Voto Visitatori: | 8,65 / 10 (10 voti) | Grafico | |
Voto Recensore: | 9,50 / 10 | ||
A sedici anni di distanza dal "Diario di un curato di campagna" - adattamento cinematografico dell'omonimo romanzo scritto nel 1936 da Georges Bernanos (1888-1948), Robert Bresson ritrova lo stesso autore riportando sullo schermo "La nuova storia di Mouchette", scritto nel 1937.
Si tratta di una vicenda ispirata da Bernanos da un personaggio di un altro romanzo francese, "Sotto il sole di Satana" (1926), fra l'altro tradotto al cinema da Maurice Pialat in un controverso film (1987) premiato a Cannes.
La storia di Mouchette è quella di una sfortunata quattordicenne che vive in un paese agricolo della Provenza, in compagnia di due genitori alcolizzati e due fratelli, di cui uno ancora in fasce. La ragazzina è costretta a occuparsi del fratellino e della madre malata, mentre il fratello maggiore vive in simbiosi col padre. Forse è destinato a prendere da lui le stesse cattive abitudini...
Le prime immagini del film evocano la difficile cattura di un uccello da parte dei bracconieri, e la sequenza è per certi versi emblematica. Infatti, pochi minuti dopo noi vediamo Mouchette nella vita di tutti i giorni, alle prese con la madre allettata e malata, i pianti del fratellino e l'avversione della ragazzina per l'istituzione scolastica, complice la sua emarginazione affettiva.
Il canto che si libera, coercitivo quanto basta, non può esprimere la vita che non c'è, la voce che si spegne attraverso i pensieri.
Ancora una volta Bresson, con il suo stile rigoroso ma essenziale, mette a nudo l'esperienza tragica di una purezza appassita da troppe sofferenze, da un futuro che forse ha lo stesso tragico destino di un'animale braccato.
Mouchette è costretta a difendersi dai coetanei e dall'ostilità degli adulti, mentre il villaggio sembra aderire a quella drammatica quotidianità che diventa inesorabile e dolorosa, per lei. La sua immagine non è malinconica e innoqua come quella della coetanea di "Au Hasard Balthazar", ma aspra, antipatica, persino minacciosa nella sua apparente incomunicabilità.
La ragazzina esprime invero una comunicativa non comune, quasi un grido d'aiuto soffocato dal disprezzo verso tutti coloro che la ignorano. Ogni volta che sente il bisogno di gettare del fango in faccia alle compagne, ella vede riversarsi su di lei lo stesso disprezzo. La vita degli altri vista con i suoi occhi, la scoperta dell'adolescenza altrui che le viene negata.
Attorno a lei si muovono diversi personaggi: un padre assente e violento, più interessato all'alcool che alla serenità della figlia, una madre che dispensa svogliate carezze, un fratello anonimo, una barista contesa tra due uomini di diversa estrazione sociale e morale.
Nel cinema di Bresson l'elemento "sovversivo" diventa il retaggio di un'esperienza chiusa, cinta da un destino avaro, umile e umiliante.
Nel "Diario di un curato di campagna" la seduzione di una ragazza nei confronti del parroco non è un vero e proprio atto d'amore, ma un tentativo di plagiare la fragilità dell'animo umano, di renderlo dipendente delle sue debolezze carnali e psichiche.
E Mouchette non può conoscere l'amore quando viene vanificato completamente nella violenza o nel bisogno immorale dell'uomo di abusare della sua "preda".
Lo spettatore si trova coinvolto dall'immagine di questa minorenne, riuscendo a percepire il devastante disagio della sua anima, ma è come se fossimo noi stessi gli "intrusi", perchè vediamo tutto ciò che agli occhi degli altri - ovvero degli abitanti del villaggio in particolare - sembra impercettibile.
La difesa di Mouchette è una fuga mentale che non esprime tanto passività, quanto la rassegnazione al rifugio di un tragico fatalismo. In un certo senso il personaggio ha qualche punto in contatto con "Rosetta" dei Dardenne, ma mentre Mouchette non reclama alcuna attenzione, la protagonista del film più recente è un'adulta consapevole e scellerata nel suo modo poco ortodosso di reagire al destino.
L'unica concessione di Bresson alla fuga dalla realtà quotidiana è la lunga sequenza della fiera. Gli abitanti del paese non si limitano a incrociare distrattamente gli sguardi, o a colmare il vuoto delle parole attraverso le espressioni facciali, non esprimono soltanto odio e amore con gli occhi, ma anche con i gesti, le azioni, gli atteggiamenti.
La contesa amorosa del bracconiere Arsene e della guardia giurata Mathieu per la barista sovrasta l'inquadratura, mentre Mouchette diventa una comprimaria distante da ogni tipo di rivalità eroica e partecipazione affettiva.
Mentre aspetta il padre, sale su una giostra e ammicca per la prima volta un sorriso spontaneo e condiviso nei confronti di un giovanotto. Sembra ritrovare in un modesto luna park una propensione naturale alla sua adolescenza, tra tante lacrime. Ma è soltanto un'illusione. La realtà si ripresenta più dolorosa di prima, e mette a nudo la laica sopravvivenza del cinema di Bresson al fato.
Tutto il resto del film si svolge nell'arco di una lunga notte di pioggia, dove domina l'essenza proverbiale del romanzo di Bernanos.
È davanti a questa dimensione che Bresson, fedele alla sua cronologia narrativa, presenta allo spettatore le conseguenze della sua minuziosa prefazione.
Uno o più atti di violenza vengono consumati in poche ore, mentre ancora più feroce è l'esperienza quotidiana dei testimoni, sopravvissuti occulti che credono soltanto a ciò che non possono o hanno potuto vedere.
Un lutto inevitabile attende Mouchette nelle prime luci dell'alba. La lunga fuga nel bosco, la tempesta notturna, la confessione di un uomo malvagio e disperato, la morte del desiderio e la successiva liberazione, il volto della resa e dell'eterno oblio. Una voce aspra suggerisce la parola "CORAGGIO", inversamente proporzionale alla realtà del distacco, alla viltà e all'egoismo dell'anima.
Il nuovo giorno indica che nulla è cambiato. La misoginia, l'ignoranza, la crudeltà si insinuano pesantemente sul volto, sempre più addolorato, della ragazza. Esiste sicuramente una violenza quotidiana che non ha confini né epoche, e si rivela spietatamente nel corso dei secoli, fino alla nostra contemporaneità.
Il culto della morte, anche secondo il principio spirituale del cinema di Bresson, reclama soltanto un dogma, non la capacità di distinguere la vita dall'esperienza traumatica della sopravvivenza. La malattia di una madre non assolve la donna dai suoi doveri e dalle responsabilità verso i propri figli - non soltanto verso Mouchette ma soprattutto verso l'ultimogenito di cui a stento sopporta i continui lamenti.
Bresson non è crudo quanto Bunuel nel descrivere lo scenario (brutale sì) del film e la storia, ma evita ogni tipo di ricatto moralistico e tantomeno consolatorio.
Lo spirito, più che la spiritualità, si pone continuamente domande, senza una risposta. Domande che non si sentono, che pure la forza del pensiero riesce ad annullare, ma che vengono percepite esclusivamente da chi ha la capacità di guardare il film senza reticenze o strumenti di difesa.
Come nell'epilogo, non esiste una risposta. Tutto tace.
L'ennesima preda dei bracconieri, la rara complicità del bene (rappresentato dalla moglie di Mathieu) sul male, la sopravvivenza dalla morte, la morte della vita.
Un orfanismo latente, sempre più "paterno", che calpesta ogni cocente riflessione del dolore - v. il curato di Bernanos/Bresson nel film del 1951.
Il cinema di Bresson diventa così una riflessione straziante, devastante, della coscienza umana. Se l'anima è nuda, chiede di coprirsi.
Una tardiva ribellione verbale esprime la nostra cecità.
E quante volte abbiamo contato le lacrime di Nadine Nortier, senza poterle fermare?
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Recensione a cura di kowalsky - aggiornata al 21/01/2010
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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