Voto Visitatori: | 7,90 / 10 (187 voti) | Grafico | |
Voto Recensore: | 7,50 / 10 | ||
Il premio oscar Giuseppe Tornatore ritorna dietro alla macchina da presa dopo un'assenza durata sei anni. Questa volta ci racconta una storia dura, cupa e violenta, ma intrisa di una malinconica indulgenza. "La Sconosciuta", contrariamente a quanto asserito da certa parte della critica che lo ha definito un thriller o un noir, è un film drammatico che affronta tematiche di mali umani e sociali.
Si consiglia la lettura di quanto segue solo a chi abbia visto il film, poiché è inevitabile per una corretta analisi rivelare alcuni dei suoi principali colpi di scena.
Il film può essere suddiviso in quattro parti, ognuna delle quali presenta tematiche e scelte di regia differenti. Queste, in alcuni casi, sono differenze sottili, in altri invece sono così eclatanti da creare sconcerto.
L'incipit è folgorante.
Su uno sfondo nero si ode il fischio di un treno, poi la scena si apre all'interno di un enorme edificio scalcinato in cui tre donne in mutandine e reggiseno, con i tacchi alti e i volti protetti da delle maschere, sono esaminate da personaggi che si nascondo dietro una parete e le osservano attraverso degli spioncini a forma di occhio.
Alle prime tre ne seguono altre tre. Intanto la sequenza viene spezzata e si assiste al passaggio di un treno a bordo del quale sta viaggiando una sconosciuta (Xenia Rappoport ). Fra le tre donne ne viene scelta una soltanto. Quando resta sola, le ordinano di spogliarsi completamente fatta eccezione della maschera. Una volta congedata, la donna si reca in uno spogliatoio per rivestirsi e liberandosi della maschera si rivela la stessa sconosciuta che vediamo viaggiare in treno.
Questo inizio, che richiama da vicino sia concettualmente sia visivamente alcuni momenti dell'orgia di "Eyes Wide Shut", è cupo, misterioso e carico di promesse. Si perde volutamente il lato più erotico del film di Kubrick e se ne accentua quello dell'oggettualizzazione commerciale della donna, che si riduce ad un corpo soggetto a valutazioni qualitative e finalizzato alla forma d'uso che più aggrada all'acquirente.
La prima parte del film c'introduce la nostra sconosciuta, una donna ucraina appena giunta a Velarchi (città inesistente di cui parleremo più avanti) con lo scopo apparente di cercare lavoro, ma con quello recondito d'introdursi nella vita di una famiglia di orafi. Si chiama Irena, ha molti soldi e un passato oscuro fatto di sadismo e di brutalità che il regista ci narra attraverso rapidissimi flashback, che mettono in relazione d'analogia gli accadimenti attuali e quelli passati. Esemplificativa in tal senso è la sequenza in cui la donna viene perquisita alla cassa di un supermercato, dopo che l'allarme è scattato a causa di un guasto.
In questo primo capitolo, i cui confini cronologici coincidono con l'arrivo d'Irena in città e con la sua assunzione come domestica in casa Adacher, Giuseppe Tornatore ci regala una regia magistrale e di forte impatto visivo, eccellente sia sotto il profilo narrativo, che cattura l'attenzione dello spettatore facendo leva sulla sua curiosità e creando sapientemente un alone di mistero tanto sul passato quanto sulle intenzioni della protagonista, sia sotto il profilo tecnico. Tornatore gioca con le luci e con le ombre, con gli spazi chiusi e con le prospettive. L'oscurità e il nero, che essa produce, regnano sovrani.
In alcune sequenze la scala elicoidale del palazzo in cui vive la famiglia Adacher, diventa protagonista assoluta. Essa viene inquadrata dall'interno della sua tromba mentre la cinepresa sale allontanandosi da quel pavimento chiaro, adornato da una rosa dei venti dorata, in contrasto con i gradini di marmo scuro e screziato. In altri momenti viene ripresa dal basso, con la cinepresa che si allontana scendendo sempre più giù e trasformando il corrimano in una siepe che nasconde alla vista tutto quello che c'è al di là. La regia esalta la sinuosa morbidezza delle sue curve e la trasforma in metafora del percorso, anch'esso morbido e sinuoso, che conduce Irena nella vita degli Adacher.
Infatti è proprio grazie alla scala elicoidale che la sconosciuta si libera della domestica di fiducia della famiglia per prenderne il posto. Ed è sempre sui gradini di quella scala che Irena, seminascosta nell'ombra, viene notata dalla signora Adacher (Claudia Gerini) in mezzo a tutte le altre aspiranti al posto di domestica. Quella scala diviene una spirale che trascina con sé tutta la vicenda e tutte le vite che restano imprigionate nelle sue curve voluttuose.
In questo primo capitolo del film sono anche eccellenti alcune scene simboliche come quella dei soldi che, nascosti fra le travi instabili del soffitto, piovono sulla protagonista e come quella che, alternandosi ai flashback in cui Irena si aggira in un'enorme discarica, vede la sconosciuta frugare nella spazzatura degli Adacher per scoprire i loro gusti e il loro stile di vita.
La seconda parte comincia con l'assunzione di Irena e si conclude con la comparsa de "l'uomo col giornale". Qui Tornatore abbandona le atmosfere più cupe, inquietanti e misteriose del primo capitolo e si concentra maggiormente sui personaggi e sulla loro caratterizzazione.
Si introduce il personaggio di Tea (Clara Dossena), la figlia dei coniugi Adacher. È un bambina di quattro anni affetta da una singolare patologia che le inibisce i riflessi istintivi di difesa e di auto protezione. Qui i dialoghi diventano più eloquenti e hanno il sopravvento sulle immagini. Ci raccontano la psicologia dei personaggi e parte della loro storia. Anche i flashback del passato di Irena sono meno frammentari e più lunghi. Tassello dopo tassello sembrano rivelarci le sue intenzioni e le sue motivazioni.
La regia si concentra maggiormente sui particolari. I singoli oggetti inanimati vengono quasi sezionati dalla macchina da presa e attraverso le loro caratteristiche si scopre qualcosa in più sui personaggi. Tornatore abbandona, anche se non completamente, quei virtuosismi, che hanno così ben valorizzato la prima parte del film, e si dedica ad una più accurata direzione degli attori.
Egli aveva già dimostrato in passato una grande capacità nel dirigere i bambini e qui la riconferma costruendo a meraviglia il personaggio di Tea e valorizzando nel migliore dei modi le intense capacità espressive della piccola Clara Dossena.
Tutto questo capitolo è incentrato sulla costruzione del rapporto fra Irena e Tea. Intanto lo spettatore apprende sempre più sui trascorsi della sconosciuta e il suo passato comincia ritornare sotto forma di telefonate anonime e di atti vandalici. Le atmosfere cupe del capitolo precedente cedono il passo ad una violenza sempre più diretta e manifesta. Flashback di sesso estremo, in cui vediamo donne appese a testa in giù e frustate, ed altre sequenze di bondage e dominazione si alternano all'addestramento similpedagogico che Irena impone a Tea come iniziazione alla vita.
La violenza culmina in due sequenze, una del presente e una del passato. Crudo e doloroso è il pestaggio che la sconosciuta subisce dai due uomini camuffati da babbo natale; più cruento e liberatorio è il flashback in cui Irena crivella con un paio di forbici il corpo nudo, sudato e glabro di Muffa (Michele Placido), il prosseneta che la teneva alla stregua di una schiava. Durante tutto questo secondo capitolo, e specialmente nelle due scene sopraccitate, vengono meno quei giochi di luce ed ombra che nella prima parte esaltavano così bene tanto gli occhi e la capacità espressiva della Rappoport, quanto la minacciosa impenetrabilità di una città e di una vita che non appartenendo alla protagonista sembrano volerla respingere.
I colori assurgono al ruolo di protagonisti assoluti e fra essi trionfa il rosso, che perde la sua connotazione di vitalità e diventa presagio di morte. Lo scorgiamo nelle fragole, che tanto piacciono a Irena e che le ricordano del suo perduto amore; lo ritroviamo nei suoi abiti dei tempi passati, così diversi e in contrasto con quelli indossati nella fredda città del nord; si manifesta come simbolo di vanità nelle scarpe dal tacco a spillo che Muffa le regala; diviene più cupo e minaccioso, in antitesti al bianco della neve che cade dolcemente, negli abiti dei due babbo natale; infine brilla di un'agghiacciante freddezza sul volto d'Irena, incorniciato da capelli biondo ossigenato che ne esaltano il contrasto cromatico, quando esso è ricoperto dal sangue di Muffa.
Il terzo capitolo coincide con la "risurrezione" di Michele Placido e termina con la sua definitiva scomparsa.
Questa è la prima e forse unica sbandata di Tornatore, ma è una sbandata macroscopica. La regia, ad eccezione di una sola pregevole sequenza, diviene didascalica e manieristica. La sceneggiatura appare frettolosa e portata avanti senza la dovuta cura. Durante questo terzo capitolo, dominato da un inquietante Miche Placido, troppi nodi vengono al pettine, troppe spiegazioni vengono fornite, troppi eventi appaiono come il risultato di inutili forzature. Alla fine resta solo una domanda, valida sia sotto il profilo narrativo, sia sotto quello artistico: ce n'era davvero bisogno?
Come accennato una sola sequenza dà valore a questa terza parte. Irena entra, armata di coltello, nell'appartamento che ha deciso di abbandonare. Viene sopraffatta da Muffa, ma l'incontro-scontro viene interrotto dall'entrata in scena di Claudia Gerini. Quando tutti e tre i personaggi si trovano all'interno dell'appartamento e Muffa cerca di nascondersi alla vista della signora Adacher, Tornatore muove la macchina da presa all'interno del corridoio d'ingresso e di due stanze contrapposte, trasformando quegli spazi angusti in un labirinto e regalandoci campi ravvicinati e medi in costante antitesi.
Appare evidente che la risurrezione e il successivo annientamento di Muffa, vuole simboleggiare il passato che perseguita Irena e alla fine la sua liberazione. Tuttavia questo espediente, già visto e rivisto, è decisamente logoro ed esausto. Si può pensare che esso impoverisca anziché arricchire la pellicola declassandola da un film che avrebbe potuto assurgere a capolavoro ad un buon prodotto che pecca di una certa routine.
Nel quarto e ultimo capitolo Tornatore ritrova la strada perduta e ci regala alcune emozioni illuminate da un barlume di speranza. La regia ormai ha perduto totalmente i virtuosismi visivi e stilistici delle prime due parti, ma si dimostra assai superiore al manierismo del terzo capitolo.
Purtroppo anche qui sono troppe le spiegazioni fornite ed alcune incongruenze. I flashback ormai non sono più frammenti inquietanti e simbolo del tormento interiore della protagonista, ma semplice racconto e resoconto dell'accaduto.
Ci troviamo ancora di fronte ad una caduta di tono rispetto alla prima ora di film, tuttavia anche la conclusione resta più che apprezzabile nonostante disattenda le enormi promesse fatte.
Nonostante che i personaggi siano tutti ben curati e ben rappresentati, il film è diretto in maniera sinottica. Dal principio fino alla fine, Tornatore si schiera dalla parte di Irena e riesce a trascinare con sé il pubblico.
Irena è certamente una donna che ha subito violenze fisiche e psicologiche crudeli, tuttavia in linea teorica è difficile difenderla a spada tratta. Se ben si analizza la vicenda, il suo passato non è una giustificazione sufficiente alla sua condotta. La sconosciuta s'insinua con artefici e inganni in seno ad una famiglia. Per ottenere il lavoro cerca di uccidere la domestica degli Adacher, riducendola invece su una sedia a rotelle e in stato vegetativo. Irena sa di essere braccata, ma continua a portare avanti il suo progetto trascinando il proprio inferno personale all'interno di una famiglia, che solo poi, si rivelerà completamente innocente. È a causa d'Irena che la signora Adacher viene uccisa e che la piccola Tea si ritrova senza madre e con un padre che già in precedenza ha dimostrato di trascurarla. Lei sapeva bene quali guai avrebbe potuto arrecare a quella bambina che credeva essere sua figlia. Lo dimostra il fatto che quando Tea si nasconde, Irena teme che sia stata rapita dall'uomo col giornale.
Inoltre Tornatore sceglie di rivelare che Irena è arrivata dagli Adacher quasi per un beffardo scherzo del destino. Ciò ovviamente non ha importanza, perché Irena è una donna che è caduta in basso e che ha continuato a cadere. Le sue sole speranze di salvezza e di redenzione da una vita infernale le vengono sottratte dalla cattiveria dell'uomo. Ma lei è una donna forte e determinata. È una donna che quando cade fa di tutto per rialzarsi, anche aggrapparsi a una falsa verità che sia in grado di restituirle uno scopo e una speranza di riscatto.
Per questo Irena vuole insegnare alla piccola Tea che, quando si cade, bisogna sempre rialzarsi, che non si deve porgere l'altra guancia, ma che ci si deve difendere aggredendo. Per fare ciò la lega e la spintona. Al di là del discutibile mezzo pedagogico, appare strano che una donna che è stata legata e lasciata cadere faccia a terra per poi essere brutalmente posseduta, perpetri una tortura similare, per quanto edulcorata, a sua figlia. Questo, tuttavia, non stona né con la trama né con il personaggio di Irena. E soprattutto non stona con Giuseppe Tornatore che spesso ha abbracciato il verismo. Ha ben detto chi ha paragonato quelle sequenza alla novella "Rosso Malpelo" di Giovanni Verga, in cui si legge di un'iniziazione praticamente identica. E non deve meravigliare neppure il comportamento complessivo d'Irena che si può riassumere in una frase che lei recita alla piccola:
"Quando non sai chi è stato, prenditela col primo che capita, ma non prendertela mai con te stessa".
Xenia Rappoport, attrice teatrale russa, incarna magnificamente il proprio personaggio e ci offre un'interpretazione intensa e commovente. Sempre in bilico fra una forte passionalità ed una sottile ambiguità.
Personaggio quasi antitetico ad Irena è la signora Adacher. Ella ci viene presentata attraverso gli occhi della sconosciuta. Tornatore, con sottile abilità, la fa risultare antipatica, quasi odiosa, quando invece era una donna che non aveva fatto niente di male e che si trova a pagare con la vita delle colpe che non sono sue.
Molto buona la prova di Claudia Gerini, che con piccoli cambiamenti espressivi, ammiccamenti, mutamento di sguardi, ci offre un'interpretazione intensa e convincente. Le emozioni che prova il suo personaggio investono direttamente lo spettatore, che però, a causa delle scelte del regista, non può comprenderli in tutta la loro pienezza e non ne è compartecipe.
Tornatore ci racconta una storia al femminile, in cui non si scorge un solo personaggio maschile con connotazione positiva. Il primo uomo che Irena incontra è il portiere interpretato da Alessandro Haber. Un piccolo vigliacco sfruttatore che, se non ricattato, non aiuterebbe la protagonista neppure quando la vede pestata a sangue.
Il secondo è il signor Adacher, interpretato da un Pierfrancesco Favino, anonimo e sottotono. Si tratta di un uomo che trascura la figlia e che litiga con la moglie, urlandole contro insulti pesanti, mentre la bambina origlia dietro la porta e piange in silenzio. Il terzo e peggiore è Muffa perfettamente interpretato da un eccellente Michele Placido, che per questo ruolo si è fatto completamente depilare divenendo quasi irriconoscibile. Muffa è un sadico e violento sfruttatore. Un assassino dal temperamento crudele, ma fondamentalmente stupido.
L'ostinazione con cui Tornatore ha voluto far risuscitare questo personaggio, che forse sarebbe stato meglio se rilegato solo nel passato e nei ricordi della protagonista, è probabilmente la causa dell'impoverimento della storia e del film. Oltretutto si dimostra un criminale disorientato e confuso. Al di là di alcuni labili fini narrativi, l'omicidio della signora Adacher si rivela insensato e gratuito. Se poi il vero scopo di Muffa è quello di recuperare il denaro sottrattogli e quindi vendicarsi di Irena, non hanno senso tutti i prodromi della sua collera, come il pestaggio. Tutto avrebbe avuto maggior senso se fosse stato posto in atto da qualcuno che voleva vendicare la morte di Muffa, non da lui stesso inspiegabilmente redivivo.
Buone anche le interpretazioni di Margherita Buy nel ruolo dell'avvocato difensore e quella di Angela Molina nella parte della ruffiana. Eccellente l'esordio della piccola Clara Dossena.
Il ritmo della narrazione è serrato, ansiogeno e violento. Le eccellenti musiche composte da Ennio Morricone arricchiscono le atmosfere di tensione, di ulteriore violenza o anche di dolcezza. Esse accompagnano la macchina da presa lungo la spirale della scala elicoidale creando mistero, danno spessore al buio che domina tutta la prima parte del film. Durante alcuni flashback esse rompono il silenzio con stridori acuti che trasmettono il senso di un passato che dilania l'anima come una ferita aperta ed insanabile.
"La Sconosciuta" è stato girato a Trieste, ma la vicenda è ambientata nell'immaginaria Velarchi, una città di orafi in provincia di Treviso. Forse la scelta di cambiare nome alla città deriva dal fatto che Tornatore narra una Velarchi cupa ed austera, senza mare e senza luminosità. Un città europea fredda ed impenetrabile che si trova in pieno contrasto con i luoghi solari (forse la Sicilia?) ricchi di colori e di vitalità, in cui è vissuta precedentemente Irena. Il fatto che si tratti di una città immaginaria potrebbe anche suggerire che essa sia la concreta trasposizione del travaglio interiore della protagonista, la proiezione del suo inferno personale.
Il ricorso continuo ai flashback è interessante, ma non sempre realizzato ai livelli che ci aspetteremmo dal regista. Sono belle ed inquietanti le immagini più torbide e fulminanti come il corpo nudo e legato di Irena che cade battendo la faccia contro il pavimento. È molto ben realizzato il continuo parallelismo fra eventi del presente ed eventi del passato come indice della percezione della realtà della donna e come strumento d'indagine psicologica. Meno convincenti sono invece i flashback più lunghi ed esplicativi che alla fine sembrano un modo pratico, ma pigro, del regista di raccontare la storia.
Una menzione particolare merita l'ultima parte del film. In essa scopriamo che è stato il caso, la pura fatalità aiutata dalla stupidità e dalla malvagità umana, a scatenare tutto quello che è accaduto nelle precedenti due ore. Un medaglione si rivela la chiave di un mistero e una menzogna pronunciata con cattiveria si è trasformata nello scopo di un'esistenza e nella speranza di redenzione di una donna.
Oltre a questo emerge un'altra tematica, sempre presente nelle pellicole di Tornatore, ma sempre sussurrata e mai troppo evidente. Ci si riferisce al ruolo dello Stato e delle sue Istituzioni che non hanno mai un valore salvifico né alcuna utilità sociale, bensì si manifestano come organi autarchici dal potere schiacciante, personificati da uomini senza spessore psicologico. Una concezione quasi kafkiana, ma, purtroppo, terribilmente vera ed attuale.
Dov'era la Repubblica Italiana con tutte le sue splendide leggi, con tutti i suoi integerrimi magistrati e con tutte le sue belle forze di polizia, quando Irena veniva torturata, seviziata, prostituita anche quando in stato interessante, oltraggiata, umiliata e brutalizzata? Dov'erano le Istituzioni quando il suo solo vero amore veniva assassinato e gettato in una discarica? Dov'erano quando i suoi figli le venivano sottratti e venduti al miglior offerente?
Tuttavia c'erano per indagare contro di lei con prove ridicole e palesemente contraffatte, accusandola di un delitto di cui non è responsabile. C'erano quando Irena ha ucciso Muffa! E c'erano ancora per punirla per fatti che, sì è vero, lei ha commesso. Fatti però che, se le Istituzioni fossero state presenti ed adempienti, non sarebbero mai accaduti. Indubbiamente la società in generale e gli Organi Statali come rappresentazione di detta società non ne escono affatto bene. Che sia anche questa una delle ragioni per cui Giuseppe Tornatore è un autore spesso inviso in patria o eccessivamente criticato? (Forse è superfluo ricordare il buonismo che domina le fiction di produzione italiana, in cui lo Stato e le Forze dell'Ordine sono sempre, o quasi, irreprensibili).
Parte della critica ha definito "La Sconosciuta" un film minore di Giuseppe Tornatore. Altri lo hanno paragonato a "Una Pura Formalità".
Si tratta di affermazioni che non ci sentiamo di abbracciare né di condividere. Chi scrive reputa che "Una Pura Formalità", sia un capolavoro e, a tutt'oggi, resti il miglior film della carriera cinematografica di Tornatore. Esso inoltre ha ben poco a che vedere con la pellicola che stiamo esaminando.
Non vi sono attinenze narrative; i dialoghi della pellicola del 1994 hanno un ruolo dominante rispetto alle immagini e sono assai più complessi; le scelte di regia sono manifestamente differenti.
Non si può nemmeno dire che "La Sconosciuta" sia un film minore. La ragione di tale definizione forse va ricercata in quella radicata ideologia che tende ad inquadrare tutto ciò, che ha tematiche o ritmi degni di un thriller o di un noir, come una specie di sottoprodotto, indegno della qualifica di culturale. È opinione di chi scrive che "La Sconosciuta" sia il frutto di un progetto assai ambizioso che avrebbe potuto assurgere a capolavoro. Purtroppo la pellicola disattende alcune delle promesse fatte e presenta delle cadute di stile e alcuni infelici passaggi narrativi, che con una maggior lungimiranza avrebbero potuto essere evitati.
Resta il fatto che si tratta di un pregevolissimo film realizzato da uno dei più abili e sensibili artisti italiani, dotato di una singolare attitudine nel dirigere gli attori e capace di realizzare immagini visivamente seducenti. La storia narrata è dura e, ad eccezione di alcuni deboli passaggi, scevra della solita insopportabile retorica buonista. Il cast artistico e quello tecnico sono di ottimo livello. Definirlo dunque un film minore risulta, se non altro, improprio. È bello vedere che in Italia vengano prodotti film di questa levatura. Se ne caldeggia vivamente la visione, con l'auspicio che questo giudizio possa essere condiviso.
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Recensione a cura di Carlo Baldacci Carli - aggiornata al 08/11/2006
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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