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Le Commissioni per la Verità e Riconciliazione sono stati lo strumento per Nelson Mandela di evitare una potenziale guerra civile in Sudafrica dopo 50 anni di Apartheid. Conoscere il passato, non dimenticarlo ma non rendere schiavo del suo lascito un intero popolo, come recita la citazione finale di Desmond Tulu. Un passato di soprusi e torture in cui vittima e carnefice rievicano un epoca oscura e priva di giustizia. Il film di Hooper ha il merito di immergerti nella storia attraverso la forma consolidata del legal thriller, senza eccessi retorici e con una narrazione fluida che lascia spazio ai personaggi ed alle vicende a loro legati. Doloroso ma necessario.
Tom Hooper già era promettente nel 2004, e i film a venire han confermato questa mia impressione; questo misconosciuto Red dust spicca per fotografia e regia non anonima, con intepreti indicati e funzionali (e poi la Swank, brava attrice, qui è pure abbastanza carina).
Script solido, qua e là semivisionario, tratto dall'omonimo libro.
L'opera è una sorta di dramma carcerario, che tiene bene per tutti i quasi 110 minuti di durata, e che nel frattempo denuncia pure le brutali condizioni di incarcerazioni sudafricane.
Chiwetel Ejiofor, mirabile interprete di 12 anni schiavo (che lavorò pure con Spielberg ed Allen) è pure qui ottimo.
Tuffo storico-biografico sulla fine dell'Apartheid in Sud Africa, RED DUST, esordio registico di Tom Hooper, ripercorre un fatto di cronaca interno allo spaccato storico visionato, offrendo un'interessante esplorazione storiografica dalle sfumature politiche e sociali, riportate e rappresentate con accuratezza, in seguito alla nascita della "Commissione per la Verità e la Riconciliazione". Sapienza tecnica e serietà riflessiva vengono amalgamati in una trama sensibile e diligente, mai noiosa o stucchevole, sormontata da un cast convincente e d'impatto emotivo, che rende alla perfezione il tratto impegnato della pellicola, equilibrata ma non formosa, sobria nel suo contesto e poco incisiva nei contenuti, piegati da una coscienziosa trattazione documentaristica. Quasi mettendo da parte la questione razziale del territorio, nata da una mentalità per anni corrotta da espliciti dettami, la pellicola affronta con secchezza il contrasto interiore dei protagonisti con la verità dei fatti, evidenziando la loro ostentazione nell'accettazione del proprio passato, unico pegno da pagare per i crimini contro l'umanità da loro commessi.
Denso e commovente dramma giudiziario sul sud Africa post-aparthaid. La storia è abbastanza simile al recente "In My Country" di John Boorman, ma è indubbiamente molto + riuscito. L'esordiente Hooper evita i momenti intimi tra i due protagonisti e una inutile storia d'amore e non scade nel sentimentalismo + banale del film di Boorman. In Più questo film ha dalla sua anche gli attori. Della brava Swank poteva essere approfondito meglio il suo passato e la sua storia. Straordinario invece il protagonista, l'attore italo nigeriano che si era visto in "Piccoli affari sporchi" di Stephen Frears.