Recensione il grande sogno regia di Michele Placido Italia 2009
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Recensione il grande sogno (2009)

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locandina del film IL GRANDE SOGNO

Immagine tratta dal film IL GRANDE SOGNO

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"Per chi l'ha passato, il '68 può essere stata un'età molto esaltante... ma questi momenti nella storia capitano una o due volte nell'arco di un secolo"
Nanni Balestrini

"E no alla scuola dei padroni! E no ai governi, dimissioni!"
Paolo Pietrangeli "Valle Giulia"

"Quando ieri, a Valle Giulia, avete fatto a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti! Perché i poliziotti sono figli di poveri, vengono da periferie, contadine o urbane che siano. A Valle Giulia, ieri, si è già avuto un frammento di lotta di classe: e voi, amici, benché dalla parte della ragione, eravate i ricchi, mentre i poliziotti (che erano costretti dalla parte del torto) erano i poveri.
Bella vittoria, dunque, la vostra! In questi casi, ai poliziotti si danno i fiori, amici.
"
Pier Paolo Pasolini

Quella che è stata, a detta proprio di Balestrini (ma non solo) "La presa di una generazione contro i vecchi schemi obsoleti della società italiana" ma anche "l'ultimo tentativo, fallito, di fare dell'Italia un paese moderno" cerca di rivivere senza inutili agiografie e senza reducismi di sorta in un vortice di palinsesti televisivi e debacle culturali di cui la cinematografia nostrana dovrebbe tener conto.
E' lodevole il bisogno di Placido di non fare demagogia davanti all'esperienza de "Il grande sogno" ma alle parole non corrispondono i fatti, ed è lecito chiedersi per quale strana ragione l'esperienza doppiamente autobiografica del film (dello stesso Placido che ripercorre l'esperienza in famiglia, o del suo alter-ego interpretato da Scamarcio) finisca per assumere una posizione non neutrale e, in definitiva, discutibile (non proprio come "Il sangue dei vinti" di Giampaolo Pansa sulla Resistenza, ma quasi) cercando di prendere atto di una realtà vista, diciamo, dall'altra parte della barricata.

L'omaggio palese al Marco Bellocchio di "Marcia trionfale" (di cui era protagonista lo stesso Placido) è condivisibile nel momento stesso in cui si traccia l'esperienza diretta di un poliziotto pronto a scontrarsi contro un sistema opprimente e oppressore, di cui il giovane Nicola/Scamarcio non sembra del tutto consapevole, salvo verificare sentimentalmente di poter essere contemporaneamente nemico/ infiltrato delle lotte studentesche e (per amore? solo per amore?) tardivo difensore delle ragioni della lotta e dell'occupazione.
"La meglio gioventù" di Placido sembra pertanto giustificare le contestabili parole di Pasolini a riguardo degli scontri in Valle Giulia, di cui il film traccia un impetuoso, ma anche superficiale, percorso.
Perché Dio, Patria e Famiglia finiscono per incanalarsi dentro un referente romanzesco, da fiction televisiva, dove alla fine non tutto il male (che c'era e se c'era) vien per nuocere.

E' disarmante il film e la capacità di banalizzare, senza peraltro evitare schematismi e lungaggini, un periodo storico tanto importante, ma anche tanto complesso per le sue schegge di libertà ("Chi pretende la libertà poi non sa cosa farsene" Pasolini), di anarchia, ma anche per le contraddizioni interne ed esterne che hanno reso impossibile la durata del movimento.
E il '68 di Placido sembra pietosamente crogiolarsi in una serie di eventi più o meno reali, ma incontestabilmente falsi, dove ogni sviluppo successivo sembra nascere per una serie di logistiche casualità, arretrando opportunamente sul piano del ripensamento storico e culturale della storia.
Si potrebbe citarle tutte: presa di coscienza dei figli di una famiglia borghese (in particolare Laura, la studentessa romana), movimento studentesco, poliziotti infiltrati, scontri in puro stile “Fragole e sangue" (il film), scontri familiari e successive riappacificazioni, fino all'inevitabile, ma fin troppo impetuoso e flebile, epilogo davanti all'oscuro spettro degli "anni di piombo".

A Placido piace rievocare la sua esperienza di poliziotto che sogna di intraprendere la carriera di attore, come del resto ha fatto nella vita.
Il problema è un altro: non si tratta 'soltanto' di rilevare come il meccanismo autobiografico provochi paradossalmente il film più impersonale e freddo della sua carriera registica, bensì la staticità formale, la netta incapacità di comunicare un briciolo di umana vitalità, quando avrebbe dovuto essere un termine appropriato anche davanti alle sommosse, o di fronte a prese di posizione in netto contrasto con quel fenomeno sociale culturale e politico.
Il regista preferisce perciò soffermarsi sulle disgrazie familiari, legittime nel suo modo convesso di sfogliare il diario dei propri ricordi, ma assolutamente fuorviante quando si parla del '68 come principale contesto di "denuncia dei vecchi schemi obsoleti della società italiana", che è probabilmente anche e soprattutto la famiglia conservatrice borghese.

Ma il vero schema obsoleto è anche questo tipo di fare cinema, davanti al quale l'inganno per la veridicità della storia viene manipolato facendo rivivere un melodramma, e anche davanti a una risibile venatura quasi comica: la soppressione fisica del padre che "non riconosce più i suoi figli" è frutto di un'ipocrita riabilitazione o il bisogno impellente e letale di disfarsi di un problema da risolvere?.
Non meno ambiguo il personaggio di Laura (una Jasmine Trinka per nulla convincente e adatta al ruolo), mentre conosce la sua iniziazione politica culturale e sessuale privilegiando, non si sa come né quando, il suo forte rigore morale e cattolico.
La famiglia di Placido o di Laura finisce per decontestualizzare i propri limiti: nella prima parte sembra vittima (domanda: lo è?) della propria chiusura mentale, fino a rapportarsi con i figli come se stessero vivendo un "prevedibile rito di passaggio" che finirà presto. Ogni cosa viene pertanto semplificata per favorire negli spettatori più giovani la sensazione che sia stato un passaggio pretestuoso verso una riscoperta della propria consapevolezza, ma niente più.
Non si fa in tempo a cercare di disconoscere l'approccio stilistico di Placido che veniamo nuovamente "illuminati" da un guazzabuglio cinematografico che mette insieme nuovamente Bellocchio (il capolavoro "I pugni in tasca" proiettato in una sala davanti a Laura/Trinka e Libero/Argentero) e i retaggi intellettuali della Nouvelle Vague, di cui fu abile e controverso fautore un recente Bertolucci ("The dreamers").

Pertanto Laura assiste inerme alla vera disgregazione familiare operata da Bellocchio, mentre si presta, con irriverente duplicità, a combattere i diritti negati,e a legarsi all' amour fou con due ragazzi di estrazione sociale e professionale completamente diversi, o lasciarsi plasmare da scampagnate o battesimi di famiglia.
Ma soprattutto c'è Nicola, che partecipa egli stesso alla dissacrazione del proprio ruolo (di poliziotto infiltrato prima e di protettivo amico/amante poi), lasciando parlare i toni aspri e contraddittori del Pasolini di allora quando, indignato, conservava l'opinione che il corpo di polizia andasse in qualche modo salvaguardato, protetto e compreso, perché era questo ruolo la vera testimonianza delle rivoluzioni.
L'amore, prevedibilmente sofferto, che lega Laura a Nicola vorrebbe essere romantico e ribelle, in realtà cela una pessima abitudine della società italiana di ieri e di oggi: l'utopia (questa sì reale per quanto oggi tragicamente concreta) che due mondi sovrapposti possano trovare un aggancio compatibile nelle loro diverse realtà.
Davanti a un amplesso consumato durante una drammatica occupazione scolastica, sfociante in una rappresaglia della polizia degna della scuola Diaz, il fitto insabbiamento che avvolge i fatti di Genova 2001 riemerge in un pietoso bisogno di edulcorare (fino allo stravolgimento totale) le circostanze: la rappresentazione di una realtà del passato legata indirettamente a un'altra più recente sembra preventivare e in definitiva frenare la licenza che, come nel celebre motto dei no- global, "un altro mondo è possibile".

Del resto, lo stesso Pasolini affermava: "La tolleranza è falsa, perché nessun uomo ha dovuto essere tanto conformista come il consumatore".

"Mi ricordo le notti infinite, umide e calde. Tornavo a casa stravolto, con la meravigliosa sensazione che quello che stavo facendo era vero cinema"
Luca Argentero a proposito della lavorazione del film.

Ci vuole poco a "fare" il rivoluzionario. I prescelti per il (pessimo) film di Luchetti, "I piccoli maestri" erano tutti eccitati all'eventualità di vestire i panni di partigiani.
Un attore in crescita, magari belloccio e fotogenico, può anche esaltarsi dopo essere passato dalla lobotomia culturale e spaziale del Grande Fratello alle entusiasmanti derive di un set cinematografico dal tono epico ma dai contenuti incerti, come in questo caso.
Il retaggio culturale di Libero resta, guarda caso, in superficie: il suo è un personaggio così radicato (e amorale, sappiamo che Placido pretende i fiori d'arancio!) nelle sue convinzioni politiche da compiacersi, per l'ovvia gioia dei detrattori di qualsiasi movimento, del proprio cinismo.
E del resto vale lo stesso discorso per gli altri comprimari. Sfruttato malissimo il personaggio dell'insegnante di recitazione (Laura Morante), in un ruolo da quarantenne frustata a caccia di emozioni forti (con la complicità della nuova licenza anticonformista in atto, ovviamente) e occasione sprecata per l'unico attore davvero rilevante del cast: Silvio Orlando. Poteva essere un bellissimo strumento nelle mani del potere (proprio o di altri), l'umanissimo caso di un ufficiale di polizia diviso tra i suoi veti 'anche' professionali e, forse, il desiderio di ribellarsi. Dura pochi minuti ed è uno dei rari momenti di sconcertante verità del film.

In definitiva, non si riesce mai a stabilire un contatto col film, nonostante l'esigua efficacia di un paio di sequenze, e non solo a causa delle "sensazioni" di ognuno di noi riguardanti quella fatidica data, ma per l'assurda incapacità del regista di filtrarla e diffonderla negli spettatori.
A qualcuno piacerà: ci sono tutti i temi che possono accontentare il pubblico di oggi, amore e "guerra" in primis. Ma esistono anche contraddizioni davanti alle quali è lecito, anzi doveroso, ribellarsi: se la famiglia è la causa del conformismo culturale imperante, come può trovare una riabilitazione tanto forzata e indiscussa? Se il corpo di polizia si trova impreparato ma mai inerme davanti alla riscossa di una parte della cittadinanza, come può liberarsi del suo significato amplificato e spesso sconveniente di "difesa"?
Assistiamo, nel film, alle minuziose indagini dei corpi di polizia, alla pianificazione programmata per sedare ogni referenza intellettuale di un certo tipo, in pratica a un indegno e (a nostro modo di vedere) incomprensibile attacco alla libertà di pensiero.
Tutto questo può essere amplificato ancora di più oggi, visto che in questi anni oscuri è ancor più impossibile (ma non inevitabile) combattere contro il Nulla che ha predisposto un generale, passivo silenzio.

"Non solo sanpietrini, gas lacrimogeni e amore libero" sembra suggerirci il film di Placido.
Purtroppo o per fortuna, è davvero così. Se poi riusciamo a liberarci del suo alone romantico, di Nicola che vuole diventare attore, di Laura che non sa chi scegliere, di Libero "prigioniero" delle sue Icone marxiste e per questo reso fortemente negativo,forse penseremo al '68 come una grande opportunità perduta, o perlomeno a un male/bene necessario.
Nel frattempo, abbiamo in tutti i cinema l'opportunità di ridere e piangere (non è velleitaria ma convenzionale la figura paterna come antitetica e perciò affine al movimento), come Placido ci insegna, ricavando però la netta sensazione che anche davanti alle derive comuni e non filosofico/scientifiche delle nostre emozioni "Il grande sogno" non sappia riportarci a nessun immaginario. Come uno sterile apparato di clichè, banale oltre tutte le conseguenze.

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Recensione a cura di kowalsky - aggiornata al 28/09/2009

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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