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"Dove, si pensa spesso, dov'è adesso lo spettro della guerra, l'immagine dell'assassinio e il volto dei morti, il volto degli altri che a quest'ora vagano come animali braccati, un fagotto sotto il braccio, la disperazione nel cuore, e dove sono le citta' fumanti? non vedo niente..."
Max Frisch "Fogli dal tascapane"
Giugno, 1982: prima guerra in Libano.
Un carro armato avanza verso un villaggio, destinazione sconosciuta. Un "frammento di guerra", liberato dalle immagini del "Redacted" di De Palma, una scheggia impazzita che percorre le ultime immagini - non animate - di "Valzer con Bashir".
Quattro soldati affrontano il conflitto desiderando tutti un precoce ritorno a casa: ma sarà sufficiente riconoscersi nei limiti umani di quattro uomini in guerra per dare al film vincitore dell'ultima edizione della Mostra del Cinema di Venezia una sua attendibilità antimilitarista? Probabilmente no.
Finanziato dalla Israel Film Fund, "Lebanon" non risolve l'annoso conflitto (!?), nonostante non risparmi attacchi al sistema militare israeliano (come le accuse tutt'altro che velate all'uso indiscriminato di armi illegali): film fortemente voluto dal regista, anche in chiave autobiografica (Maoz è stato, ventenne, artigliere in Libano) a tratti è troppo ego(t)istico e personale per assumere un ruolo rilevante, un crocevia di esperienza diretta sulla brutalità delle guerre nel mondo. L'impressione è quella di trovarsi davanti a un'ostilità ambigua, predisposta a vivere fino in fondo l'inevitabile confronto dell'uomo antico e moderno con l'orrore sopravvissuto alla civiltà contemporanea.
Un film che esercita negli spettatori una forte pressione simbiotica, un feedback empatico di notevole efficacia, tanto che è davvero arduo persuadersi che gli attori del cast non siano, nella realtà, dei veri soldati professionisti. Secondo la classica retorica militare, non potrebbero esserlo neanche coloro che rivestono questi panni, tanto meno davanti alle responsabilità comuni: chi decide e come si decide l'azione giusta o sbagliata durante una guerra?
Come ampiamente descritto dai critici, la particolarità di "Lebanon" (e il motivo principale del suo interesse) sta tutta nel "conflitto" interiore dell'inesperienza, nel suo mettere a confronto quattro tipologie diverse di individui, ma tutte antitetiche ai loro ruoli: un artigliere (Schmuel) che non ha mai colpito, un'altro (Herzl) che non ha mai caricato una bomba, un pilota (Yigal) che non ha mai guidato una corazzata e ne ignora la destinazione, e infine un comandante (Assi) che non ha mai rivestito quel ruolo prima di allora.
Davanti alla prigione bellica di Lebanon, quattro uomini affrontano l'Inferno senza la minima preparazione, in lotta perenne con la loro (scarsa) abilità e l'istinto di sopravvivenza.
Ma se "Lebanon" è un film afasico, che si apre e si chiude nel segno di una libertà eterea e sfuggente, davanti all'immagine naturale di un campo sterminato di girasoli, la metafora di una terra promessa senza luogo nè tempo - vago miraggio di normalità oltre le macerie e la morte - sembra accludere soprattutto una sorta di rimozione emotiva: perché l'immaginario cinematografico, ancora una volta, sfrutta l'iconografia surrealista per tracciare i confini di un Eden perduto, smarrito com'è nei territori del sogno, atto purtroppo a privilegiare l'Incubo come univoca essenza della realtà quotidiana.
"I was born to dying..."
Compresso nell' "altra" dimensione di un conflitto, come i sommergibili dei film di propaganda bellica di settant'anni fa, "Lebanon" è un insolito set cinematografico: girato tutto in soggettiva, quasi interamente all'interno di un carro armato chiuso metaforicamente nella pelle di un mammifero (il Rinoceronte) mentre attende gli ordini esterni di una presunta base militare dalla curiosa denominazione disneyana ("Cenerentola", ndr).
La guerra di Maoz diventa un maelstrom horror filtrato dalla capacità del regista di proiettare all'interno del "Rinoceronte" (una war machine ricostruita minuziosamente in studio) l'estenuante arco temporale che attraversa i quattro uomini e il loro limitato raggio d'azione. Ed è come se tutto quello che accade esternamente fosse la riproduzione tragica e paradossale di un "altro" film, come una devastazione nucleare in 3D: la memoria torna a un vecchio film di Becker, "Il buco", pamphlet carcerario sulla tentata evasione da un luogo di detenzione: al contrario di quell'antico film francese, però, esistono infinità di prigionìe e nulla è più devastante della scoperta di un mondo esterno più totalizzante e coercitivo di un vero penitenziario.
Assistiamo, nel film, a una prima deflagrazione, dove il fallimentare cameratismo forzato degli uomini si plasma nella paura VERA: domina l'istinto di ogni soldato e uomo davanti al rischio di dover sacrificare la propria esistenza, traspare l'orrore disarmante negli occhi di un prigioniero, o emerge l'incapacità stessa di affrontare neutralmente un ostaggio e nemico, il disprezzo che ognuno di questi quattro uomini provano l'uno per l'altro, accusandosi reciprocamente di inadeguatezza, di inesperienza, di codardia.
Nello spazio esiguo di una corazzata il regista filtra perfettamente questi stati d'animo, soffermandosi particolarmente su Yigal, mentre fagocita ogni percettibile sintomo di angoscia, atto a proteggere la propria vita e quella degli altri.
Ma la paura di questi uomini neutralizza (o ridimensiona) le forti potenzialità nichiliste e sociali del film.
"War has shattered many young men's dream, made them disabled bitter and mean. life is too precious to be fighting wars each day. war can't give life it can only take it away."
In "Lebanon" assistiamo a una prospettiva su una guerra di uomini che non vogliono combattere contro un nemico che non possono condannare. "Rinoceronte", nome in codice della potenza bellica, è anche il mezzo che dà agli uomini il potere di uccidere, di avanzare nel conflitto portando i segni devastanti della sua follia.
Dai tempi delle più antiche testimonianze cinematografiche (cfr. la sommossa di Odessa sedata nel sangue nella "Corazzata Potenkim" di Einsenstein) alle recenti dell'Immaginario reale (su tutte, il massacro degli studenti di piazza Tien-a-men) il mezzo espressivo mostra i segni di una no man's land che percorre le vie di una (stra)ordinaria brutalità comune.
E' comunque pretestuosa e ambigua la pretesa del regista di rendere assoluto protagonista di questa realtà il mezzo corazzato: se - come scritto a grandi lettere all'esterno del mezzo "L'uomo è d'acciaio, il carro armato solo ferraglia" l'autentica debolezza di certi uomini non dovrebbe destabilizzare il confronto con una reale abnegazione, anche se solo vagamente idealista, e confronto con le dirette responsabilità.
"Lebanon" è un film tecnicamente superbo, con la mdp che sembra avere le stesse velleità (e funzioni) del pilota Yigal che avanza in territorio nemico: eppure Maoz non riesce sempre a rimuovere le sue contraddizioni, implicando una sofferta "visione esterna" al conflitto: i rantoli e i respiri soffocati dei soldati accuratamente filmati nel loro spazio lobotomico contrastano con l'immagine forse più bella del film: una donna in preda alla disperazione si libera delle proprie vesti, esibendo un corpo nudo che non reclama tanto il leso pudore convenzionalmente inteso, ma la cruda aspirazione alla vergogna (ben più devastante) di dover reclamare pietà per se stessa.
E il "nemico" che si insidia nel dramma quotidiano dei protagonisti, mentre assiste alle loro paure, e per questo fortemente consapevole delle proprie, è davvero l'unico, in quanto ostaggio, a percepire la realtà: quasi una preveggenza dell'irrazionalità che potrebbe innescarsi davanti all'autoritarismo precorrente.
Qualcosa ci ricorda l'ottuso e reazionario generale di "Uomini contro" di Rosi, mentre traveste i soldati con assurde corazze in virtù di una storia che è rimasta, fondamentalmente, la stessa attraverso i secoli. Ma qui il potere è invisibile, astratto, fuorviante, soggettivo. L'Occhio Indiscreto del regista è destinato a rimanere nella storia della sperimentazione tecnica cinematografica di questi anni, ma non aggiunge molto come atto d'accusa alla guerra imperialista: se non altro ci basta l'ennesimo attacco a un conflitto (troppo?) specifico e le sue (generiche) motivazioni politiche.
Lo spettatore sa di essere tuttavia protagonista di un apparato "fetale", e attende invano di essere liberato: un'immagine (bella, poetica) non fa altro che riprodurre un virtuale punto interrogativo.
E nonostante il fatale processo di queste macchine da guerra e i corpi inermi straziati nella polvere, nonostante il miraggio del tempo che reclama l'estinzione altrui in cambio di una sola vita, o del dubbio amletico di un uomo che provoca accidentalmente la morte di un compagno, "Lebanon" sembra soprattutto e soltanto l'efficace testimonianza di un cinema contemporaneo che torna allo stilismo ossessivo di un tempo: per esorcizzare, attraverso i frammenti di una prospettiva angolare, i macabri rituali della nostra civiltà.
C'era un vecchio film di Fassbinder sottotitolato "La paura mangia l'anima": un'affermazione che sintetizza l'involuta via d'uscita di un (comunque ottimo) film.
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Recensione a cura di kowalsky - aggiornata al 27/10/2009
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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