nemesi, braccata dalla vita, che sullo stesso altare del sacrificio giura di placare la propria rabbia.
La regia di Jordan crea una narrazione ipnotica e impietosa, tragica nel suo incedere, crudelmente poetica nel serrare in un unico abbraccio le immagini delle carezze da amanti con la pietà ospedaliera.
Nella parte iniziale la camera non si stacca mai dalla Foster, la rinserra nelle sue inquadrature, amplifica il suo senso di straniamento, accarezza la sua muta oppressione, il suo smarrito aggirarsi in una New York nota e aliena al tempo stesso, lontana dai luoghi che l'hanno resa un cliché cinematografico: cinica e schietta, vera e rabbiosa.
Forse Il buio nell'anima può sembrare citazionistico, o forse addirittura surreale nel suo coup de thréâtre finale.
Di certo, nel bel paese che vive all'ombra del Vaticano, qualcuno ne metterà in dubbio la morale, gridando all'assurdità e alla sconvenienza del comportamento di chi si professava un convinto tutore delle regole. Questo perché noi italiani, beghini pur nella traduzione del titolo del film, possiamo accettare che un poliziotto trasgredisca alle regole per corruzione o cupidigia mafiosa, ma non per crisi di coscienza.
Pur se con un film "atipico", grazie anche ad un cast di ottimi attori, ancora una volta Neil Jordan ci regala un film intenso, lontano da ogni schema. Rifiutando ogni perbenismo, ogni falsa morale ci mostra senza paura le contraddizioni e ambivalenze che albergano in tutti noi.
Non ha paura di farci parteggiare per una donna colpevole, la cui anima straziata è forse persa nel buio, ma non per questo è meno degna di compassione. Per cui pur non essendo dei sostenitori dell'anarchia giustizialista o dei vigilanti che si erigono a legge, Erika ci è vicina, Erika è coraggiosa.
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Recensione a cura di Laura Ciranna - aggiornata al 10/10/2007
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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