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Trattare al cinema con ironia e leggerezza le contraddizioni del mondo moderno nei confronti della morte e della sepoltura, della condizione degli immigrati, della logica perversa del profitto ad ogni costo, del senso della vita, si può se il regista risponde al nome di Eran Riklis (quello de "Il giardino di limoni" e "La sposa siriana") e il film è "Il responsabile delle risorse umane".
La cinematografia israeliana non ha una lunga e consolidata tradizione, anzi è piuttosto recente e per questo spesso risulta giovane e frizzante; a differenza della letteratura che invece ha una storia molto più radicata e universalmente riconosciuta e che spesso offre al cinema idee e storie.
In questo caso Riklis (giovane e affermato regista israeliano, nato a Gerusalemme e cresciuto fra gli Stati Uniti e il Canada, forse il miglior autore contemporaneo del suo paese) si ispira allo scrittore Abraham B. Yehoshua e traduce per immagini un suo romanzo dallo stesso titolo, di cui fa propria una costante della sua narrativa, conservandone i toni tra il quieto e il malinconico, come tra il tragico e il nonsenso, che si celano tra le pieghe delle sue pagine.
Protagonista del film (come del romanzo) è il Responsabile delle risorse umane del più grande panificio di Gerusalemme (di cui non conosceremo il nome, come non lo conosceremo degli altri protagonisti che girano attorno alla storia, tutti indicati con la professione svolta o con il ruolo sociale ricoperto, ad eccezione della donna vittima dell'attentato, da cui la storia si dipana, quasi un risarcimento postumo o una tardiva restituzione di dignità). Suo compito dovrebbe essere quello di selezionare il personale, per poi diventarne il portavoce presso la dirigenza dell'azienda. Dovrebbe perciò tenere stretti contatti con tutti i propri dipendenti, conoscerli uno per uno e farsi carico dei loro problemi e delle loro istanze.
Succede però che una delle vittime di un attentato kamikaze di carattere politico, che scuote il mercato nel cuore della città, sia una rumena immigrata e priva di documenti.
Il cadavere della donna senza nome resta, quindi, all'obitorio per diversi giorni, senza che nessuno ne reclami la restituzione. Da un frammento di busta paga del mese, che la sconosciuta aveva con sé, si scopre che la donna si chiama(va) Yulia ed era una delle dipendenti del grande panificio, dove nessuno si è accorto della sua scomparsa, né tantomeno il Responsabile delle risorse umane, che proprio non si ricorda di lei e perciò non si è preoccupato per la sua prolungata assenza dal posto di lavoro.
Un giornalista d'assalto di un giornale pseudoprogressista di Gerusalemme, in vena di scoop, si impadronisce della notizia e comincia a scrivere una serie di articoli, in cui denuncia ai suoi lettori la profonda indifferenza e il trattamento disumano a cui vengono sottoposti gli addetti del grande panificio, soprattutto se stranieri e immigrati clandestini.
Quando la spinosa notizia dell'operaia morta e dimenticata dall'azienda diviene di dominio pubblico, la "vedova" proprietaria dell'azienda stessa, cerca con ogni mezzo di ovviare all'inconveniente e, per recuperare un po' dell'immagine perduta, assegna al Responsabile delle risorse umane l'incarico di farsi consegnare il cadavere e accompagnare la salma in Romania, per consegnarla ai suoi familiari che provvederanno, a spese dell'azienda, a darle una dignitosa sepoltura, cercando così di scaricare su di lui le responsabilità e farne il capro espiatorio mediatico.
Comincia così per l'uomo una kafkiana avventura "on the road", straniante ma assoluta, senza cognizione alcuna se non il proprio deprimente stato d'animo. Un viaggio di autentica rinascita che lo porterà (lui, insofferente e distratto, già in piena crisi esistenziale, con un lavoro in cui non si riconosce più, le ombre di un trascorso non proprio chiaro, un matrimonio finito male, una figlia che quasi non gli rivolge la parola e una vita da ospite in un grande albergo) a fare un bilancio del proprio passato e ritrovare se stesso e la forza della sua anima, per riconciliarsi con il suo mondo e scoprire il vero senso della vita.
Con il suo stile sommessamente ironico, il regista imbastisce così un rocambolesco viaggio attraverso una fredda e desolata Romania (terra ai confini del nulla, "né a occidente, né a oriente"), alla ricerca di un qualche parente a cui consegnare la salma.
Appena arrivato a Bucarest, però, la situazione si capovolge completamente e la storia da drammatica si fa umoristica. Perché il marito nel frattempo ha chiesto il divorzio e non ne vuol sapere di occuparsi della salma dell'ex moglie, il figlio è ancora minorenne e non può firmare l'atto di morte, non resta quindi che proseguire il viaggio per cercare di consegnare la salma alla vecchia madre di Yulia, che però vive in uno sperduto villaggio lontano parecchie miglia da Bucarest.
Deciso però a portare a termine la missione (accettata suo malgrado e per puro senso del dovere, ma che nel frattempo è diventata un punto di orgoglio personale e successivamente un modo per purificarsi, capire i suoi errori e intraprendere un nuovo cammino per il futuro) il Responsabile si mette in viaggio verso il villaggio della madre, sfidando imprevisti e bufere di neve.
Lo accompagnano in questa straniante traversata il giornalista soprannominato "il serpente" (un povero ometto che maschera la sottomissione alla mamma dietro manie giustizialiste alquanto discutibili) e un microcosmo di personaggi al limite dell'incredibile: il figlio della defunta, un adolescente problematico solitario e un po' "selvaggio"; il marito, un uomo irresponsabile e poco paterno; la rubiconda ed eccentrica console israeliana in terra romena e il suo ingombrante marito abile solo nell'arte di arrangiarsi e un autista incallito ubriacone alla guida di uno scassatissimo furgone mortuario di proprietà del consolato, attraverso le lande ghiacciate e depresse del centro Europa.
Nel corso del picaresco e avventuroso viaggio, tra intemperie e tempeste e neve, la scalcinata compagnia incorrerà in mille disavventure (il furgone mortuario collasserà definitivamente e il viaggio potrà proseguire solo grazie ad un cingolato prestato da un gruppo di soldati in servizio presso un bunker antiatomico semiabbandonato, metafora non molto velata del fatto che entrambi i mezzi sono portatori di morte), ma intraprenderà un plurimo percorso di rinascita spirituale, che passa anche attraverso la presa di coscienza delle ragioni dell'altro e la riparazione del danno fatto anche senza volerlo (come prescrive la Torah).
E così, come in altri precedenti lavori, il regista israeliano trae un'opera in cui la sfera privata si fonde con il contesto sociale in un simbolismo tipicamente ebreo, che fa di ogni colpa, anche piccola, la metafora delle inquietudini d'Israele e delle sue difficoltà politiche e religiose (visti con l'occhio dell'ironia), considerato che la città di partenza è quella Gerusalemme, culla di diverse fedi religiose e di un interminabile conflitto etnico, che ne fanno il crocevia del mondo.
La forza (e il fascino) del film risiede nell'assurdo di una situazione che, partendo da un incipit drammatico e tragico, si fa via via sempre più bizzarra e improbabile, in cui non si fa fatica però a riconoscere alcuni temi tanto cari alla cinematografia di Riklis, a cominciare dalla condizione degli immigrati che la nostra società spesso relega in una situazione di umiliante subalternità, oppure segrega nella solitudine dell'astrattezza sociale.
Non dimentica neppure di accennare all'indifferenza e al cinismo che vivificano la società attuale e che si spingono oltre il cinismo e l'indifferenza delle aziende per puntare verso il cinismo e l'indifferenza che animano ciascuno di noi quando ci veniamo a trovare a contatto con una realtà che ci è estranea o non ci compete. Rimangono sullo sfondo altri importanti temi sociali, tanto cari a Riklis, come:
- la drammaticità del lungo conflitto arabo-israeliano, riconducibile all'attentato da cui prende avvio la storia;
- il disincanto della realtà;
- il viaggio come metafora della diaspora ebrea;
- la disumanità del sistema produttivo e l'impotenza dell'individuo di fronte al sistema strutturato;
- l'assurdo delle questioni etniche, religiose, sociali, linguistiche che condizionano il vivere civile.
Ma il vero tema del film (pluripremiato in patria, vincitore del premio del pubblico all'ultimo festival di Locarno e candidato di Israele agli Oscar 2010), nel "racconto di un viaggio con la morte per esplorare la vita", rimane pur sempre la ricerca di quel fondo di ineluttabile e indefinibile indulgenza che c'è nell'essere umano.
A dare efficacia ed intensità al racconto contribuiscono le perfette interpretazioni degli attori protagonisti, tutti molto validi e misurati, a cominciare dal bravo Mark Ivanir (attore di origini ucraine, già visto in "Schindler's List" e "The Terminal") che dà corpo e voce (nell'edizione originale) al rigido e ingessato dirigente, stracolmo di problemi personali che a poco a poco, complice una purificatrice intossicazione alimentare da cui ne esce ripulito nel corpo e rigenerato nello spirito, si trasforma in un'altra persona pronta ad affrontare una nuova stagione della vita.
Il giovanissimo Noah Silver interpreta, con toccante veridicità il figlio arrabbiato e ribelle ma bisognoso d'affetto della povera Yulia, forse il personaggio più toccante di una vicenda "bizzarra, ma non bizzarra divertente, ma bizzarra triste" come dice "il serpente" ad un certo punto del viaggio.
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Recensione a cura di Mimmot - aggiornata al 10/01/2011 12.09.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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