Si è da poco conclusa, sugli schermi italiani di
Mtv, una serie televisiva che reca il curioso nome di
Greek. Per chi non lo sapesse, oltre a frequentare il college, una parte degli studenti americani è anche membro di confraternite, caratterizzate dal fatto di avere nomi composti da lettere greche, e di avere una dimensione associativa e organizzativa la cui semantica è totalmente ispirata all’antichità ellenica. Le confraternite servono a vivere più autenticamente, ossia collettivamente, il mondo della preparazione all’università, servono a conoscere tante nuove persone e a sentirsi meno spaesati nel difficile passaggio generazionale dalla scuola secondaria al mondo complesso degli atenei americani. A un livello più implicito, le confraternite servono anche come propedeutica, come primo step per il dominio del mondo.
Proprio nella prima puntata, il protagonista
Rusty Cartwright, giovane brillante ma “geek”, rivela che solo il 4% degli studenti americani vengono da confraternite, ma in quel 4% ci sono alcune fra le più eminenti personalità del mondo politico (in senso ampio) degli Stati Uniti. Per fare un esempio nostrano, la “confraternita” dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano (il cosiddetto
Augustinianum) vanta tra gli altri, come membro storico,
Romano Prodi. Nonostante questo dato “allarmante”, le confraternite sono un fatto ordinario in America, quasi un elemento culturale e di costume, una datità normale del mondo della cultura e dell’istruzione. Non fa quindi stranezza se per il canale televisivo
ABC Family (di proprietà della
Walt Disney) sia stato pensato e mandato in onda un progetto che riguardasse per la prima volta questo curioso ed articolato mondo.
Ispirato, nella struttura, al successo della celebre serie cinematografica degli
American Pie,
Greek a una prima occhiata sembra quello che è: una sempliciotta serie tv che racconta le normali e banali dinamiche relazionali e di crescita degli studenti del college, attraverso l’ottica contestuale delle confraternite. Un’innovazione, o perlomeno una variazione sul tema, sopra a una tradizione ben consolidata e apparentemente incapace di dire qualcosa di nuovo in merito a ciò di cui parla. Gli
American Pie avevano fatto successo perché sapevano coniugare volgarità con spensieratezza, didattismo con irriverenza, ironia con semplicità di formule narrative. Una bomba a orologeria dell’intrattenimento commerciale, un prodotto da molti giudicato privo di qualsivoglia valore estetico, al confronto del grande cinema d’autore a cui la stessa America ci aveva abituati. Poco importa che l’iniziatore di questa tipologia commerciale e cinematografica fosse un autore onorato e importante come
John Landis, con il suo celeberrimo
Animal House. Ricordandoci però che
Greek è stato trasmesso (dal 2007 al 2011) dalla
ABC Family (“La vita segreta di una teenager americana”), possiamo di certo immaginare come agli ingredienti di cui sopra sia stata tolta tutta la parte di volgarità e oscenità che costituiscono una grossa fetta dell’apprezzamento degli
American Pie. Privato anche di questa eccezionale risorsa, ci si può legittimamente domandare come sia potuto succedere che
Greek sia riuscito nella scalata del successo giovanile e anche come ci si sia svincolati dalla necessità di rappresentare in modo comunque veridico e profondo il mondo dei giovani al college come quello che effettivamente è: sesso, feste e irresponsabilità. A questo punto è bene tirare in ballo una considerazione che
David Foster Wallace fece a una conferenza del 1999:
“Vi pare una coincidenza se è durante il college che molti americani si dedicano con più assiduità a scopare e bere fino a crollare e in generale a bagordi estatici di tipo dionisiaco? Non lo è. Gli studenti del college sono adolescenti, e sono atterriti, e affrontano il loro terrore in modo squisitamente statunitense. Quei ragazzi che al venerdì sera si vedono appesi nudi a testa in giù fuori dalle finestre dei circoli goliardici stanno solo cercando di comprarsi qualche ora di evasione dagli argomenti adulti e seri cui qualsiasi college che si rispetti li ha costretti a pensare per tutta la settimana.”
Il problema di una serie tv come
Greek è che non può davvero prescindere dal suo pubblico: i giovani. Rispetto a serie destinate a un pubblico molto più stratificato come
Lost,
Nip/Tuck o
Breaking Bad,
Greek paga il prezzo del suo stesso intento: parlare del mondo giovanile. Il mio obiettivo è di dimostrare perché Patrick Sean Smith, creatore di questo splendido teen drama, è un genio. Nell’affrontare un’opera come questa, uno sceneggiatore doveva far fronte a una serie di complesse problematiche, prima fra tutte il parlare in modo non banale di una cosa che lo è. Questo dovrebbe essere il principio aureo di ogni produzione artistica, ma sappiamo bene che non le cose non stanno esattamente in modo aureo in questo mondo. Che
Greek risultasse o no banale, voglio lanciare l’ipotesi che il successo commerciale lo avrebbe avuto comunque. Lo dimostra il fatto che di
American Pie non ne abbiamo uno, ma dieci. Ma ora veniamo ai perché e ai percome.
Uno spettatore consumato, sia del cinema impegnato che delle serie tv della
HBO, probabilmente non riuscirebbe ad apprezzare
Greek senza una presa di coscienza che sia al tempo stesso un seccante atto di umiltà: fare i conti con la sua banalità per arrivare a comprendere e a vedere dove non è banale. Perché quello che sembra più plausibile, se ci si interroga ossessivamente come ho fatto io sul perché sia così bello, è che
Greek miri a soddisfare un target ben più ampio di quello a cui è destinato. E qui si potrebbe obiettare che allora Smith intendesse solo fare più successo. La cosa che mi spinge a dissentire è che la serie non sembra volerlo fare davvero, ma semplicemente farlo. Nelle intenzioni rimane la divertente e spensierata storia di un gruppo di amici in confraternite rivali, nei risultati si rivela una dolce e delicata, nonché profonda narrazione delle complessità del mondo giovanile. E ce n’era bisogno, perché in fin dei conti è davvero molto difficile parlare di questa cosa senza scadere nel retorico e nel
Gus Van Sant (ossia di un cinema d’autore che si occupi di giovinezza, quindi sostanzialmente “per adulti”). Pochi hanno davvero il coraggio di affrontare in modo serio il mondo adolescenziale, perché sembra essere un’età troppo poco interessante: in fondo che ricordi abbiamo di quel periodo? Eravamo semplicemente incasinati e felici. Che cosa rende un mondo di festini, alcool, belle ragazze, studio approssimativo e svogliato un materiale per un intrattenimento di livello, un qualcosa che sappia anche farci pensare, e magari appassionare e commuovere?
L’inaspettato. Smith punta proprio sul fattore-sorpresa. Mantenendo inalterata la struttura superficiale del genere del teen drama, Smith ci presenta quattro stagioni in cui le prime due forniscono l’esoscheletro, la base della storia e del racconto, le altre due mettono la polpa. E ciò che fa davvero battere il cuore di questo misconosciuto gioiello dell’intrattenimento statunitense è proprio la scarica elettrica del “non l’avrei mai detto”. Con precisione e sincronia perfette, Smith fa emergere pian piano le personalità insicure e profonde, illuminate dal tiepido candore di un’età magica e inafferrabile, di ogni personaggio, conducendo essi e la storia a un risultato sempre più incongruo e meraviglioso: così avremo che la stereotipata e banale formula iniziale, quella per cui la confraternita sia il chilometro uno della strada per la Casa Bianca, venga capovolta con un agilissimo colpo di mano, basato sull’ironia e la dolcezza. Ed è così che sulle note banali, ma terribilmente rassicuranti di
Forever Young degli
Alphaville si rivela lo sguardo profondo e insieme realista del creatore, in una immenso happy-ma-ce-lo-siamo-guadagnati-davvero- ending che mantiene le promesse e fa di più: Cappie e Casey, i Renzo e Lucia di questa storia, sapranno sfuggire alla descrizione impietosa di Wallace, e volare liberi, senza alcun futuro preteorico e stabilito davanti, senza alcuna volontà di rientrare in piccole percentuali statistiche di presidenti, yuppies e WASP, di riuscire a distinguere in mezzo alla caotica miriade di esperienze senza senso del college cosa non è solo esperienza, ma anche base solida da cui partire per fondare una vita autentica e il più reale possibile, di spiccare il volo in modo sicuro “ovunque vogliamo andare”. Nessuna libertà di essere giovani, ma libertà di essere persone.
“
Nino non aver paura di tirare un calcio di rigore” cantava negli anni ’70 Francesco De Gregori.
Un timore che da sempre attanaglia i nostri produttori e registi, i quali, rarissimi casi a parte, quando c’è da andare in campo, non sono mai riusciti a cogliere la vera essenza dello sport nazionale, ovvero il calcio.
Il primo dimenticabile tentativo risale alla fine degli anni ’40 con il misconosciuto “Undici uomini e un pallone”, cui fanno seguito una decade dopo "
Gambe d'oro" (con special guest il mitico
Totò) e “Gli eroi della domenica”, passato non proprio in sordina per la presenza del plurivittorioso c.t. della nazionale Vittorio Pozzo e alcuni giocatori del Milan.
Nel 1970 l’indimenticato
Alberto Sordi è protagonista de "
Il presidente del Borgoroso Footbal Club", pellicola sopravvalutata e forse acclamata più per la fame nazionalpopolare di pellicole sull’argomento.
Risale agli anni ’80 una dei migliori film mai realizzati da queste parti,
Pupi Avati coadiuvato da un grande
Ugo Tognazzi fa centro con "
Ultimo minuto", malinconico ritratto di un presidente che si sporca le mani e si rovina la vita per ottenere il successo.
Da quel momento qualcuno comincia a pensare che non sarebbe male buttarla in farsa, ed ecco allora apparire sugli schermi "
L'arbitro" con
Lando Buzzanca, buon successo di pubblico e discreto di critica.
La massa viene così attratta da filmetti comici senza troppe pretese, in cui la demitizzazione del sacro rito domenicale diventa fenomeno di costume per raccontare di allenatori, calciatori e dirigenti con storie spesso al limite della demenzialità.
Precursori del genere due esperti della parodia, ovvero
Franco Franchi e
Ciccio Ingrassia con "
I due maghi del pallone".
Assurge a vero cult della categoria "
L'allenatore nel pallone" con
Lino Banfi, cui aveva fatto da apripista un paio di anni prima l’altrettanto celebre "
Eccezzziunale...veramente" con
Diego Abatantuono, entrambi oggetto negli anni 2000 di seguiti francamente penosi.
E’ soprattutto negli anni ’80 che pallone di cuoio e risate grossolane vanno a braccetto: "
Paulo Roberto Cotechino-Centravanti di sfondamento", "
Mezzo destro, mezzo sinistro: due calciatori senza pallone" e "
Il tifoso, l'arbitro e il calciatore" ,sono solo i più famosi esempi di pellicole in cui la cornice sportiva è spesso solo pretesto per metter sul piatto battute grevi e torridi nudi delle starlette di turno.
Dopo Avati qualche tentativo di unire la denuncia sociale e pratica sportiva si è intravisto nuovamente sul finire degli anni ’80, con risultati però dimenticabili.
Impossibile non citare lo scult con
Nino D'Angelo avverso alla camorra ne "
Quel ragazzo della curva B".
Non mancano le peripezie dei supporter ad offrire parecchio materiale, "
Ultrà" resta l’esempio più interessante, mentre "
Tifosi" si ricollega al filone demenziale.
Negli ultimi anni il calcio sul grande schermo ha seguito il decadentismo cui il cinema popolare è stato soggetto, con filmacci di incredibile pochezza tipo "
Piede di Dio", "
4-4-2 Il gioco più bello del mondo", "
Ultimo stadio" o "
Tutti all'attacco", pellicole in alcuni casi dirette da registi poco conosciuti e con cast formati da gente che sguazza nel mondo del cinema e della tv senza aver mai mostrato alcun talento.
Singolare notare come la cinematografia italica non abbia mai saputo generare un vero e proprio capolavoro su un argomento vissuto così visceralmente da moltissimi, oggetto di infiniti dibattiti e da sempre in grado di affascinare qualsiasi ceto sociale.
Infine menzione a parte merita "
L'uomo in più" di
Sorrentino con il sempre maiuscolo
Toni Servillo, che pur non polarizzandosi esclusivamente sugli aspetti agonistici riesce per la prima volta a raccontare le dinamiche più spietate di un mondo fino ad allora trattato con poco coraggio e obiettività.
Pubblicato il 05/11/2012 20:56:56 da
cash
Problemi esistenziali di cui nessuno parla: creatori impossibilitati a fruire le loro opere. Pensateci. Siete al cospetto di un'opera, una vera opera. Cinema, musica, pittura, quello che volete. Per coerenza di paradigma, prendiamo il cinema.
2001,
Quarto potere,
Quei bravi ragazzi. La lista è ovviamente lunghina, il che rende ancora più tragicomica la vicenda. Popola il mondo di un capolavoro, e l'unico che non può gustarselo sei tu che ce ne hai fatto dono.
Kubrick ha elargito a questo povero pianeta alcuni dei film più incredibilmente unici che ci possano essere, ma non ne può, essendo l'autore, tranne beneficio alcuno, nè estetico nè estatico. Quello che provo io, lo smarrirmi in miasmi audiovisivi che citare la sindrome di Stendhal è riduttivo, a lui è negato. E povero
Scorsese; niente
Casinò, niente
Quei bravi ragazzi, niente
Taxi driver, per lui. Forse il più misero del lotto è
Lynch; non può comprendere quanto il suo talento sia così realmente tangibile da concretizzare un incubo su schermo. Ma non può scoprire
Inland empire, non può angosciarsi con
Eraserhead. Non può nemmeno tentare di dare una chiave di lettura a
Strade perdute o
Mulholland drive. A
Roger Waters e
David Gilmour è fatto divieto assoluto di abbandonarsi nella definitività di
The Wall. Io lo posso fare, tiè. Ma non perchè gli artisti possano, per innata contraddizione, decidere di non rilasciare giudizi sulle loro opere; è perchè non lo
possono ontologicamente fare. E basta. Che è poi, quasi, il megacomplesso di Dio; crea un mondo, e osservalo crescere e fiorire. Sbircia nell'intima quotidianità dei tuoi figli, ma da una certa distanza. Per la storia del libero arbitrio, e lì ti sei fregato da solo, non puoi intervenire. E allora forse sei lì che osservi me, e a vedermi fare certe minchiate t'è financo scappata una risata. Forse ti sei addirittura intenerito per alcune mie vicende sgradevoli, e hai pure versato una lacrima. Per un istante che ti è parso eterno -il senso del tempo di Dio fa schifo- , volevi essere lì a partecipare. Volevi essere lì, al pub con me e i miei amici. E forse c'eri, eri al tavolino dietro, tutto solo, a sorridere sotto i baffi finti. Dio che mi invidia. Sempre detto io, l'ateismo ti allontana dagli sfigati, e ti rende una persona migliore.
Pubblicato il 01/11/2012 14:07:12 da
L.P.Creare con 300.000 dollari un'icona che sopravvive ancora oggi, che ancora oggi fa paura, che ancora oggi porta la gente al cinema e spinge i produttori a investirci i soldi sopra. Su una maschera. Bianca. Inespressiva. Su una delle forme più pure e astratte del terrore. Michael Myers, The Boogeyman, o L'Ombra della Strega, come venne soprannominato nel doppiaggio italiano, con una scelta una volta tanto non del tutto infelice, se non altro per il suono sinistro che hanno quelle parole. L'Ombra della Strega. Alla tua finestra. E' abbastanza spaventoso, vero?
Il piccolo Myers nel primo e unico film della saga diretto da John Carpenter
Quando
Carpenter si presentò dal produttore Moustapha Akkad con il copione di "The Babysitter Murders" aveva 29 anni. Akkad lo stette a sentire solo perché il giovane regista gli promise che avrebbe girato il film in pochissimo tempo e con un budget ridottissimo. Akkad chiese a Carpenter di cosa parlasse la sua sceneggiatura. E Carpenter, sintetico come sempre, rispose: "Babysitter ammazzate dall'Uomo Nero". Tutto qui. La trama di
Halloween, lo sappiamo tutti, è esile, scheletrica, quasi inesistente. Ci sono le vittime, c'è il killer che prima le pedina e poi inizia a farle fuori una a una. C'è un ragazzino che è cresciuto in un manicomio e che proprio durante la notte delle streghe evade per tornare a casa. E c'è un'adolescente timida e un po' imbranata che con lui si confronta e riesce a sconfiggerlo.
Non era il primo slasher della storia del cinema. Non sarebbe stato l'ultimo. Ma, a differenza dei suoi progenitori, i vari
Black Christmas e
L'allucinante notte di una baby sitter, sposta l'attenzione sull'assassino, sul mostro, e lo trasforma in mito. Halloween è sì
Jamie Lee Curtis nascosta nell'armadio, ma è più di tutto l'incedere lento e inesorabile di Michael, la sua totale mancanza di empatia, il modo in cui continua ad alzarsi ogni volta che viene colpito, un vuoto riempito solo dall'istinto omicida. La maschera più di ogni altra cosa, il volto di William Shatner che diventa un archetipo del Male quello con la emme maiuscola. Perché, anche questo lo sappiamo tutti, Michael non è umano.
Da quell'ottobre 1978, da quel primo, seminale film che in fondo parlava solo di babysitter ammazzate dall'Uomo Nero, la saga di Halloween ha generato sette seguiti, un remake e un sequel del remake. E si sta parlando da qualche anno di ricominciare da capo usando il noto trappolone per gonzi del 3d, che ha già colpito un illustre collega omicida. Halloween che, ripetiamo, costò appena 300.000 dollari, ne incassò sessanta milioni. E regalò a tutti gli appassionati dell'orrore un nuovo eroe, alle cui gesta assistere nei secoli dei secoli e amen. Dato il successo interplanetario del primo film, i produttori decisero di mettere in cantiere il prima possibile un seguito. Dietro
Halloween II: il signore della morte, ci sono ancora Carpenter e Debra Hill, ma entrambi coinvolti nel progetto senza entusiasmo. Carpenter era impegnato altrove e decise di non stare dietro la macchina da presa e di limitarsi alla sceneggiatura. Alla regia venne chiamato
Rick Rosenthal. La produzione, per obbligare Carpenter e la Hill a prender parte all'operazione, minacciò addirittura di agire per vie legali contro di loro, bloccando le riprese di
The fog. Il copione scritto da Carpenter venne rimaneggiato e, a film ormai uscito, il commento secco del regista fu: "Non vale la pena di andarlo a vedere".
Michael Myers in Halloween II
In realtà, Halloween II non è così brutto come le premesse potrebbero far pensare. Per tutta una serie di motivi, magari anche involontari, riesce ad approfondire il personaggio di Michael pur non spogliandolo della sua identità di astrazione maligna. Forse il modo in cui il dottor Loomis (nemesi dell'assassino mascherato) collega la furia omicida di Michael allo Samhain, è un po' troppo spiegata e data in pasto allo spettatore neanche fosse una didascalia. Ma il riferimento ai riti druidici è comunque suggestivo, come anche l'attribuire a Michael la qualifica di mostro dell'inconscio e quindi quasi incorporeo, un fantasma che emerge dal buio e che è sempre più identificabile con la paura stessa. Anche la scelta della location (l'ospedale in cui viene ricoverata Laurie) è interessante e permette a Rosenthal di sbizzarrirsi in sequenze di omicidi estremamente violente, quasi del tutto assenti nel capostipite. Il tasso di gore aumenta in maniera esponenziale, iniziando un percorso che nei vari seguiti sarebbe diventato irreversibile. Halloween II tuttavia riesce a mantenere almeno parte dell'eleganza del suo predecessore ed è ancora un ottimo prodotto di intrattenimento.
Con Michael Myers e il dottor Loomis bruciati entrambi nel fuoco purificatore del finale, era difficile pensare di poter metter mano a un nuovo seguito. E invece, i produttori erano seriamente intenzionati a continuare la saga. Carpenter, che aveva ben altro a cui pensare, propose di realizzare un film ambientato ad Halloween, senza il personaggio di Michael, dato per morto e sepolto, e destinato a diventare una specie di contenitore di ossessioni e paure legate alla notte delle streghe. L'idea iniziale è attribuita a
Joe Dante, mentre a scrivere il copione venne chiamato Nigel Kneale, autore del Quatermass televisivo.
Purtroppo, la sceneggiatura di Kneale non venne mai messa in immagini. Giudicata troppo costosa e quasi impossibile da realizzare, subì tutta una serie di tagli che portarono lo scrittore a ritirare il suo nome dai titoli. I credits ufficiali infatti danno come unico autore il regista
Tommy Lee Wallace.
Halloween III: il signore della notte è forse l'unico caso, all'interno del contesto seriale del cinema horror, di sequel totalmente spurio che tenta di svincolarsi dall'ombra ingombrante della maschera di Michael per dare vita a un nuovo progetto cinematografico. Non solo uno slasher con assassino armato di coltello che insegue fanciulle sempre più disinibite e discinte, ma un horror soprannaturale che parli di Halloween e che ne diventi, in un certo senso, il simbolo. Purtroppo, alle premesse non corrispondono i risultati. Verrebbe da chiedersi cosa sarebbe uscito fuori se il film fosse stato diretto da Dante (purtroppo impegnato sul set di
Ai confini della realtà) e scritto da Kneale. Ma ci è toccato Tommy Lee Wallace e ce lo dobbiamo tenere, insieme alla bizzarra storia della fabbrica di maschere maledette e del loro malefico creatore.
Non tutto è da buttare: il finale splatter e per niente consolatorio, l'eliminazione del nuovo cattivo che impedisce a prescindere che il film si trasformi in un'ennesima saga, il ruolo della maschera, solo abbozzato nei due film precedenti che qui diventa preponderante. Nonostante un successo al botteghino più che discreto, era evidente che il pubblico non voleva una nuova serie di film ispirati alla festa di Halloween. Il pubblico voleva Michael Myers. E così Akkad pensò bene di resuscitarlo, a ben sei anni di distanza dal terzo capitolo, con
Halloween 4: il ritorno di Michael Myers.
La fabbrica delle maschere in Halloween 3
Halloween IV viene fatto uscire in occasione del decennale del capostipite. L'unica traccia che rimane di Carpenter è il tema musicale portante del film, anche se leggermente modificato rispetto a quello originale. Per il resto, il Maestro non appare neanche più nei titoli, né in produzione né in sceneggiatura. Più che un seguito vero e proprio, il quarto Halloween potrebbe essere un reboot, solo che all'epoca certe brutte parole non le usavano e avevano il buon gusto di non nascondersi dietro a eufemismi per mascherare bieche operazioni commerciali. A dirigere il baraccone di Ognissanti chiamano il regista di servizio
Dwight H. Little che se non altro dimostra di avere un certo gusto nel plagiare movimenti di macchina e inquadrature carpenteriane.
Esordisce
Danielle Harris, ed è forse uno dei pochi motivi validi per vedere questo film. Insieme a uno dei finali più agghiaccianti e perfidi mai concepiti. Due minuti conclusivi in cui il Male trionfa senza lasciare nessuna possibilità di salvezza, in cui un redivivo dottor Loomis, sconfitto in maniera definitiva, non può che contemplare attonito il fallimento di tutta la sua esistenza. La saga avrebbe anche potuto concludersi lì, e sarebbe stato un degno epitaffio su quella incarnazione di pura malvagità fine a se stessa che è la figura di Michael Myers. Con la piccola Jamie, vestita con lo stesso costume che indossava Michael la notte in cui uccise sua sorella, che impugna inespressiva il coltello, si poteva addirittura ipotizzare una rigenerazione del mito dei Myers da un punto di vista femminile (ipotesi anche sfiorata da Rob Zombie nello sciaguratissimo Halloween II del 2009). E invece no. Si mette subito in cantiere un
quinto capitolo, lo si mette in mano a un tizio dal nome esotico,
Dominique Othenin-Girard, si fa guarire Jamie dalla psicosi e si realizza un film che ha dalla sua un'atmosfera ossessiva e soffocante, basato quasi tutto su una persecuzione atroce ai danni di una bambina. La regia di Girard è confusa, ma con dei picchi di creatività fiabesca che evidenziano la morbosità del rapporto vittima/carnefice tra i due personaggi principali.
Le dinamiche tra Michael e Jamie sono forse la cosa più interessante di questo prodotto che per il resto assomiglia a un pessimo seguito di un Venerdì XIII qualunque. Halloween è entrato ormai a far parte della grande famiglia degli slasher anonimi, in cui il body count diventa sempre più elevato e si è solo curiosi di assistere alle dinamiche anatomiche del prossimo omicidio. Lo stesso Michael, con forse il look peggiore di tutta la serie, sembra una marionetta. Cammina un po' claudicante e dinoccolato, una specie di bamboccio tonto che non ha nulla del sinistro carisma che il personaggio aveva in quella ormai lontana notte dell'ottobre 1978.
Sul
sesto capitolo, in cui si va a riesumare il personaggio di Tommy Doyle, si parla di sette, conoscenza druidiche per mettere fuori combattimento Myers appellandosi a energie positive, e altre cose che non sono degne neanche di essere guardate di sbieco tra un cruciverba e l'altro, è meglio stendere una pietosa lapide di marmo e passare oltre.
Nel 1996 un uragano si abbatte sul cinema dell'orrore. Questo uragano si chiama
Scream. A prescindere dal giudizio critico sul film in questione, è evidente che l'opera di
Craven abbia lasciato strascichi (positivi e negativi) a lungo termine. Anche Halloween, che è una delle fonti primarie di ispirazione per Kevin Williamson, sceneggiatore di Scream, viene coinvolto dalla mania citazionista e dal nuovo teen movie. Con l'anniversario dei vent'anni alle porte, ad Akkad viene in mente di richiamare Jamie Lee Curtis a ricoprire il ruolo di Laurie Strode, adesso trasferitasi in California, insegnante in una scuola privata e madre iperprotettiva di un figlio adolescente.
Unico capitolo ambientato fuori da Haddonfield,
Halloween H2O, tenta di portare la saga di Michael Myers all'interno di un contesto più moderno, rilanciando la figura appassita di Michael Myers grazie alla presenza della sua prima, storica antagonista. Discendente diretto della Scream generation, Halloween H20 è un prodotto che autocelebra se stesso in maniera spudorata e, privo com'è di qualunque ambizione, risulta anche divertente e godibile. Il fatto che in cabina di regia ci sia un vecchio mestierante come
Steve Miner, rende l'operazione molto valida da un punto di vista professionale. Lo svecchiamento introdotto dalla sceneggiatura è evidente soprattutto nel personaggio di Laurie: quasi alcolizzata, sessualmente disinibita e dipendente da psicofarmaci, resta comunque l'eroina, il punto di riferimento, e il personaggio positivo per eccellenza del film.
Jamie Lee Curtis ancora una volta in Halloween H2O
Con Michael decapitato dalla sorella Laurie, sembrava davvero che fosse finita. Ma Halloween H20 viene premiato al botteghino, incassando più del previsto e alla Dimension film non si fanno sfuggire l'occasione di continuare a lucrare sui moribondi. Arriva quindi
Halloween: la resurrezione, in cui ritroviamo Jamie Lee Curtis chiusa in un manicomio criminale. L'espediente con cui Myers viene fatto tornare in vita fa ridere polli, galline e pennuti di ogni specie. Ma se non altro ci godiamo l'addio definito alla serie di sua maestà Jamie Lee, uccisa da Michael nei minuti iniziali del film. A quel punto, Halloween - La resurrezione si trasforma in un reality per gonzi, affossato ancora di più dalla presenza di
Busta Rhymes nel ruolo del cinico produttore di un programma televisivo. Tedio, tedio e ancora tedio.
La saga ufficiale finisce qui, con un episodio imbarazzante che è stato rimosso dalle coscienze di chi ci è inciampato sopra per sbaglio, ché solo per sbaglio si può assistere a un tale cumulo di merda. Oppure, se lo si fa consapevolmente, bisogna esser scemi come me. Passano cinque anni (La Resurrezione è del 2002) e, mentre impazza a Hollywood la mania del remake di film horror del passato, il signor
Rob Zombie viene rapito nottetempo dai Weinstein, preso a randellate forti sulla testa, narcotizzato e poi costretto con la forza a girare un rifacimento del primo, glorioso, epico
Halloween. Cosa ci azzecchi Rob Zombie con John Carpenter lo sanno solo i Weinstein. Quella che poteva sembrare una scelta coraggiosa e fuori dagli schemi, ovvero affidare un remake così difficile a un autore con un taglio estremamente personale e diametralmente opposto a quello del Maestro, si rivela invece una devastante arma a doppio taglio. Non per i Weinstein che cadono sempre in piedi. Per il povero Rob Zombie, che gira mezzo film alla sua maniera (prima parte ottima) e l'altra metà in uno stralunato scimmiottamento di Carpenter ma sotto anfetamine, in cui tutti corrono, urlano e dicono parolacce.
L'ultimo Halloween targato Rob Zombie
Non paghi di ciò, i Weinstein acchiappano uno Zombie in delirio di onnipotenza, e sotto minaccia di esser sodomizzato da un cavallo bianco, portato alla briglia da
Sheri Moon, lo costringono a girare il
sequel, ove il terribile incubo equino si incarna nelle visioni di un Michael Myers ormai partito per la tangente che si sogna la mamma vestita come un elfo mentre fa la pubblicità al bagno schiuma Vidal. Il tutto mentre il gore diventa così esasperato da sortire l'effetto di un grottesco carnevale, Laurie Strode bestemmia e come uno scaricatore di porto, Danielle Harris viene macellata ma prima ci mostra le tette, e comunque tutti corrono, urlano e dicono parolacce. Ripresi con la macchina a mano.
Immaginare soltanto quello che combineranno al povero Michael Myers in 3d, sarebbe troppo doloroso. Eppure, nonostante i ripetuti stupri che il personaggio ha subito nel corso dei decenni, la sua maschera bianca che emerge spettrale dal buio, vuota, incapace di pietà, The Shape, la forma essenziale di tutto ciò che temiamo, il non morto condannato a vagare sulla terra sterminando i vivi è sempre lì, alle nostre spalle pronta a colpire. Una forza incontenibile la cui unica volontà è uccidere. E che ogni Halloween che si rispetti, è pronta a tornare a casa. Per salutarci.
Pubblicato il 31/10/2012 08:43:14 da
cash
In un poco noto romanzo di di
Hubbard,
Le quattro ore del terrore, succede qualcosa di interessante. Il protagonista va a trovare un suo amico, e dopo aver chiacchierato del più e de meno, dopo una decina di minuti si congeda ed esce di casa. Punto. Solo che non sono passati pochi minuti, ma quattro ore. Scosso, il protagonista torna nell'appartamento e trova una strage. Sangue ovunque. Amnesia? Cos'è davvero accaduto? Ecco, anche a me capitano cose del genere. Non fare stragi, non ci sono ancora arrivato. Ma di subire dilatazioni temporali inconsuete se non in principi relativistici che richiederebbero che io viaggiassi ad una velocità simile a quella della luce. Di fronte alla granitica noia di certe pellicole, io stacco. E spesso, alla dilatazione temporale estrema si aggiunge, appunto, l'amnesia. Classica situazione: vai a vedere
Apocalypto. Il film inizia, e sono le 21:00. Dopo sei ore, controlli l'orologio; "tra un po' albeggia, sarà quasi finito". Sono le 21:15. Mi capita di alzarmi dalla poltrona, attraversare il corridoio e uscire dal cinema. Poi realizzo ed esclamo mentalmente: "Ehi, ma io che ci cazzo ci faccio qui?". Buio totale. Non so manco come ci sia arrivato, figurarsi ritrovare la macchina. Dove ho parcheggiato? E se ho preso un taxi? Alcuni film mi resettano. Ctrl+Alt+Canc. Poi, lentamente, grazie a training autogeni, ritrovo la memoria. Così scopro che nella mia misera vita ho persino visto
American gangster,
S.Darko,
La sottile linea rossa,
La passione di cristo. Grazie ad alcune tecniche sciamaniche, ho ripescato queste perle. Altre giacciono nell'oscurità. Perché nell'inventario della mia vita, la memoria mi è ancora in debito di una quarantina di ore. Ma non bisogna mai disperare. L'oblio può tornare utile. Volete dimenticare per sempre la persona che tanto vi sta facendo soffrire? Approfittatene, finché
Prometheus è nelle sale. Vedetelo con lui/lei. Non vi ricorderete nemmeno di un secondo d'amore inutilmente speso.
Eternal sunshine of the spotless mind era solo un'intuizione,
Scott ha portato la tecnica alla perfezione. Quando dovesse uscire la versione estesa, siate cauti: potreste perdere la memoria e regredire sino al vostro compleanno per i 18 anni.
Che però eran tanto belli...