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Il cinema turco si propone ormai da anni come realtà di prim'ordine, capace di discorsi originali, non condizionati dai modi del cinema occidentale. Con la sua genuinità, inoltre, ci consente di avvicinarci facilmente alla conoscenza di una cultura ed una sensibilità a noi ancora ignote, ma ormai talmente vicine da non potere ignorarle.
Con l'ingresso nella CEE, l'antico popolo di Istanbul, verrà a diretto contatto con noi; e dunque, anche grazie al suo nuovo cinema, prepariamoci ad affrontarlo e a riconoscerlo.
La storia raccontata nel film, drammatica e struggente, offre due chiavi di lettura: una, legata al personaggio irrequieto di una giovane donna che, per uscire da una famiglia arretratissima di emigranti turchi residenti in Germania, sposa il primo venuto.
Questi, conosciuto all'interno di un nosocomio, è un perdigiorno alcolizzato all'ultimo stadio, un uomo ormai perso e senza speranza. La giovane sposa se ne serve come strumento di comodo, per affrancarsi dalla famiglia e godersi una sfrenata libertà sessuale, fino al punto, invece, di innamorarsene.
Ma, come in ogni tragedia vera, non c'è mai limite al peggio e al dolore; e il povero marito finisce in prigione per lunghissimi anni. Lei, invece, tornerà in Turchia, infangandosi sempre più nella droga e nel malessere, fino a rinascere con un nuovo matrimonio e con la maternità.
Uscito di galera, il primo marito la ritroverà, ma solo per un fugace rincontro romantico. Lei non rinuncerà più alla stabilità raggiunta, mentre lui tornerà al paese delle sue origini in cerca di una nuova vita.
Il racconto è strutturato secondo i modi di un certo teatro antico, con episodi successivi, inframmezzati da pause iconografiche particolarissime: musici seduti in semicerchio, con una voce femminile solista che commenta canoramente gli sviluppi della vicenda (come nei canti dei trovatori o nei cori della tragedia greca).
La cosa dà grande forza drammatica al racconto, che, così spezzettato, assume inequivoche valenze simboliche; come peraltro la fotografia, struggente e incisiva, di tono fortemente espressionistico.
L'insieme crea una notevole tensione emotiva nello spettatore, coinvolto nelle cruente vicende da un fortissimo pathos (e questo sia per la recitazione che per la fotografia).
Ma al di là della vicenda dei soggetti, "La sposa turca" propone in modo davvero convincente tematiche simboliche di respiro eterno ed assoluto, proprio come nella grande tradizione tragica.
La "sposa" esce dalla famiglia con la vera "forza del tradimento", come il figliol prodigo dei vangeli. Nel farlo, maledetta dalla famiglia di origine, diventa però salvatrice del marito perduto, testimoniando con questo il potere catartico e salvifico della donna: madre e nutrice.
Lasciata a se stessa, poi, si perde, nelle droga e nella violenza, fino a rinascere sulle sue ceneri come l'Araba Fenice, risorgendo definitivamente con la maternità.
Realizzatasi secondo natura, la sposa turca si acquieta, finalmente, avendo portato a termine il suo destino esistenziale di madre, e di tutte le donne: pragmatiche, spietate e calcolatrici.
Del primo marito le resterà solo un certo ricordo nostalgico, permeato dal senso di colpa di averlo abbandonato. E per questo cercherà una forma di espiazione, donandosi ancora a lui per un'ultima volta.
Il film ha vinto l'Orso d'oro al festival di Berlino, per il cinema tedesco. Giustamente, se vogliamo, dal momento che il regista, immigrato, sente di aderire allo stesso modo alla cultura tedesca, come a quella delle origini turche.
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Recensione a cura di GiorgioVillosio - aggiornata al 16/09/2005
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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