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Film del 1991 ed ottimo esordio alla regia di Sergio Rubini, dopo alcune prove da attore in ruoli minori, (eccezion fatta per il ruolo da protagonista ne "L'intervista" di Federico Fellini) il film "La stazione", pur essendo una pellicola senza pretese, girata in economia, si offre invece come una prima valvola di sfogo al, già da allora, problematico scenario del cinema italiano.
Strana commistione di generi e di diverse ispirazioni: a partire dall'autobiografia (il padre di Rubini è stato un capostazione), al richiamo verso le proprie radici (il film è stato quasi interamente girato a Grumo, il paese d'origine del regista nella locale dismessa stazione), all'atmosfera "giallo-thriller" stile "Cane di paglia" di Peckinpah.
Il timido e stralunato protagonista, fisico a metà tra il buffo e taciturno Keaton e il moderno Troisi, vive in suo "piccolo mondo antico" in una stazione ferma agli anni Cinquanta, così come il film in bianco nero trasmesso dal vecchio televisore: "In nome della legge" di Germi.
Infatti la legge, le regole sono fondamentali per lui, sempre chiuso nell'ufficio del capostazione, dedito a cronometrare ogni cosa e a studiare da un improbabile ed inutile corso a dispense di tedesco. Questo quadretto quasi idilliaco di "ritorno al passato" è interrotto dalla contrapposizione con il mondo esterno ricco e viziato rappresentato dalla giovane donna che irrompe all'improvviso nella quiete di chi rifiuta il mondo di fuori, strana vita che vede passare così come passano, "transitano" i treni che si allontanano e si dirigono verso mete remote.
Lo stampo prettamente teatrale della storia si fossilizza nel dialogo che si sviluppa tra i due protagonisti: da un lato la giovane donna, moderna ed indipendente ma a sua volta "chiusa" e trincerata dietro il suo mondo, dall'altro il capostazione che rifiuta l'idea di vivere a Roma "perché senza una piazza dove passeggiare e il bar con gli amici tutto è noia".
La storia potrebbe concludersi così ma all'improvviso vi è un cambiamento di ritmo che sfocia quindi nel giallo con l'intervento del terzo protagonista. La poesia cade per dare spazio a una inaudita violenza alla quale il capostazione contrappone una difesa quanto meno candida e a tratti persino comica trasformandosi in un novello Dustin Hoffman: il cittadino comune del già citato film di Sam Peckinpah costretto a fronteggiare una situazione drammatica ed inaspettata.
Questo "cambiamento di rotta" se da una parte può risvegliare lo spettatore annoiato, suscita un senso di smarrimento poiché modifica totalmente l'idea che ci si era fatti sull'andamento della vicenda. Si tratta però solo di un momento, utile per mostrare la capacità di "trasformismo". La notte è passata, l'avventura anche. Il capostazione torna al suo piccolo mondo e la ragazza al suo.
Con l'albeggiare la "quiete dopo la tempesta": i due mondi si sono quasi sfiorati, raccontati, ma poi ognuno è tornato, è rimasto nel suo, continuando a vivere come sempre. La lezione di vita è chiara, sta allo spettatore trarre le dovute conclusioni.
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Recensione a cura di peucezia - aggiornata al 18/04/2006
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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