Voto Visitatori: | 9,03 / 10 (43 voti) | Grafico | |
Voto Recensore: | 9,00 / 10 | ||
"Egli danza".
Così diceva di lui un Welles assiso sulla sua seggiola ne "La ricotta" di Pasolini.
Egli danza - ci piace molto questa espressione.
E ci piace soprattutto perché a pronunciarla è un altro re del mestiere, dentro al set di un principe, durante un'intervista che rimane confinata, pur sempre, nel regno dello spettacolo.
Vedete, egli non desidera che danzare!
Non altro: nulla è la società, nulla è l'arte, nulla è l'amore, nulla è la vita fuori dall'immaginazione.
Ma è indubbiamente un nulla affollato, quello di Fellini, e davvero molto ricco. Ricco di scenografie e di luoghi vissuti, ricco di caricature e di volti scavati profondamente nel reale. Un mercato da vedere senza dovere necessariamente acquistare: mescola il luccichio delle cianfrusaglie alla confusione e alle gesticolazioni dei mercanti, al vocio e ai modi popolareschi dei passanti.
Un mercato, per non dire più semplicemente un circo.
A chi non è pratico del cinema di Fellini, "Le notti di Cabiria" apparirà probabilmente come un racconto delizioso, un torrente carico di emozioni e d'immagini molto belle. Ma colui che ha confidenza con la varietà dei panorami distesi oltre i suoi argini, scopre in quest'opera qualcosa di più: una sorta di album, una serie di pagine intense in cui bene si riassumono tutti i motivi cari al regista.
Sembrano ad ogni modo affacciarsi, talvolta, in un film di Fellini, brani e soggettive di altre sue pellicole; in cui l'uno e l'altro momento vengono a specchiarsi mutuamente, e dove il breve porta, con sé, nel suo sguardo più sintetico, tutto il patrimonio d'esperienze e di personaggi a cui altrove si doveva (o si dovrà) assistere pienamente.
A tal proposito, quel che costituiva l'assunto centrale in "Lo sceicco bianco", qui lo vediamo concentrato magnificamente in un solo episodio; e resta più sospeso, meno cinico, triste nello sguardo di una cenerentola che osserva i due divi, bellissimi e quasi irreali, amoreggiare in una camera da sogno come dentro a un teleromanzo.
Oppure la processione che ne "La strada" la buffa Gelsomina osservava ammaliata sfilare; è ora vissuta totalmente, dall'accensione delle candele all'altare; sin troppo grottesca e greve, forse, nello storpio che sviene davanti alla scritta luminosa in onore della Madonna, ma che uno stacco riscatta prontamente, catapultandolo sdraiato sull'erba, lieto a mangiare e bere tra musica e balli.
La stessa Cabiria, del resto, la incontrammo in una breve sequenza de "Lo sceicco bianco". Mentre quei locali d'alta società, dei quali qui ne visitiamo uno soltanto, in "La dolce vita" ne stabiliranno gran parte dell'ambientazione.
E torna in mente infine quella statua dell'angelo che ne "I vitelloni" si stagliava mistica nell'alba marittima, e quella del Cristo che nell'incipit di "La dolce vita" un elicottero - snello rapace meccanico - trasporterà simbolicamente via.
Ma c'è già in "Le notti di Cabiria" una sfiducia dolorosamente radicata, ormai più che matura nei confronti dell'uomo e della religione cristiana; e che sin dalla prima sequenza c'è duramente dichiarata: la protagonista è derubata e spinta dal presunto amante (del quale altro non sapremo) dentro l'acque di un fiume.
Ha perso l'amore, il momento romantico, la fede e l'illusione.
Tuttavia, le rimane una casa, un'amica, il suo mestiere da battona, l'angolo notturno della "passeggiata archeologica".
E' questo uno dei primi ambienti presentati e descritti, luogo di ritrovo in cui Cabiria trascorre le sue notti reali; ma in verità, tutto il film è un susseguirsi di diversi ambienti, sempre animati dai propri abitanti e attraversati, quasi, come i quadri di una favola. Favola che ha però sostanze reali, tangibili, talvolta addirittura ruvide o gelate.
Sono pietre dalle screziature molto differenti gli episodi che vediamo scorrere, dei quali il volto di Cabiria ne rappresenta senza dubbio la comune scintilla, ma a correlarli diremmo che sia, maggiormente, proprio quel filo di sconforto che percorre l'intera lunghezza della pellicola; e che ne trafigge e ne sorregge ogni brano.
E' evidente, come già sopra si era accennato, il disincanto che reca la prima scena alle rive del fiume. Ma tale sentimento - che non dimentichiamolo, è ben presente in tutta l'opera del regista riminese - torna a essere esaminato nei vari quadri che compongono la pellicola, e in tante delle sue molteplici sfumature.
Nell'episodio di Nazzari, per esempio, la delusione è vissuta come il risveglio da un bel sogno. Cabiria comincia con il vivere la vicenda in prima persona. Come una dama, viene invitata a salire sull'automobile di lusso, introdotta nel locale prestigioso, fatta entrare nella villa principesca. Ma non appena fa il suo rientro in scena la vera star, rivendicando il proprio ruolo di protagonista, e ammantata da una sontuosa e vera pelliccia, la soggettiva cambia, Cabiria osserva ora il sogno in terza persona, da una stanza adiacente e consolata dalla compagnia di un cagnetto, si addormenta come una vagabonda su quel pavimento adesso simile al suolo di una strada.
Tanto più che il risveglio e l'espulsione da quel sogno saranno piuttosto difficoltosi, e tanto bruschi quanto la zuccata che la "risvegliata" darà alla porta di vetro, nell'atto di cercare la via del ritorno al bel labirinto frequentato per una notte appena.
Al contrario, troviamo già un'estesa asprezza nel paesaggio disadorno dell'episodio successivo dei senzatetto. Qui incontriamo quella profonda inettitudine, quel senso di disagio e d'impotenza che provano sempre i protagonisti felliniani nel momento in cui vengono accostati ad una grande sciagura.
Se pensiamo a "La dolce vita", ricordiamo nel brano della strage uno dei momenti più drammatici della filmografia del regista: là il nulla, l'arte e l'ingenuità del suo cinema sembreranno quasi imbarazzarsi e inibirsi al cospetto di tale incomprensibile tragedia.
Similmente la Nostra sente soggezione nel scoprire la vita di quei miserabili privati anche di una casa, avanza uno sguardo alla luce, immerge il suo timido sorriso da clown come quando, nei panni di Gelsomina, andava a far visita a un bambino malato, in una splendida sequenza contenuta ne "La strada".
La stessa figura dell'uomo caritatevole, che sfocata ancora da una coltre di sogno governa la scena, suscita in lei un certo turbamento, l'irretisce e intanto la fa sentire ancora più inutile e insufficiente. Infine si ritrae, e si lascia alle spalle quello scenario in cui non trova definita la propria parte.
Ma è giusto precisare che in nessuno degli ambienti della Roma felliniana, eterogenea e pur sempre decadente, Cabiria riesce a sentirsi a proprio agio. Il suo abituccio di pelliccia è certo inadeguato al lusso di quei luoghi altolocati che attraversa accompagnata dal divo, così come le sue maniere da marionetta poco s'addicono alla vita di strada.
Oggi sappiamo come il cinema di Fellini col tempo sia andato tingendosi sempre più di certi riferimenti autobiografici, e che in Marcello Mastroianni egli troverà, nello specchio dello schermo cinematografico, il proprio alter-ego. Ma se l'attore saprà incorporare perfettamente l'uomo Fellini, allo stesso modo potremmo affermare che Giulietta Masina - attaccata ad una trombetta o ad un ombrellino non importa - si rivelò come l'interprete migliore del suo intimo poetico, e della parte più infantile e femminile dell'artista.
Ella porta, con la sua mimica e la grande espressività del suo sguardo, con la burlesca andatura e l'ingenuità di una bambina, tutto quel mondo clownesco a cui sappiamo quanto il regista sia stato sempre affezionato.
E' Masina un ricordo, un sogno e una nostalgia.
Tale parte in "La strada" era immediatamente riconoscibile. Ma troviamo in Cabiria ancora più interessante il personaggio, in esso convivono, quasi incompatibilmente, la sognatrice e la donna incattivita dalle vicende di vita, la signorina dai modi impacciati e la pragmatica puttana. A questo scopo, due sopracciglia corrucciate vengono disegnate sul volto dell'attrice.
Sì la folla che attornia Cabiria raramente le somiglia. Né quei volti caricaturali, di corpi arrestati, quasi di cera, scorsi in una breve carrellata dentro al locale, né l'amica corpulenta o le colleghe battone, s'avvicinano al modello della sua persona.
Rimane estranea alla città, ovunque alla sua gente. E posa sguardi sorpresi su tutto, con fare da danzatrice, occhi che dal sogno non s'integrano con la realtà che li circonda: come quando osserva l'autista del divo, dall'uniforme che vagamente ricorda quella di un annunciatore circense; in egli trova forse qualcosa di famigliare, dei particolari che ha riconosciuto compatibili con il proprio mondo, ma neppure quell'uomo dentro alla curiosa divisa davvero le somiglia: lei protesta, gli fa una smorfia e si volta via.
Parlavamo più sopra di quel disincanto che attraversa ogni periodo della pellicola. Non meno amara, non meno profonda è la sfiducia espressa nei confronti della chiesa.
Insanabile sino a prima della partenza, nella processione a cui partecipa tanto per provarci - la grazia non risponde, il giorno dopo nulla è cambiato dello squallore in cui vive - tuttavia viene sentita rimediabile in quell'augurio più discreto, che le offre un frate incontrato per via; non più nel mezzo della folla, ma durante una lieve confidenza.
E' solamente un nuovo abbandono al sogno. Si rivelerà ingannevole anche quello. Al convento, come aveva avvertito, il frate non si farà trovare.
Ad ogni modo sappiamo come, in verità, sia soprattutto il teatro (e come un tale ambiente poteva mancare in un album che ne intendeva riassumere l'intera opera?) l'autentico luogo sacro per Fellini: il palcoscenico toccato dalla sola luce del proiettore.
Ecco, dopo tanto scetticismo e timore nel salirlo, Cabiria vi scopre forse l'unico contesto in cui pare sentirsi a suo agio; e in quegli istanti d'ipnosi i soli momenti lieti; e in quell'anziano illusionista il primo essere umano col quale trova una vera intesa.
Disillusione e illusione s'incontrano così, tra una platea di rozzi uomini e il palco del signore dal viso rassicurante.
Anche in "8 e ½" troveremo una sequenza analoga, anche in quella occasione la magia sembrerà riuscire perfettamente.
"Asa nisi masa": una sorta di formula verrà scritta sulla lavagna.
Omar, il nome di un misterioso amante evocato e sognato durante l'esperimento d'ipnotismo, si materializza fuori dal teatro nel volto di un uomo mite, che parla un gergo strano, sin troppo romantico per suonare credibile anche all'ascolto della stessa sognatrice.
Ma non rimane che lasciarsi trasportare. Il viaggio - quel lampeggiare di finestrini del treno che investiva sopra i loro letti i vitelloni dormienti - è un'aspirazione a cui i protagonisti felliniani non sanno mai sottrarsi. E' qui il tram che la accompagna a ogni incontro, è qui quella promessa incondizionata di matrimonio.
Ora, il dramma verso cui andiamo avviandoci è principalmente quello amoroso; ma non trascuriamolo: furono le parole del frate ad auspicare a Cabiria un imminente sposalizio, e fu l'anziano illusionista a far apparire dal nulla il futuro sposo.
Spiritualità e arte, partecipano in eguale misura al dramma. La bufera, che ne "I vitelloni" spargeva e allontanava all'aspirante scrittore i fogli del suo manoscritto, e trasformava in mostruoso il volto del maestro capocomico, passa anche per "Le notti di Cabiria". E la statua del Cristo è già scomparsa dietro ai palazzi!
D'altronde, quando i due si trovano seduti al tavolino e lei gli mostra la dote ricavata vendendo la sua casa, e quando Omar la invita a una passeggiata nel bosco che nelle favole è sempre il luogo minaccioso, ci siamo già tutti prefigurati come il sogno pressappoco andrà a finire.
Ma una volta arrivati innanzi alla distesa d'acqua, che riprende e amplifica il paesaggio della scena iniziale, a quella scogliera enormemente più elevata, troviamo - e poiché è la stessa ingenua Cabiria ad anticiparlo a egli e allo spettatore - maggiormente drammatico l'epilogo.
Nulla è cambiato, e l'intera pellicola si chiude in questo modo in una tragica ellisse senza uscita. L'uomo di fronte che gronda sudore e impallidisce, è talmente meschino da non sapere recitare il proprio ruolo di spietato fino in fondo, tanto vigliacco da non trovare il coraggio di completare lo spregevole piano.
Raccoglie la borsa contenete i soldi e, come uno sciacallo che ha azzannato un brandello di carne, fugge abbandonando la donna ingannata dentro la sua realtà da incubo.
Tuttavia, un certo cocciuto ottimismo, che è poi parte vitale dello spettacolo, non viene a crollare: ossia la donnina si rialza, percorre a ritroso il bosco, e riprende a transitare la strada di sempre.
In ultimo vediamo il suo volto attraversato dalle lacrime, disfarsi il cerone che dai tempi de "La strada" non crediamo le abbia mai davvero abbandonato le gote; e assieme un sorriso che, così obbediente e modesto, molto ci ricorda quello che nel celebre finale di "Luci della città" Charlot imponeva a se stesso e alla compagna.
Intorno il circo dei volti si rianima: "Ella danza"! Alcune voci fuori campo sembrano commentare.
E riparte una giostra, un girotondo, il caos, il mercato, la musica... nulla...
Amore, fede, immaginazione... nulla...
La dolce vita, la vita amara, il silenzio che si ripopola di rumori confusi... nulla...
5, 6, 7, 8 e ½ ... nulla... nulla...
Il proiettore si spegne, il sipario cala...
"Asa nisi masa".
Commenta la recensione di LE NOTTI DI CABIRIA sul forum
Condividi recensione su Facebook
Recensione a cura di Ciumi - aggiornata al 16/04/2010
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
Ordine elenco: Data Media voti Commenti Alfabetico
in sala
archivio