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"Perché sentiamo la necessità di parlare di puttanate per sentirci a nostro agio?"
Mia Wallace a Vincent Vega
La polpa di "Pulp fiction".
Su "Pulp fiction", sin dalla sua uscita, si son scritte valanghe di parole. L'opera seconda di Quentin Tarantino - che con la conquista della palma d'oro a Cannes 1994, e un fulminante successo di pubblico, spalancò l'Olimpo del cinema al suo egocentrico autore poco più che trentenne - è stata oggetto di una sovraesposizione critica clamorosa.
Non semplicemente i detrattori del film, ma anche chi, pur apprezzandolo, ha dei dubbi sul suo status di capolavoro, può restare intimidito, o interdetto, di fronte al fenomeno che ha visto il film, così come Tarantino stesso, santificato quasi all'istante. Nel volger di poco, Tarantino è diventato cartina al tornasole di molto cinema recente. Tutto ciò che appare "post-moderno" viene, ancora oggi, filtrato attraverso Tarantino. Il citazionismo viene comparato a Tarantino, la centralità di personaggi reietti e amorali pure, così come l'empatia per essi in un contesto tendenzialmente umoristico (che ai detrattori appare segno di deliberata a-moralità, nella privazione di messaggio morale a quanto si rappresenta).
Il fenomeno è interessante perché prende le mosse da un film cui anche i detrattori riconoscono pregio stilistico, ma di cui pure i cultori tendono ad ammettere vacuità di contenuto. A parte qualche faticosa interpretazione incentrata sulla volontà di "redenzione" di Jules (il personaggio interpretato da Samuel L. Jackson), il segno (o il limite) di "Pulp fiction" (come del cinema di Tarantino tutto) viene più facilmente riconosciuto nell'esibizione compiaciuta di un violento mondo pop: divertente, fumettistico, infantilmente chiuso in se stesso, e avulso dalla realtà del mondo come un balocco.
Eppure, che l'autore di "Pulp fiction" non veicoli intenzionalmente nessuna esplicita morale di fondo non significa che, il film, un suo contenuto morale non lo possegga. Al sottoscritto "Pulp fiction" pare invece un'allegoria del nostro grado di civilizzazione, portentosa quanto iperbolica. Un'allegoria cui non è affatto estranea una visione morale, anche se forse non elaborata razionalmente da parte dell'autore. Se non risulta studiata a tavolino, tale morale appare comunque decisamente sentita.
Esiste, dunque, intorno al nocciolo costituito dalle esilissime vicende del film, una polpa morale. Il film non avvolge semplicemente in un bella scorza (lo stile) un nocciolo di vicende trite e banali (l'intreccio). Appunto, ha una sua polpa. Nelle righe che seguono, proverò a tirarla fuori.
Prima, però, partiamo dal nocciolo e dalla scorza.
Una commedia a episodi
"Pulp fiction" è sostanzialmente una commedia a episodi. Una commedia perché, oltre al tono umoristico e all'andamento brioso, ciascun episodio termina con un happy end, dopo che i protagonisti sono scampati a un grosso pericolo.
Vincent Vega e Jules (John Travolta e Samuel L. Jackson) escono miracolosamente illesi da una sparatoria. Seguendo la cronologia - non l'intreccio - del film, Vincent uccide casualmente un ostaggio la cui testa esplode nell'auto (la "situazione Bonnie"): nessuno li ferma per strada, riescono a ripulire l'auto e se stessi con il soccorso di Mr. Wolf (Harvey Keitel) presso l'abitazione di Jimmie (Quentin Tarantino), prima che faccia rientro a casa la moglie di quest'ultimo (il che condurrebbe Jimmie al divorzio: ma anche Jimmie scampa a questo rischio).
Mia Wallace (Uma Thurman) si salva da una overdose (il che, soprattutto, evita a Vincent una terribile punizione da parte di Marcellus Wallace).
Vincent e Jules, grazie al sangue freddo e alla vocazione a una nuova vita di quest'ultimo, sventano una rapina in un diner, senza che nessuno si faccia un graffio.
Tutti questi episodi sono accomunati da un notevole tasso di comicità, che origina primariamente dalle circostanze, spesso buffe o ridicole, da cui l'evento drammatico è scaturito.
La vicenda parallela, e distinta, di Butch (Bruce Willis) è anch'essa caratterizzata da un happy end che segue alcuni scampati pericoli. Butch riesce a scappare dall'incontro di pugilato che ha vinto contro il volere del boss Marcellus, riesce a recuperare l'orologio del padre scampando miracolosamente al sicario Vincent (che, incidentalmente, uccide), e infine riesce a scampare a uno stupro che, in un avvitamento grottesco della vicenda, lo vede coinvolto insieme a Marcellus.
Rispetto agli episodi che vedono Vincent protagonista, la vicenda di Butch si distingue per il tono: c'è meno umorismo e più drammaticità.
E ciò sembra legarsi al fatto che Butch sia un personaggio attivo: compie alcune scelte coraggiose, e sempre viene ripagato dalla buona sorte. Diversamente, Vincent è sempre passivo: assiste perplesso all'apparente mutamento di coscienza di Jules, è impacciato e terrorizzato di fronte all'overdose di Mia, è il goffissimo responsabile della "situazione Bonnie". In quest'ottica, sembra lecito ipotizzare che non sia il caso, ma una qualche sorta di provvidenza, a decretare la sua fine per mano di Butch.
Morte e resurrezione di Vincent
Le vicende di Vincent e Butch si incrociano in due momenti soltanto. Il primo è quando Vincent passa a rapporto da Marcellus, una volta recuperata la valigetta dal misterioso contenuto. Lì incontra Butch: Vincent lo prende in giro senza esserne stato provocato, e Butch lo guarda con ferocia repressa, perché si sente colpito nell'orgoglio dal non poter replicare, essendo presente Marcellus con il quale Vincent è in ottimi rapporti. La seconda volta che i due si incontrano Butch potrà vendicarsi senza nemmeno averne avuto l'intenzione: è quando spara a Vincent, uccidendolo con la stessa arma che Vincent ha lasciato incustodita, da bravo idiota, mentre, presidiando la casa di Butch, se ne stava sulla tazza del bagno a leggere.
La morte di Vincent non sembra in alcun modo costituire un'eccezione alla regola generale per cui ogni vicenda del film termina con un happy end: appartiene alla vicenda di Butch e rimane del tutto slegata dagli episodi di Vincent. E poi, arriva talmente a sorpresa da lasciare stupefatto e divertito lo spettatore, che per Vincent non ha mai provato altri sentimenti se non quelli che si provano verso un Looney Tunes cartoon.
Vincent, del resto, ricompare, vivo, di lì a poco.
E' cosa ben nota che l'intreccio del film scombina i piani narrativi e procede a sobbalzi, avanti e indietro nel tempo, pur rimanendo facilmente decifrabile e senza tradursi in rompicapo cerebrale. Tuttavia l'andamento non lineare dell'intreccio non si riduce a semplice divertissement, e nemmeno si limita all'irriverenza verso i canoni hollywoodiani di narrazione lineare.
Che dietro di esso si occultino significati, lo dimostra proprio la morte di Vincent. Essa sul momento stupisce, ma nell'economia del film lascia un segno profondo. Per lo spettatore, lungo tutto l'episodio intitolato "la situazione Bonnie", Vincent è un dead man walking. Non possiamo fare a meno di considerarlo un uomo morto. Ciò da un lato carica di una drammaticità grottesca la buffa comicità del personaggio e d'altra parte amplifica l'eco delle parole di Jules, che più volte, sia con Vincent, sia con Pumpkin, il rapinatore interpretato da Tim Roth, asserisce di voler cambiare vita. Jules ha colto un segnale della provvidenza nell'essere sopravvissuto a una sparatoria quasi a bruciapelo. Vincent ne è rimasto indifferente. Non importa se la provvidenza non esiste e se Jules non riuscirà a mantenere fede all'impegno. Quel che conta è che Jules ha colto un senso nel caso, mentre per Vincent la vita è un caso e non ha senso.
Per questo è giusto - e non è un caso - che Vincent muoia: la sua morte ridicola è coerente con la sua morale.
Lo scardinamento dell'intreccio
Colpisce che per due ore e mezza assistiamo a lunghi tempi morti, ma non vediamo per esempio l'incontro di pugilato vinto da Butch. Una vicenda centrale e potenzialmente spettacolare, che sarebbe la scena madre in una sceneggiatura classica, è stata tagliata con una vistosa ellissi (così come intorno a una gigantesca ellissi di questo tipo ruotava l'intera struttura de "Le iene", film la cui vicenda centrale è costituita da una rapina che non vediamo mai).
Il successo di "Pulp Fiction", nella prima metà degli anni '90, fu qualcosa di analogo al successo dell'album "Nevermind" dei Nirvana (1991). L'indie aveva la meglio sul mainstream. Il cinema di genere americano appariva, specie agli occhi di chi viveva quegli anni da adolescente, accademico e imbolsito come appariva la musica degli anni '80 (con giudizio sommario e severo) durante la stagione del grunge.
Tarantino, nello stile, non era certo grunge. Mai visto niente di più pop. A uno Scorsese, Tarantino stava un po' come Eddie Vedder a Neil Young: non c'era la veemenza iconoclasta dei Sex Pistols, ma l'affetto di un nipote verso uno zio che ci ha insegnato cose buone. La differenza stava in una questione di stile. Il cinema di Scorsese si iscriveva in un solco classico. La violenza con cui anche Scorsese aveva incrementato il suo tasso di exploitation, in un film come "Quei bravi ragazzi" del 1990, si collocava pur sempre nei confini di un cinema hollywoodiano per sua natura molto ancorato ai propri canoni narrativi ed estetici. Una delle più evidenti novità del cinema di Tarantino - la contorsione dell'intreccio - era aberrante rispetto all'ortodossia dell'Academy (che, come da tradizione, non ha mai premiato la regia di Tarantino con un Oscar).
Lo scardinamento dell'intreccio, nei modi in cui lo propone Tarantino, appartiene alle avanguardie letterarie e alla tradizione "post-moderna", che risalgono agli anni '60; al cinema, era stato proposto (sin dai primi anni '60) soprattutto da esponenti della Nouvelle Vague. Molti registi si erano dati da fare per rompere la linearità dell'intreccio: ad esempio Jean-Luc Godard, figurativamente pop, o Alain Resnais, più letterariamente intimista. Jean-Luc Godard, fra l'altro, fu citato da Tarantino nel nome della sua casa di produzione: "A bande apart" è un omaggio al titolo di un film di Godard del 1964 ("Bande à part").
Negli stessi anni di "Pulp fiction", anche David Lynch si preparava a scardinare l'intreccio, in modo ben più radicale fra l'altro, con il magnifico "Strade perdute" (1996), precursore di due pietre miliari come "Mulholland Drive" (2001) e "Inland Empire" (2006).
La differenza fra i due cineasti non risiede solo nel rapporto con il mercato (tanto Tarantino si preoccupa di cavalcare la propria onda, tanto Lynch è appartato e di nicchia). Per stile e poetica, Lynch e Tarantino appartengono a universi lontani: ma li accomuna la dedizione a un modo di fare cinema assolutamente personale, e il rifiuto delle regole canoniche della linearità, che per il cinema di Hollywood è una specie di dogma (si pensi per esempio a come i distributori americani fecero a pezzi "C'era una volta in America" di Leone, rimontandolo in ordine cronologico e assicurandone la disfatta al botteghino).
La novità di Tarantino in questo senso è clamorosa, ma principalmente perché Tarantino è forse l'unico regista, fra quanti utilizzano l'intreccio come un puzzle, che non sia d'élite, ma anzi di enorme successo (Nolan, autore nel 2000 di "Memento", ha dovuto aspettare di realizzare i blockbuster su Batman prima di raggiungere il successo planetario che ha oggi).
La caratteristica veramente peculiare del cinema di Tarantino è la dilatazione abnorme dei tempi drammatici, che ha preso in prestito da Leone, per applicarla ai dialoghi. Suo vero marchio di fabbrica, è l'indulgere nei dialoghi con la capacità di tenere desta l'attenzione, sino spesso a creare tensione, attraverso la parola anziché l'azione. Se trovassimo analoghi dialoghi in film di qualcun altro, parrebbero un'imitazione o una parodia.
L'ipertrofia della parola
In "Pulp fiction", la lunghezza dei dialoghi colpisce in contrasto alla loro superficialità. Sono parole su parole prive di profondità e, il più delle volte, di funzionalità rispetto alla trama. Ancora di più si resta colpiti quando ci si accorge di come quei dialoghi non annoino per niente, ma costituiscano il cuore del film più delle azioni stesse. E' attraverso i dialoghi, straordinariamente veraci e naturali, che i personaggi si rivelano, in tutta la loro umanità. Triviale, ridicola, maldestra, meschina o malevola finché si vuole: ogni personaggio ha comunque una sua umanità, un suo profilo psicologico accuratamente messo a punto.
I dialoghi di Tarantino sono indice di ammirevole creatività descrittiva. Ma hanno un significato proprio? Dicono qualcosa sul mondo?
Can che abbaia non morde. Più si parla, più si è ragazzini. E meno si è uomini. Jules parla meno di Vincent e ha già un carisma diverso. Jules, però, resta un gran chiacchierone: se dubitiamo, in parte, della sua ostentata "conversione", è soprattutto perché è solo verbale (tra il dire e il fare c'è di mezzo il mare).
Marcellus, il boss demoniaco, per gran parte del film è presenza che aleggia, introdotta in absentia e inquadrato di nuca. Parla ancora meno. E fa più paura.
Anche Mr Wolf si limita all'essenziale e ne giova il suo asciutto carisma di leader dalla "professionalità" quasi esasperata.
In un mondo dove tutti parlano tanto, ma nessun discorso ha valore, com'è il mondo descritto in "Pulp fiction", il potere è nelle mani di chi parla poco: emana non tanto dal verbo, quanto dal gesto, in una regressione alle logiche del regno animale (o in un loro mancato superamento). Forse è sempre stato così, in ogni caso il punto è che la parola non ha il valore che sembra. La nostra civiltà che si fonda sulle comunicazioni di massa, sulla cultura di massa (la cultura pop, per sua natura mercificata, di cui "Pulp fiction" è impregnato con compiaciuto esibizionismo e gusto vintage, sin dalla scelta delle musiche) è una civiltà in cui si parla tanto, ma in cui i rapporti di forza continuano a preferire altri canali.
Bamboccioni
Più si parla, più si è ragazzini.
I personaggi di "Pulp fiction", gli uomini più delle donne, hanno spesso paura che qualcuno li possa scoprire. Si pensi alla "situazione Bonnie": questi uomini devono ripulire il casino che hanno combinato prima dell'arrivo della moglie di Jimmie, come dei bambini che devono rimettere a posto una casa messa a soqquadro prima del rientro dei genitori. Si comportano, e vengono trattati da Wolf, più da bambini che da uomini. Bambocci che vivono nella costante paura dell'autorità, come dell'autorità genitoriale.
La logica sociale di base descritta da "Pulp fiction" è quella tipica del bambino costretto a barcamenarsi fra regole imposte dagli adulti, sperando di farla franca. Agire di nascosto e non essere scoperti: logica di fondo anche dell'azione criminale. C'è un'impressionante contiguità fra malaffare e piacere infantile nel combinarla grossa e passarla liscia.
"Pulp fiction" è completamente calato in una regressione all'infanzia. I vari personaggi appaiono, chi più chi meno, immaturi. Sospesi alle soglie dell'età adulta, in un limbo di inettitudine, sono incapaci di assumersi le ordinarie responsabilità di una vita normale. L'alterità del mondo criminale rispetto alla società civile non era mai stata descritta, prima, così evidentemente motivata da una volontà infantile di rifiuto delle regole civili. Mantenersi ai margini, campare di traffici di droga e quant'altro, sembra più da furbi. Lo sottolinea in maniera eloquente il prologo del film, in cui Pumpkin e Honey Bunny sono veri e propri emblemi di quest'etica infantile e criminosa di cui il loro dialogo sembra un "manifesto". La furbizia, in "Pulp fiction", è sempre abbinata a stupidità: i vari tipi del film s'illudono di riuscire a cavarsela, ma presto o tardi finiscono sotto scacco.
In almeno un paio di momenti del film si parla di mettere insieme una grossa somma e sparire in qualche isola tropicale: abbandonare il consesso civile per spassarsela è la tentazione diffusa e segreta (chi, fra tutti noi, non ci ha in effetti mai pensato almeno una volta?). E' segno, almeno in parte, di un tessuto sociale in stato di disgregazione, se l'utopia celata nell'immaginario collettivo è puramente individualista e anti-sociale.
Vincent è emblematico per la sua inettitudine.
Nella vicenda di Vincent vi sono tre momenti di svolta. In ciascuno di essi, Vincent si fa trovare "con le braghe calate": quando torna sulla scena, scopre di essersi perso qualcosa di determinante. E' in bagno quando inizia la rapina al diner; è in bagno quando Mia va in overdose; è in bagno quando Butch entra a casa sua. E gli sarà fatale.
E' evidente l'ironia con cui Tarantino si prende gioco di Vincent, smutandandolo sempre nei momenti chiave, a sottolineare la sua inettitudine, la sua incapacità di essere al posto giusto nel momento giusto.
Un dilemma ossessiona Vincent. Ha fatto bene o male, Marcellus, a far precipitare dal quarto piano uno dei suoi scagnozzi, colpevole, a quanto pare, di un massaggio ai piedi alla moglie di Marcellus? Jules è stupefatto che a Vincent questa punizione possa apparire proporzionata. Mia insinua poi dei dubbi, in Vincent, sul fatto che il massaggio ai piedi possa essere il vero motivo del gesto di Marcellus. Ma non è questo il punto. Il punto è che Vincent non riesce a farsi un'idea sua.
Sembra che Vincent abbia perso il senso della misura morale: abituato a vivere nella logica (infantile) in cui la morale è subordinata all'autorità, l'autorità di Marcellus gli pare d'istinto fonte di giustizia. Se Marcellus ha ritenuto di agire così, non può che avere ragione. Non è lontana, l'impostazione morale di Vincent, da quella che poteva avere un popolo abituato alla monarchia assoluta.
Mia e l'horror vacui
C'è un momento, nel film, in cui la parola veicola un contenuto profondo. "Non odi tutto questo? I silenzi che mettono a disagio..." - dice Mia a Vincent al Jack Rabbit Slim. "Perché sentiamo la necessità di parlare di puttanate per sentirci a nostro agio? E' solo allora che puoi dire di aver trovato qualcuno di veramente speciale: quando puoi chiudere quella cazzo di bocca per un momento e condividere il silenzio in santa pace".
L'affastellamento di segni, di feticci (e di parole...), è un ritratto irresistibile della cultura pop. E della ineffabile leggerezza della cultura ci massa, in cui si contempla compiaciuti, collettivamente, un trionfo di segni autoreferenziali.
Illudersi di sapere come va il mondo. Essere in contatto con la superficie delle cose. Questo è cool. Questi sembrano gli imperativi morali nel mondo descritto da "Pulp fiction". Un universo dove, invece, vige un'innata diffidenza per la profondità, lo star da soli e l'interiorità son cose da nerd, da sfigati. Riflessione è sinonimo di pesantezza; non è roba da ragazzini.
Ma una vita cool non può evitare il vuoto. Non può arginare la sensazione - cui gli animi più sensibili hanno accesso - che sotto quest'immensa mole di segni si possa celare il nulla. E che le parole pronunciate per celare il vuoto (il silenzio) corrispondano a una perenne fuga dalla ricerca di senso.
Mia ha intravisto il vuoto. La sua percezione tuttavia si avvicina solo vagamente all'orrore per il vuoto (l'horror vacui), che Tarantino evoca bene per contrasto.
Mia rimane personaggio passivo. Non emerge, in "Pulp fiction", una sua alterità rispetto al mondo che la circonda, se non in modo embrionale. All'insoddisfazione di Mia (che è evidente) non si accompagna una diversa maturità. La sua sensibilità non fa che renderla più malinconica e più introversa di quanto vorrebbe apparire. E' emblematica la sua barzelletta "che non fa ridere" sulla famiglia di pomodorini: il fatto che la ricordi e la voglia raccontare fa tenerezza. E lo fa ancora di più che la racconti a suggello di un'esperienza come quella a cui è sopravvissuta. In quella barzelletta si cela nostalgia della purezza perduta dell'infanzia.
Mia è una donna-bambina, capricciosa (Vincent è un po' il suo inadeguato baby-sitter). Ha una repressa vitalità infantile: emblematicamente, si libera ballando sulle note di "Girl, you'll be a woman soon". Mia è sospesa tra due età, senza aver compiuto un percorso di emancipazione: e così, rimane costretta al ruolo di donna-oggetto, sottomessa a logiche maschili di dominio. Marcellus è il suo padrone.
Butch
I "valori" tradizionali maschili sono rappresentati da un militare, il capitano Koons (interpretato da Christopher Walken in un'ironica citazione de "Il cacciatore" di Cimino). E' una tradizione che Butch mostra di rispettare e intende onorare. E anche se nel contesto del film tale tradizione è demistificata - appartiene ad una società diametralmente opposta a quella edonista dominante - tuttavia Butch si è scelto per professione il pugilato, che si avvicina al modello del guerriero in cui, da orfano, ha mitizzato il padre. Ed è anche in onore del padre, oltre che per orgoglio e volontà di riscatto (magari ingenua), che Butch decide di non vendersi, ingannare Marcellus e vincere l'incontro.
Il pugile combatte all'arma bianca; l'arma da fuoco del gangster, invece, è un po' un giocattolo, che consente di uccidere alla distanza, senza fatica e restando "puliti" (se si esclude il caso del macello combinato da Vincent). Butch nel film uccide quattro uomini, ma soltanto uno e per caso (Vincent) con un'arma da fuoco. Per gli altri, usa le mani nude, o sceglie un'arma da taglio: una katana, che non per caso appartiene a una tradizione orientale completamente altra, esotica ed aliena all'occidente degenerato, in cui non si uccide per onore, ma per soldi.
Di Butch, colpisce il suo ridestarsi in modo traumatico dalla rêverie nella quale rammenta la consegna dell'orologio paterno. Col suo violento sussulto sembra esser costretto a tornare a fare i conti con la durezza della realtà. Un brusco trapasso da una trasognata fanciullezza, ai tempi delle decisioni adulte.
Pure Butch è un personaggio che rimane sospeso: mosso da una sorta di nostalgia di valori diversi da quelli dominanti, resta ingenuo e fanciullesco, sia nelle manifestazioni esteriori, sia nelle motivazioni (guadagnare una grossa somma in barba a Marcellus, e scappare via per spassarsela nei mari del sud). Letto alla luce dell'archetipo dell'Odissea, il movente e il destino del personaggio di Butch è la fuga con Calipso, non il ripristino della giustizia (con strage dei Proci).
Tuttavia Butch possiede anche un candore che è del tutto estraneo a Vincent e a Jules; e soprattutto dimostra un senso basilare di lealtà che lo spinge a rifiutare la viltà di scappare senza soccorrere Marcellus. E' una decisione coraggiosa, presa con sprezzo istintivo del pericolo (non conosce quale riconoscenza potrà avere Marcellus, semmai ne avrà). Esattamente analoga, questa scelta rischiosissima, alle due pericolose scelte precedenti: quella di vincere l'incontro, e quella di tornare a casa a recuperare l'orologio.
La vicenda di Butch si conclude con la rottura di un vincolo: una fuga liberatoria in compagnia della fidanzata Fabienne (infantilmente dolce) a bordo della moto Grace: nome che non pare casuale (per quanto condito d'ironia, dal momento che era la moto del depravato Zed).
Il potere liberatorio della Commedia
Anche Mia Wallace, come Butch, ha maneggiato lame affilate, sia pure solamente nel pilot di "Volpi forza 5", in quella che è una versione embrionale del soggetto di "Kill Bill". In "Kill Bill", la stessa interprete di Mia Wallace, Uma Thurman, emerge come una fenice dalle ceneri della donna repressa che è Mia, ancora sottomessa al dominio delle logiche maschili. La Sposa, in "Kill Bill", va in oriente a imparare l'uso delle lame affilate, prima di compiere la sua vendetta ai danni di Bill, il prevaricatore.
In "Pulp fiction", oltre a Butch, a distinguersi dal coro sono le donne e i personaggi di colore. Mia, pur nella sua succube passività, ha una sensibilità che Vincent non arriva nemmeno a intuire. In modi diversi, abbiamo visto tratti positivi in Jules, e persino in Marcellus, che sono neri.
Tarantino non ha per nulla simpatia per le logiche dominanti. Il fatto che la sua visione appaia però ironica ed empatica, tutt'altro che moralista o moraleggiante, può esser visto come ammiccamento a un pubblico che non ama gli sia fatta la morale. Al sottoscritto, invece, pare che, chi intende in questo senso la divertita adesione di Tarantino per la superficie, gli disconosce la capacità di condurre lo spettatore a rispecchiarsi nello schermo per fargli vivere i propri difetti, e farlo ridere di se stesso senza che si accorga - se non a livello inconscio - che quei difetti sono i propri.
E' un approccio snob, nascostamente provocatorio, che cela un alto concetto della propria astuzia e della propria demiurgica superiorità. Il che appare coerente, a pensarci bene, con il personaggio-Tarantino. Ma è un approccio comune a molto cinema, teatro e letteratura contemporanei (si pensi ad esempio al sadismo di Haneke). Mostra un intento di demistificazione delle ipocrisie che punta al cuore lo spettatore. Come se i vizi che Tarantino espone del mondo (iperbolicamente, è chiaro) fossero divenuti così pervasivi da non poter essere denunciati onestamente tirandone fuori lo spettatore: occorre invece tirarlo dentro, chiamarlo in causa. Questo sembra il vero significato dell'ironia di Tarantino: il suo è un ghigno di disincanto rivolto contro l'ipocrisia insita in ogni asserzione retorica. Tarantino mostra invece una sincera, istintiva fiducia nel potere liberatorio della Commedia, capace di sconfiggere la tragedia sorridendone.
In "Pulp fiction" l'approccio non solamente ludico, ma morale, al genere della Commedia (intesa nel senso più classico del termine), è talmente nascosto da risultare quasi invisibile. Nei film successivi, diverrà sempre più evidente per chi parteggi Tarantino. A rimetterci sarà la complessità, la verosimiglianza della visione.
Già a partire dal ruolo di Pam Grier in "Jackie Brown", e in particolare con "Kill Bill" e "Bastardi senza gloria", la poetica di Tarantino assume contorni sempre più chiari: ma, svelandosi, diverrà tutto sommato banale, pur restando irresistibile nella forma. Donne, neri, ebrei alla riscossa: il trionfo, grazie all'intelligenza, di chi è sempre stato vittima sulla logica maschile della prevaricazione. I film di Tarantino, da "Jackie Brown" in poi, sono favole catartiche in cui la forza bruta è condannata alla sconfitta dalla sua stessa bieca ottusità. Gustando i film successivi, è facile collegare il piacere di noi spettatori alla liberatoria vendetta perpetrata dagli eroi. Guardando "Pulp fiction", invece, continuiamo a restare estasiati di fronte al gioco di prestigio che ci fa ridere di quanto male siamo ridotti. Per questo, rimane il suo capolavoro.
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Recensione a cura di Stefano Santoli - aggiornata al 31/10/2012 16.01.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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