Recensione stand by me - ricordo di un'estate regia di Rob Reiner USA 1986
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Recensione stand by me - ricordo di un'estate (1986)

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locandina del film STAND BY ME - RICORDO DI UN'ESTATE

Immagine tratta dal film STAND BY ME - RICORDO DI UN'ESTATE

Immagine tratta dal film STAND BY ME - RICORDO DI UN'ESTATE

Immagine tratta dal film STAND BY ME - RICORDO DI UN'ESTATE

Immagine tratta dal film STAND BY ME - RICORDO DI UN'ESTATE

Immagine tratta dal film STAND BY ME - RICORDO DI UN'ESTATE
 

Il cinema ha sempre dato maggiore spazio alle storie degli adolescenti dai 16 anni in su, trascurando un'età di transizione, quella preadolescenziale, la più ricca di cambiamenti e quindi di spunti interessanti. Pochi registi si sono cimentati nell'analisi delle problematiche relative ai ragazzini dai 12 ai 14 anni, fra questi l'ha fatto con grande sensibilità Trouffaut nel film "Gli anni in tasca", seguito da Louis Malle che in "Arrivederci ragazzi", dilata e drammatizza il tema e I suoi protagonisti ambientando I loro tormenti nel difficile periodo delle leggi razziali contro gli Ebrei. Pochi altri lungometraggi totalmente dedicati all'autentica "età ingrata" li hanno preceduti e seguiti, quello più noto negli anni Ottanta "Il tempo delle mele", grande (immeritato?) successo al botteghino, ma superficiale e poco incisivo a livello tematico.
"Stand by me" si colloca fra questi, meno drammatico dei primi, più intenso del secondo, insomma c'entra l'obiettivo, raccontandoci una storia commovente in un crescendo emozionale che, a tratti, sfiora la poesia.
E' il racconto di un viaggio, più metaforico che reale, un viaggio d'iniziazione che trasforma il gioco di bambini in una fondamentale esperienza di transizione nell'inesplorato territorio degli adulti. Rob Reiner traspone sul grande schermo il terzo dei quattro racconti di "Stagioni diverse" (The body), opera atipica, probabilmente autobiografica, del grande autore horror Stephen King. Il regista lo fa con una spiccata sensibilità interpretandone l'essenza, tanto che King lo considera la migliore trasposizione cinematografica di una sua opera. In effetti, Reiner ha saputo abilmente rappresentare le emozioni che trapelano dal racconto di King, le ha sapientemente trasfigurate nelle belle immagini del suo film, donando loro, attraverso l'ottima regia, quel non so che di catartico, che l'opera scritta forse non offre.

Gordie, Chris, Teddy, Vern, sono I quattro ragazzini protagonisti di cui il regista ci narra l'avventura in un'estate del 1959 (la colonna sonora lo sottolinea) a Castle Rock nell'Oregon; un'avventura che segnerà la loro esistenza e che resterà per la vita un dolce ricordo da preservare. I quattro amici partono alla ricerca del corpo di un loro coetaneo dato per disperso, l'avventura di quella estate lontana è narrata in terza persona proprio da uno di loro, Gordie Lachance, ormai adulto e scrittore affermato (Richard Dreyfuss). Proprio la notizia, letta su un quotidiano, della tragica morte di Chris (R. Phoenix), suo amico d'infanzia, lo riporta al ricordo di quella vacanza estiva che segnò la fine della fanciullezza per entrambi.

Ognuno dei quattro ragazzi ha problemi familiari più o meno gravi e vive le dolorose contraddizioni dell'età con atteggiamenti anticonformisti simili a quelli dell'Holden Caulfield salingeriano. Per ognuno di loro è vitale trovare un nuovo punto di riferimento, che non sia più la famiglia, che non sia più solo la famiglia. Tra loro nasce quella complicità eccezionale, tipica dei dodici-tredici anni, costruita sulla sincerità spietata, cinica fino alla crudeltà (a spese soprattutto del buffo e imbranato Vern), esperienza unica, perché non mascherata dalle barriere degli adulti, perciò anche indifesa, scoperta e naturalmente spontanea. Forse il solo momento nella vita in cui si è veramente liberi d'essere se stessi, nel contempo schiavi dell'impellente bisogno di ricercare e sviluppare una propria identità consapevole e capace di interagire con la realtà esterna.

Il viaggio del film risulta un vero e proprio rito d'iniziazione, costituito appunto da prove da superare per crescere: la sfida del mostro (il cane Chopper) per scoprire la differenza tra mito e realtà; il rischio della morte e il brivido della sfida (il treno sul ponte); la paura del buio (la notte accampati nel bosco); il rapporto con il proprio corpo e la resistenza al dolore fisico (le sanguisughe); il coraggio di affrontare ragazzi più grandi, la banda di Asso (K. Sutherland), bulletti solo arroganza e niente cervello.
I quattro amici condividono ogni difficoltà e ogni scoperta del loro breve viaggio, affrontando I problemi di ognuno in intensi momenti di confidenza reciproca (toccanti dialoghi tra Gordie e Chris), superano gli ostacoli uniti dalla convinzione, tipica della loro età, che il pericolo bisogna affrontarlo invece di evitarlo, forti della sensazione d'immortalità che pervade l'età adolescenziale. La vista del cadavere del ragazzo scomparso, li rende consapevoli forse per la prima volta dell'ineluttabile fine, nonostante la morte sia una presenza costante per l'intero racconto. Torneranno a casa cambiati da questa incredibile avventura che farà loro scoprire la vera amicizia e farà loro conoscere una parte di sé, prima ignorata.
E' l'amicizia fra I quattro tredicenni ad essere continuamente focalizzata, perché l'amicizia a quell'età (lo dice l'autore stesso) è un sentimento totale e puro, come mai più si proverà così intensamente nella propria esistenza. Del resto ogni azione, ogni pensiero, a tredici anni diventa estremamente importante. Tutto è scoperta, di certo non più quella magica dell'infanzia, bensì quella consapevole del mondo esterno tanto temuto e, non di meno, di quello interno: la coscienza di se stessi diventa la conquista più grande, per questo più difficile e dolorosa. Il regista lo sa e non banalizza il momento, con abile intuizione psicologica tratteggia un perfetto quadro interiore dei suoi personaggi cogliendoli in momenti topici del loro stretto rapporto di condivisione dell'avventura. Con l'utilizzo dei primi piani, ad esempio, riesce a valorizzare le loro espressioni, gli stati d'animo, lampi colti nel loro sguardo, spesso con ironia (alcune furbizie nelle inquadrature e un certo umorismo li ritroveremo nel famoso "Harry ti presento Sally").
Colpisce come Rob Reiner sia stato psicologicamente tanto abile da far emergere il meglio dai quattro giovani protagonisti, innanzitutto scegliendoli simili ai personaggi, ha reso la loro interpretazione naturale, spontanea, istintuale; ha nondimeno saputo distillare da questi quattro preadolescenti la purezza di cuore, tipica del periodo, e creare un vero gruppo affiatato, dal quale far emergere i sentimenti più nascosti; così, seguendo le loro vicissitudini ci si riconosce, si ritrovano gli stati d'animo, le gioie e le paure che tutti in modo diverso abbiamo sperimentato.

I quattro attori sono bravissimi, ma su tutti emerge il talento naturale di River Phoenix, James Dean degli anni Ottanta, purtroppo prematuramente scomparso. Solo lui poteva rendere tanto intenso il drammatico momento della confessione di una scoperta terribile per un bambino: il tradimento degli adulti.
Da segnalare, infine, due momenti memorabili: il primo riguarda la sottostoria di "Culo di lardo Hogan e la gara di torte, narrazione letteralmente vomitevole che tanto diverte a quell'età (...e non solo). Il secondo è incentrato sul magico incontro all'alba tra Gordie e il cerbiatto, momento poeticamente incantevole che il ragazzo conserverà segreto nel suo cuore. Non lo racconterà agli amici perché: "Le cose più importanti sono le più difficili da dire".

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Recensione a cura di Pasionaria - aggiornata al 25/07/2006

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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