Dopo il furto della propria bicicletta, mezzo che gli permetteva di lavorare, un uomo vaga per la città con tutta la famiglia sperando di poterla ritrovare. Preso dalla disperazione non gli resta che rubarne una a sua volta ma viene bloccato dalla polizia...
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assolutamente uno dei piu bei film che esistano;trovo impossibile qualora qualcuno dica che non ha gradito.un espediente che fornisce a De Sica lo spunto per affrontare un tema che nonostante i quasi sessant anni dalla sua pubblicazione rimane piu che mai attuale.la societa forgia delle persone poco giuste anche contro la loro volonta e sfruttando magari la condizione economica non troppo positiva riesce a creare un circolo vizioso dal quale è difficile uscire.
un grande capolavoro,non solo tecnicamente ma per le sorprese che ti regala.non mi aspettavo quando l'ho iniziai a vedere di trovarmi di fronte ad un così magistrale film.oltre all'attualità del tema,vi è anche una forte critica ad un problema da sempre verificatosi,ossia la caduta dei valori non per volontà propria bensi per dittatura sociale.in quanto quella e questa società impongono un modo di vivere criminale!grandissimo!
Nella semplice vicenda di un uomo a cui rubano una bicicletta, si consuma il dramma di un Italia che, in seguito alla guerra, tenta disperatamente di uscire dalla miseria e dalla disperazione. Una bicicletta per raccontarci un mondo dove i valori, i principi, le regole vengono soffocati dalla fame...uno dei capolavori assoluti del cinema italiano.
Secondo film di De sica che vedo e ne sono rimasto affascinato. Semplice come la bellezza assoluta può essere per un film cult e capolavoro. Grazie Vittorio però a tuo figlio Christian gli avrei dato qualche scappaccione in più da bambino. Il ragazzino è bravissimo e il film fa piangere e arriva drittoa cuore. Da vedere assolutamante.
si puo dire che cristian de sica sia veramente un insulto a suo padre vittorio,un regista che ha fatto la storia del cinema italiano. fa rabbia vedere che nel 1948noi italiani sapevamo "fare" il cinemae nn come adessoche il nostro registarappresentativo è pupi avati....sul film nn c è niente da dire se nn un capolavoro
Dopo Sciuscià De Sica torna a far visita alle grotte della bassezza sociale e della povertà che emargina. E lo fa senza patetismi, con una vicenda formalmente triviale, volutamente prosaica e sempliciotta che getta un ‘occhiata severa e nel contempo disperante al quotidiano più umile, quello fatto anche di esorcismi, credenze irrazionali, paganesimi e soprattutto disoccupazione. L’ esordio sembra quasi un Fronte del porto romanizzato colla ressa per accaparrarsi un mestiere. Poi dopo il tripudio quasi surreale dell’ aver ottenuto un lavoro e principalmente un salario indispensabile per continuare ad aggirarsi tra le miserie del quotidiano sopraggiunge il dramma del furto della bicicletta. Bicicletta quale strumento tramite cui attenuare l’ imperfezione e la limitatezza umana e senza la quale, trasformatasi in breve in un’Angelica becera che riesce sempre a sfuggire col suo anello miracoloso al neo-attacchino Antonio, si dissolve l’ opportunità di un decoro esistenziale. In questa ambientazione , nella Roma del dopoguerra dove ancora rimangono vivide le cicatrici del conflitto mondiale, marcate a fuoco sulla pelle dei più deboli, degli sprovveduti, dei disarmati socialmente tutto si veste di normale, di giustificato e giustificabile, l’ illecito diviene digeribile, il reato passabile, l’ angheria e la truffa dimenticabili. L’ unica arma, se di arma si può parlare, in questa giungla selvaggia infestata da zoticoni, spiantati, scaltri, allocchi ma con il comune denominatore di essere perdenti, subalterni, reietti fuoriusciti dal tubo di scarico della società è il non concedere sostegno all’ altro, non lasciarsi andare alla solidarietà ma a forza di gomitate cercare di salire sul carro dei vincitori, che poi di vincitori non si tratta. Nei bassifondi non ci si imbatte mai in quegli “altri”, nei vertici, lungi dal frequentare l’ humus spregevole del proletariato sotterraneo. Solo in un’occasione, il burattinaio De Sica ci regala la visione di un accostamento con i borghesi agiati, facoltosi e dalle buone maniere a tavola; è nell’ osteria quando questi ultimi si sono trovati, sciaguratamente, a popolare la taverna plebea e in quella circostanza solo la tenerezza puerile ci risparmia un ‘ imminente caduta. Certo la narrazione partorita dalle straordinarie menti di Vittorio De Sica e Cesare Zavattini manca della vena visionaria di un Fellini, di un Amarcord, eppure ciò non esclude che la prosa seppure aspra e dolente trasudi liricità e traspaia i versi velati di una poesia forse meno immaginifica ma ugualmente suggestiva. Così il resoconto della storia si tinge di realismo, di neo-realismo. Ma qui non c’ è traccia di grottesco e nemmeno si avverte quel sovvertimento della realtà in chiave caricaturale e macchiettistica tanto cara a Fellini. Del resto De Sica non è Fellini. Giacchè il primo è l’ alfiere di un verismo purissimo, disinfettato da ogni effimero intellettualismo per lasciare scorrere senza argini la poesia di cui è permeata la realtà ordinaria che contempla in sé dialetti, mestizie, iniquità, difficoltà, brutture, irragionevolezze, crimini. Ladri di biciclette rappresenta per certi versi il contro-canto elegiaco della dolce vita felliniana oppure è un Novecento vissuto da Olmo Dalcò in maniera più bruciante, sdrucita, logora, versione stradale e periferica che annovera anche tra i suoi pregi l’ assenza di un occhio così vistosamente rosso come quello di Bertolucci. De Sica in questo e cioè a limitarsi a mettere in campo le sue pedine senza troppo governarle è stato memorabile. In conclusione mi rimane un solo desiderio da inoltrarvi ed è quello di mostrare clemenza nell ‘assolvere Antonio in quel suo ultimo gesto sciagurato e inconsulto culminante in quel pianto straziante che ha sapore di un regale ( e questo trascende ogni vestito consunto ) attaccamento ad un valore oggi traballante nell’ universo borghese: la famiglia. Uno degli ormai pochi motivi per sbandierare il tricolore. Capolavoro senza tempo che eterna, sublimandola, la semplicità del quotidiano.
Grande capolavoro del maestro De Sica, l'Italia del dopoguerra raccontata con una tale semplicità e chiarezza, una storia che potrebbe risultare banale e quasi stupida: di cosa parla il film? di uno a cui rubano la bicicletta. Eppure questa semplice idea ci fa capire l'importanza delle cose che si aveva al tempo, della vita dell'Italiano medio. Semplice, ma pieno di significato. Capolavoro.
Una delle pagine più belle del cinema neorealista, con un De Sica che riesce con la sua macchina da presa a mostrarci la sofferenza di un popolo che deve fare i conti con la difficoltà di ricominciare dopo le miserie del secondo conflitto mondiale. Il protagonista del film ben sintetizza l'esigenza di voler sfuggire alla povertà, alla disocupazione ,cercando e trovando un lavoro. Un lavoro che può svolgere solo con la bicicletta, che appare come uno straordinario simbolo di mobilità sociale, di riscatto da una condizione di miseria. Di conseguenza, il furto che subisce si configura come un annullamento della possibilità di " andare avanti" e di vivere in proiezione futura. Un film asciutto, sobrio, misurato, che commuove senza essere retorico. Una pietra miliare del cinema mondiale. Nico
Uno dei film più belli della storia del cinema, il classico del neorealismo insieme a Roma città aperta... è inutile commentarlo, ormai lo conoscono (o dovrebbero conoscere) tutti: il film riesce ancora a trasmettere i sentimenti del post-guerra, e le tematiche (povertà, umiltà, lavoro, paura) sono perfettamente trattate. Il film colpisce anche di più a distanza di anni e, sopratutto, riesce, dopo 20 volte che l'hai visto, a farti ancora piangere.