Recensione mariti regia di John Cassavetes USA 1970
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Recensione mariti (1970)

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locandina del film MARITI

Immagine tratta dal film MARITI

Immagine tratta dal film MARITI

Immagine tratta dal film MARITI

Immagine tratta dal film MARITI

Immagine tratta dal film MARITI
 

La vocazione a sentire l'umanità, a comprenderla, a coglierla in tutta la sua moltitudine di comportamenti ed espressioni: è qui, da questo impegno semplice ma non facile, che trova scopo e forma il cinema sperimentale di Cassavetes, convinto della spontaneità che sta dentro la recitazione e che la vita, quando anche posta davanti a una telecamera, non smetta mai di manifestarsi autonomamente.
A ciò si dedica, con anima e corpo, e da ciò intanto si tiene in disparte; poiché per sua stessa definizione, il regista non conta quasi nulla, non almeno più di qualunque altro: ciò che importa, ci dice, sono i personaggi, anzi le persone, e le loro storie.

"Ombre", "Volti", "Mariti", già nella scelta dei titoli di alcune delle prime opere, tanto essenziali e generici, è suggerita l'idea di un'arte che vuole appartenere a tutti, verace e sensibilmente attenta alla dimensione quotidiana.

E' sostanzialmente un realismo, quello che propone Cassavetes, eppure molto diverso dal Neorealismo italiano ed europeo degli anni '40 e '50: un realismo il cui intento non è più quello di riprodurre la realtà umana, ma di osservarla riprodursi da sé, nel suo ordinario svolgersi, o talvolta incoraggiandone l'esibizionismo. Piuttosto, è una concezione che si potrebbe accostare a quella che contemporaneamente andava sperimentando Andy Warhol, altro statunitense indipendente, anch'egli lontanissimo dai meccanismi dell'industria cinematografica hollywoodiana.
Se non quella fissità estenuante delle inquadrature, ritroviamo in Cassavetes una simile insistenza della cinepresa, più atta a pedinare che non a fissare, contrariamente attenta a non fare avvertire la sua presenza, ma in egual modo interessata al concetto d'improvvisazione, sempre finalizzato alla ricerca di una nuova autenticità e forse anche dettato da un gusto, quello per la musica jazz, spesso presente nei suoi film.

Parenti, amici del regista sono chiamati a recitare (o non recitare) - come per Warhol i compagni della Factory - dando vita a un cinema familiare, non certo familistico. Tutt'altro. Con "Volti" Cassavetes cominciava un'ideale trilogia sul disamore e la crisi matrimoniale, che prosegue con "Mariti" e si concluderà con "Una moglie". Gli ultimi due citati verranno a costituire un ulteriore approfondimento del primo, l'uno dell'universo maschile e l'altro di quello femminile.
La sequenza finale di "Volti" si fissava davanti alla scala in penombra di un appartamento. I due coniugi, le loro storie separate, vi s'incontravano urtandosi, dunque evitandosi, lui scendeva, lei saliva, poi viceversa. In "Una moglie", attorno a una casalinga depressa (una straordinaria Gena Rowlands, la vera moglie del regista), si annuvoleranno in cerchio i familiari, a lei stretti i suoi bambini.
Disperata, a cosa si assorge? Chi aspetta quella moglie?

"Mariti". Il film si apre con una serie di fotografie che immortalano quattro amici. Stanno a torso nudo, bevono birra, mostrano i bicipiti.
Uno di loro è appena morto. I tre rimasti si trovano al suo funerale. L'orazione funebre del prete parla appunto di amicizia. S'intravedono i figli, in mezzo ad altri volti. Harry (Ben Gazzara) abbraccia la vedova.

Quell'avvenimento innesca nei tre (un dentista, un pubblicitario, un giornalista) un desiderio urgente di libertà, di risorgere immediatamente da quel lutto, di fuggire dalla prigione d'obblighi e di responsabilità che istituiscono la famiglia, la società, le loro professioni. "Nessuno è mai morto di vita", dice Archie (Peter Falk) agli altri.
La morte dell'amico li ha trovati spenti, confusi nella New York di fine anni '60, non più giovanissimi. Poteva capitare a chiunque di loro. Decidono di dare allora inizio a un'ininterrotta e incondizionata uscita tra uomini, trovando nell'amicizia virile forse l'unico rifugio possibile. Giocano a basket, si tuffano in piscina, si ubriacano, vagabondano, si spintonano per strada, non si lavano, non dormono né rincasano per giorni.
Cassavetes segue in maniera quasi documentaristica i loro bagordi, allegri e patetici tra i luoghi metropolitani. Li filma per ore in cerca di attimi da fotografare. Opera primissimi piani ai volti, che scorre; ne sorprende travolta un'espressione spontanea e irripetibile, reazioni che si accumulano. Risa isteriche, scatti nervosi, grida, pianti, battute, frasi insignificanti, litigi, piccoli ragionamenti; come già nei film precedenti, quasi sempre i personaggi sono colti in scorci di vita sociale, in un continuo relazionarsi con gli altri. Li pedina e si pedina: il regista va, siede con loro, partecipa in prima persona vestendo i panni di Gus, se stesso, uno dei mariti. Non altera il sonoro registrato in presa diretta, né aggiunge musica in sottofondo. Addirittura in un paio di riprese in strada, tra gli sguardi incuriositi dei passanti, sembra di assistere a una candid camera.

I protagonisti non sono attori non professionisti. Anzi sono interpreti di primo livello. Serve al film la loro capacità d'improvvisare, il loro estro recitativo; l'attrattiva di "Mariti" si sa reggere soprattutto sulla forte personalità dei suoi tre attori principali.

La versione italiana, ridotta di 60 dei 154 minuti complessivi di quella originale, se da un lato può agevolare (forse) la fruibilità dell'opera, ne sminuisce talvolta la carica emotiva che viene a crearsi nella durata.
C'è una sequenza in cui i tre compagni si trovano seduti in un locale buio a bere birra con altre persone. A turno intonano una canzone. Quando viene la volta di una donna di mezza età, questa è dileggiata crudelmente, umiliata e baciata dai tre amici ubriachi, che si dicono insoddisfatti della sua esibizione dovutasi ripetere più volte. Segue la performance di un uomo che invece applaudono e dichiarano il vincitore della sfida. I tagli subiti non restituiscono l'identico clima pesante tra le risa e i boccali. Una forte tensione attraversa quella tavolata. Il brano, visivamente cupo, illuminato appena dall'ambra delle birre, s'imbeve di quella misoginia che sfiorerà tutto il film. E' come se la breve competizione inventata al momento e risolta arbitrariamente, bastasse da sola a sancire la superiorità dell'uomo in gruppo nei confronti della donna. E' come se il cantare o lo scherzare bastassero.

Ribelli tardivi, debosciati, poco credibili e a tal punto che guardandosi in faccia ridono l'un dell'altro, i tre discutono delle loro vite nei bagni del locale. Archie vomita. In quell'ambiente non proprio nobile, mossi da un penoso e immaturo orgoglio, cercano qualche risposta ai propri guai, intanto che smaltiscono la sbronza.
Harry è il più carismatico del gruppo, Gus il meno convinto, Archie il più fragile.
Il pensiero di casa e della moglie è ancora pervasivo. Forse quella bravata non è poi libertà, se implica dei sensi di colpi, nuove e vecchie preoccupazioni che li trattengono.
E quel rimorso, quel cruccio che non si riesce ad esternare in diverso modo, si fa quindi idrofobo, violento quando Harry fa un salto a casa a darsi una rinfrescata, nelle stanze adesso luminose. Da una parte la suocera e la moglie, sorprese entrambe con una vestaglia celeste, l'uniforme casalinga, e dall'altra il marito, i suoi amici che provano a frenarne l'ira, con indosso i loro cappotti neri; danno luogo a una breve ma furibonda battaglia, che si conclude con una ritirata.
Poi la moglie, la casa, la famiglia, scompaiano nuovamente dietro i tre mariti.

Nel proseguire il film prende sempre più le tinte di una commedia divertente, ma dai risvolti amarissimi, con momenti malinconici di delicata poesia metropolitana. Vari siparietti s'aprono e si richiudono, portandosi dietro i loro curiosi personaggi.

I protagonisti, forse accortisi di gravitare ancora attorno ai propri luoghi di lavoro e alle cabine telefoniche, decidono di punto in bianco di partire. Volano in Europa. Cercano in Londra una nuova metropoli lontana e libera dai vincoli della loro New York, ma comoda, e dove non dovere rinunciare ai vizi e ai divertimenti.
Riprendono da dove avevano lasciato. Vagano, si ubriacano, fumano, scherzano, giocano al casinò, abbordano tre ragazze.

Qui, nelle stanze dove le coppie si appartano, Cassavetes trova l'occasione di descrivere altra umanità, nuove conoscenze passeggere, altri ritagli di vita colta impreparata, mettendo in luce le difficoltà di comprensione tra l'uomo e la donna, o quel senso inconsolabile di solitudine che sembra invadere entrambi i sessi, l'uno spesso causa dei dispiaceri dell'altro. I rapporti descritti sono ora frizzanti, ora teneri, ora problematici, ora freddi, ora aggressivi. Soprattutto, si affaccia in queste sequenze, per la prima volta nel film, il complesso e sensibile universo dell'animo femminile, quello da cui i mariti fuggivano.
Ma non sono affatto episodi accessori. E' a questi momenti che più si rivolge il cinema di Cassavetes. A queste camere d'albergo, teatri realistici d'incontri occasionali. Alle tavolate allegre trovate a inizio del film, tesissime e pronte ad esplodere da un momento all'altro. O ai salotti carichi d'isterismo, o alle stanze abbandonate dagli affetti e sature del vuoto.
Non però quel vuoto che si scrive con la lettera maiuscola, non di quello eterno caro ad altri artisti, ma del vuoto di ogni giorno, quello che si crea tra un pensiero e l'altro, il vuoto casalingo, il vuoto dei locali affollati e dei luoghi lavorativi, delle strade metropolitane e delle camere da letto.
Di qua i mariti e di là le mogli, invisibili, lasciate in chissà quali loro faccende e magari rese depresse come la Mabel del film successivo, magari a disagio in mezzo agli altri anche loro, o che, come Mabel, spaventate e strette ai propri bambini, sanno soltanto risplendere di luce riflessa.

A Londra i mariti hanno poi trovato quella libertà? E' muto adesso il richiamo della famiglia? Fuggite le tre ragazze, Harry ne ha pronte altrettante, altri brindisi, ancora balli... ma per gli altri la ribellione è durata anche troppo.

New York. Le sigarette al tabaccaio dell'aeroporto, un taxi, le strade deserte nel mattino. Gus e Archie si lasciano davanti a casa di Gus, con in braccio dei sacchi enormi pieni di regali da portare ai figli; teneri, impacciati, patetici come soldati di ritorno da una guerra che hanno abbandonato al fronte un loro compagno. Controllano che nei sacchi sia tutto in ordine. "Che combinerà Harry senza di noi?", grida Archie a Gus, allontanandosi.
Poi una bambina, sola, come spaesata, sbuca dal retro nel cortiletto.
Gus s'inginocchia verso la piccola che piange; dietro, l'altro figlio con la palla chiama la mamma; nel frattempo il colore dell'inquadratura si altera come a confessare, solo in occasione di quell'ultimo istante, l'appartenenza anche di questa storia, per quanto dipintaci con gli inchiostri della realtà, all'impianto della finzione cinematografica.

A cosa sta pensando Gus adesso, intanto che torna a essere padre?
Assorta, chi lo aspetta dentro casa?
Una moglie.

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Recensione a cura di Ciumi - aggiornata al 03/11/2010 10.34.00

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