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"Sono padrone del mondo, un mondo vuoto e silenzioso"
Richard Matheson, scrittore e sceneggiatore di fama, pubblicò nel 1954 il suo romanzo più celebre "I am legend" (Io sono leggenda), divenuto col tempo uno dei classici della letteratura fantastica del Novecento.
I rapporti dello scrittore con il cinema furono sporadici ma intensi, non soltanto per le (tutto sommato rare) riduzioni cinematografiche dei suoi romanzi, ma anche per alcune preziose collaborazioni con grandi cineasti come Roger Corman (la trasposizione cinematografica di "Il crollo di casa Usher" di Poe, cfr. "I vivi e i morti") o l'Hitchcock di "Gli uccelli".
Dai suoi romanzi sono stati tratti comunque altri film di successo, come "Radiazioni b-x - distruzione uomo" - 1957 - di Jack Arnold, e il piu' recente "Al di là dei sogni" - 1998 - di Vincent Ward.
Lo stesso script di "I am legend" ispiro' un altro film di culto, "1975: occhi bianchi sul pianeta terra" di Boris Sagal.
A proposito di "I am legend" si disse che l'ispirazione dell'autore venisse esclusivamente dalla visione del "Dracula" di Tod Browning, film che lo aveva favorevolmente impressionato.
Il romanzo parla di un uomo, Robert Neville, che sopravvive miracolosamente a un'epidemia planetaria e deve combattere una dura battaglia per sopravvivere all'attacco dei morti viventi che, tramutatasi in vampiri, vogliono ucciderlo.
Il libro è un vero classico, ma non è una classica storia di zombi e vampiri, bensì una brutale riflessione sulla condizione dell'uomo e la sua inetta solitudine fisica e morale.
Nel 1964, con un budget limitatissimo e una co-produzione italo-americana (nella versione americana del film la regia è accreditata all'infaticabile Sidney Salkow, autore di almeno una sessantina tra film e telefilm a cominciare dal 1936, fra cui episodi della serie "Mike Hammer" e "Addams Family"), un regista catanese di media qualità (la sua filmografia essenziale non conta nulla di rilevante, oltre a questo film) si appresta a girare una versione cinematografica del celebre romanzo, dal titolo "L'ultimo uomo della terra", con un cast che comprende Franca Bettoja (l'ultima moglie di Ugo Tognazzi), Emma Danieli (celebre attrice televisiva, nota soprattutto come "signorina buonasera" della Rai di allora) e, dulcis in fundo, come protagonista assoluto un grande e affermato attore americano come Vincent Price, già "leggenda" del cinema horror più classico ("La maschera di cera", "L'esperimento del dottor K2", "I racconti del terrore").
"L'ultimo uomo della terra" è uno dei tanti "miracoli italiani" che per anni sono stati misteriosamente sepolti nella memoria, anche a causa della cecità di una certa critica che non riusciva a vederne il potenziale creativo, e che oggi - giustamente - vengono ritenuti "oggetti di culto".
Trattare un'opera di questo livello al pur interessante corso dei b-movies è un errore grossolano: si tratta, indubbiamente, di uno dei migliori film horror degli anni Sessanta, e per molte indubbie ragioni.
Ragona, con la collaborazione di Salkow, adatta il romanzo di Matheson in una Roma (gli esterni, silenziosi e spettrali, sono stati girati all'Eur) forse molto poco "italiana", modificando qualche traccia del romanzo a favore dell'attualità del film.
Il protagonista non è più Robert Neville, e non (soprav)vive nel 1976, ma è uno scienziato, Robert Morgan, l'azione si svolge infatti tra il 1962 e il 1965.
Nelle prime inquadrature, molto fedeli al romanzo, vediamo Robert (il nome è rimasto inalterato) svegliarsi di soprassalto dal suono di una sveglia.
Sembra un rito come tanti altri, ma ben presto comprendiamo che non è così.
Robert è rimasto infatti unico cittadino del mondo, e vive la sua giornata cercando ogni mezzo per sopravvivere all'assalto dei morti viventi fotofobici ("la loro faccia li disgusta") che non sopportano la luce del sole e si muovono nelle strade solamente di notte.
Robert vive ossessionato dalla sua condizione di "unico" essere umano, "Il Prescelto" secondo la sua teoria, al fine di procacciarsi il cibo, di procurarsi la benzina per la macchina, di insediarsi nella sua dimora-prigione dove, come il condannato in un carcere, segna con una "X" l'inesorabilità dello scorrere del tempo.
Egli sa che la condanna è quasi certamente eterna, malgrado la fiducia in se' stesso lo convinca che esiste ancora una possibilità di salvezza.
Per sopravvivere, Robert si fabbrica delle armi affilate, con cui può sterminare i suoi nemici, e al tempo stesso, giorno per giorno, porta a bruciare i corpi delle vittime che trova, numerose, per le strade.
Un giorno come tanti altri, va in chiesa a pregare e a ricordare la moglie e la figlia, ma si addormenta e si ricorda, minacciosamente, che è tardi e che deve far ritorno immediatamente a casa prima di trovarsi in pericolo di vita.
Ma neanche il sonno sopisce la memoria di Robert: è assediato dai ricordi, e a questo punto è come se vedessimo un'altro film.
Un film che racconta di una famiglia felice, di un uomo innamorato della bella moglie (Emma Danieli), e della figlioletta, che festeggia il compleanno assieme a tanti coetanei e un amico di famiglia, nonostante le notizie devastanti su un'epidemia di proporzioni inaudite che rischia di compromettere la serenità di ciascuno di loro.
Robert, come scienziato, è uno studioso delle cellule che producono questo diabolico virus, e non riesce a venirne a capo: se il virus "viene portato dal vento" come riferiscono i giornali, è altrettanto inquietante che "le cellule continuino a vivere anche se separatamente le une dalle altre".
Intanto l'epidemia si espande e la sciagura colpisce la famiglia di Robert: l'amata bambina muore colpita dal virus e, poco dopo, anche la moglie.
Le vittime vengono bruciate e seppellite insieme in un'enorme voragine terrena che ricorda i tragici olocausti del Nazismo.
L'intuizione degli autore è geniale, soprattutto davanti alle responsabilità del protagonista (unico uomo della terra ma anche "unico" responsabile per non aver trovato l'antidoto al virus, il vaccino che poteva salvare l'intera umanità?).
Ragona riesce a cogliere perfettamente lo spirito del libro di Matheson, a cominciare dalla tremenda condizione di un uomo che può disporre di ogni bene terreno ma non saprebbe onestamente che farsene (simbolica la se-quenza delle banconote spazzate via dal vento).
L'interpretazione di Price è straordinaria, sia nell'immagine contrapposta alla splendida fotografia di Tonino Delli Colli, sia nelle sottili e inquietanti contraddizioni del suo personaggio: Robert che si lascia andare a un'incontenibile risata guardando i film che sorprendono la moglie e la figlia ancora vive e felici in un circo, Robert che sprofonda subito dopo in un pianto straziante, Robert che decide di seppellire la moglie da solo (per evitare che il corpo venga bruciato insieme a quello di tutti gli altri) e Robert che prende a cura un cane, ma poi è costretto a ucciderlo perché ha contratto, come tutti, il virus (sintomo di una speranza vana nella salvezza, se non umana, almeno del mondo animale), Robert che rivede la moglie ma non più in vita, ed è come la rivelazione brutale della sconfitta della sopravvivenza.
Infine, Robert che conosce una donna ("per anni ho desiderato una compagna, ma ora non saprei che farmene") e spera esista ancora una via di salvezza, mentre medita amaramente "non si può arredare un cimitero e poi chiamarlo casa").
Se "l'uomo ha la possibilità di vivere anche senza una ragione", Robert Morgan (vs. Neville) sembra espiare una condizione che non sa giudicare obiettivamente: egli è condizionato tra un bisogno tardivo di agire (per qualcosa che forse non ha più alcuna soluzione) e una caparbia, ostinata volontà di sopravvivenza.
Nel finale, comprendiamo forse una volta per tutte l'importanza di questo film per certi versi profetico e molto al passo con i tempi: del resto, le sconcertanti affinità con i successivi classici di Romero (soprattutto "The night of the living dead" e "La città verrà distrutta all'alba") e Tobe Hooper non sembrano esistere invano.
Ma è soprattutto il greve e tragico fatalismo del finale, reso ineludibile dalla menzogna, a consegnarci un film che esprime tutta la radicale universalità dell'uomo nella gloria e nella sua sconfitta iconoclasta.
Una beffa agli artifici delle superproduzioni, "L'ultimo uomo della terra" (che nella versione americana è noto con altri e altrettanto emblematici, titoli: "Naked terror", "Night creatures", "Night people") è un ottimo esempio di come si possa fare del buon cinema senza ricorrere a budget colossali e stratosferici consensi popolari.
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Recensione a cura di kowalsky - aggiornata al 26/09/2006
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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