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All'inizio degli anni '60 Gastone Ferranti, editore di Mondo Libero, chiede a Pier Paolo Pasolini, affermato e già controverso autore, di rileggere in forma di saggio cinematografico gli avvenimenti dell'ultimo decennio, lavorando su materiale di repertorio, cinegiornali, interviste e cronache. Dal vaglio di questo materiale (oltre 90.000 metri di pellicola), per lo più semplici resoconti accompagnati da enfasi propagandistica e generalmente poveri di contenuti, Pasolini riesce ad estrarre una serie di sequenze di sintesi, che riteneva potessero aiutarlo ad illustrare il suo pensiero. Ad accompagnare le immagini sarebbero stati i suoi testi, letti in prosa da Renato Guttuso e in poesia da Giorgio Bassani.
Nasce così, già in fase di montaggio, un'opera fortemente disillusa, inquietante, lungimirante e feroce, tanto che il produttore decide di disinnescarne in parte il contenuto potenzialmente eversivo trasformando il film in un dittico, riducendo lo spazio critico di Pasolini e affidandone la controparte al qualunquismo bonario e innocuo di Giovannino Guareschi. Questo nella speranza di un minor rischio, di un miglior ritorno commerciale ma anche e soprattutto nell'ottica generale del 'visto da destra, visto da sinistra', schema giornalistico ad uso e consumo del compromesso democristiano che, in voga ancor oggi, tanti danni ha fatto a chi produce e fruisce del libero pensiero. Precauzione forse utile ma sicuramente riduttiva, dato che il pensiero di Pasolini aveva già superato questi schematismi e lavorava su un'analisi critica radicale di portata ben più ampia, che come noto risulterà scomoda a destra quanto a sinistra.
In ogni caso l'autore accetta controvoglia la divisione del film e, pur senza mai incontrarsi con Guareschi che definiva un "umorista reazionario", elimina alcune sequenze iniziali e porta a termine la sua parte. Il film esce con il titolo "La Rabbia" ma come prevedibile, incompreso nella sua profetica lucidità, naufraga nelle sale per pochissimi giorni, prima di avviarsi ad un inevitabile oblio.
A 45 anni di distanza, da un'idea di Tatti Sanguineti, il regista Giuseppe Bertolucci e la Cineteca di Bologna decidono oggi di riparare al torto, ricostruendo, con l'aiuto delle indicazioni dell'autore, la parte eliminata e riportando l'opera alla stesura originale. Da questa idea nasce "La Rabbia di Pasolini". E' opportuno anticipare, a scanso di equivoci, che questa operazione, seppur rigorosa e ineccepibile sul piano filologico, poco aggiunge a quanto l'autore era riuscito a condensare nei 53 minuti originari. L'aggiunta di questo cappello introduttivo quindi, che illustra in pochi tratti l'inizio del processo di normalizzazione occidentale, dalle esequie di De Gasperi all'avvento della televisione passando per la guerra di Corea e l'ammissione italiana alle Nazioni Unite, non modifica la valutazione e l'analisi della versione originale.
Analisi che può muovere i suoi primi passi sul piano della forma: è evidente infatti come fosse un rischio attingere al modello più popolare di informazione, quale il cinegiornale, affiancando al suo piano linguistico un registro molto alto intessuto di lirismo e prosa, poesia e riflessioni di amplissimo respiro. Pasolini ci riesce alla perfezione con quella che si definisce soggettiva libera indiretta; è proprio in queste sovrapposizioni di reale e poetico, nello stridere di questo contrasto che avvertiamo la sofferenza della lettura della società, la rabbia e l'indignazione dell'artista contro l'irresponsabilità storica, veicolate dal fluire delle immagini, dalle note di Albinoni e dalla riuscita collisione delle voci di Guttuso e Bassani.
Testimone primo di una trasformazione sociale in atto e anticipatore profetico del conformismo e del degrado morale a venire, Pasolini tenta allora una interpretazione molto vasta di quanto accade intorno a lui, in un'opera che fonde sociologia, etnografia, antropologia, storia, costume, politica e religione. A susseguirsi sono sequenze che affrontano temi diversi: si spazia dal colonialismo e la sanguinosa indipendenza algerina ("finché l'uomo sfrutterà l'uomo non ci sarà normalità […] è nella speranza che la gente non ha colore") all'ipocrisia dei riti del perbenismo istituzionale, laico nell'incoronazione di Elisabetta II e religioso nell'alternarsi dei papi ("L'oscurità della coscienza non richiede dio bensì le sue statue"); dall'esaltazione della modernità meccanicista come consumo ("L'ansia del consumo è un'ansia di obbedienza a un ordine non pronunciato. […] Quando sarà inarrestabile il ciclo della produzione e del consumo, allora la nostra Storia sarà finita") all'appiattimento culturale dell'occidente, felice semplicemente di cibarsi di cultura premasticata e di addormentarsi nella propria normalità ("milioni di candidati alla morte dell'anima").
Ognuno di questi brevi quadri meriterebbe un'analisi separata ed è in realtà l'embrione di riflessioni che si svilupperanno ampliandosi poi nelle opere successive, attraverso approfondimenti e riletture che, spogliate anche dell'enfasi poetica e da una residua parzialità, ne mettono a nudo ancora oggi l'incredibile attualità e l'acuta amarezza.
A dir poco toccante l'omaggio finale a Marilyn e alla bellezza antica che rappresenta, vittima sacrificale dell'ideologia e della superficialità ("Sparì come una bianca ombra d'oro / La tua bellezza sopravvissuta del mondo antico, / richiesta dal mondo futuro, posseduta / dal mondo presente, divenne così un male"). Siamo qui al punto più alto della riflessione, le immagini di Marilyn si alternano a quelle di esplosioni nucleari in una fusione di bellezza e morte che ricorda il Resnais di Hiroshima mon amour.
In conclusione, è evidente da quanto detto finora come la sottotraccia unificante di questo difficile percorso di immagini sia lo scontro tra la diversità (di costume e di pensiero) come potenziale ricchezza e il tentativo continuo di renderla una minaccia, combattendola con le armi della guerra e dell'omologazione. Forse anche perché in prima persona vittima di questa battaglia (a dir la verità in buona compagnia, si pensi in quegli anni a Braibanti e ai balletti verdi) Pasolini non affonda del tutto il coltello ma cede il passo alla sua sensibilità e decide di far approdare questo contrasto in un finale consolatorio e consapevolmente ingenuo in cui si celebrano le parole del cosmonauta russo Titov "Da lassù tutti mi erano fratelli".
Sicuramente non esente da difetti, da sporadiche e oneste derive verbose o velleitarie (specie se rivisto oggi) il film si muove però sempre miracolosamente in bilico tra anacronismo e modernità delle intuizioni, regalando vertigini e sprazzi di genio.
Ancor più del film in sé paradossalmente è però indicativa dei tempi, dell'accoglienza riservata ad esso e più in generale al suo autore, l'appendice intitolata "L'aria del tempo" in cui sono raccolte una serie di valutazioni dell'opera di Pasolini da parte di critici e personaggi pubblici, tra lo scherno e il linciaggio, la cui pochezza strappa oggi, consci degli avvenimenti successivi e del prezzo pagato, una lacrima di rabbia impotente. Ed è in questa chiave allora che l'opera di riscoperta trova oggi più che mai la sua necessità e la sua rinnovata urgenza, prima ancora che la sua compiutezza. Per rendere giustizia ma soprattutto per non dimenticare quello che è stato senza dubbio, inascoltata coscienza critica, uno dei più lucidi e disincantati intellettuali del nostro tempo.
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Recensione a cura di Lot - aggiornata al 15/09/2008
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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