Recensione zelig regia di Woody Allen USA 1983
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Recensione zelig (1983)

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Migliore attore straniero (Woody Allen)
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locandina del film ZELIG

Immagine tratta dal film ZELIG

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Immagine tratta dal film ZELIG
 

Se nella cinematografia mondiale esistono realmente dei "geni", Woody Allen è indubbiamente fra questi.

Il "fenomeno Allen" inizia nel 1969 con "Prendi i soldi e scappa", brillante film comico di stampo documentaristico, che strizza l'occhio ai classici marxiani anni '30. La carriera di Allen prosegue nella prima metà degli anni '70 con una serie di eccellenti film, sempre sulla falsariga dei capolavori dei fratelli Marx.
Nella seconda metà degli anni '70 e, più precisamente nel '77, lo stile di Woody evolve, si aggiorna. Con "Annie Hall", Allen inaugura la commedia nevrotica. Gli influssi marxiani sono drasticamente diminuiti, anche se le uscite sarcastiche tipiche dell'umorismo yiddish permangono; ora Woody si rifà soprattutto a Bergman e a Fellini. Nel 1979, con "Manhattan", viene raggiunto uno dei punti più alti della filmografia alleniana: questo capolavoro, all'epoca dell'uscita, viene perfino definito da critici statunitensi come "l'unico grande film americano degli anni '70".
Si giunge così all'inizio degli anni '80. Dopo due pellicole alquanto notevoli ("Stardust memories", 1980, e "Broadway Danny Rose", 1982), Allen firma un nuovo capolavoro e forse il suo miglior film, insieme all'opposto "Manhattan": "Zelig".

La storia è quella di Leonard Zelig, uomo camaleonte vissuto tra gli anni '20 e '30 in grado di assumere le connotazioni psicofisiche di chi sta vicino a lui.

"Non vorrei mai far parte di un club che accetti tra i suoi membri uno come me"
Groucho Marx

Questa battuta, tanto citata e ripetuta anche dallo stesso Allen, sta indubbiamente alla base del film. Il regista statunitense, però, reinterpreta totalmente le parole del vecchio comico ebreo cogliendo in esse il lato più "serio". Ma dopotutto "Zelig" è proprio questo: un film maledettamente serio, mascherato da commedia.

L'impostazione è quella di un documentario, con tanto di interviste a colori ad opinionisti ed esperti.
Per quanto ci riguarda, "Zelig" è sicuramente un ribaltamento di tutto quello che abbiamo visto fino ad ora nella filmografia del regista: l'idiosincrasia che Allen ostenta in "Annie Hall" (e nelle pellicole seguenti) nei confronti della società, è accentuata e al tempo stesso rovesciata: se nei capolavori nevrotici la collettività è funzionale ad Allen, venendo da lui sbeffeggiata e presa in giro, ora è la società che ricopre il ruolo di protagonista; è lei che detta le regole e il povero Leonard Zelig è succube di essa. E così nasce il dramma di un uomo che non sa più chi sia realmente.
Allen, poi, disegna una società stupida e banale che prima idolatra Zelig, poi lo dimentica, poi lo mercifica e quindi lo bistratta. Inutile quindi porsi il dubbio se sia Leonard ad essere un camaleonte o il mondo che gli sta vicino: la risposta è a dir poco impietosa. Vivendo in una società sofferente di una schizofrenia collettiva, il personaggio di Allen cerca di integrarsi in essa, emulandola e finendone soffocato. Le parole di Groucho risuonano quindi più forti che mai: Zelig, che non riesce ad accettarsi nella società, non vuole mai essere sé stesso.

Ancora una volta, come nei decenni precedenti, lo stile di Allen si sviluppa: in un certo senso, le commedie nevrotiche si possono illustrare come un punto d'incontro fra l'esistenzialismo bergmaniano, il sentimentalismo felliniano e l'istrionismo marxiano (e, più limitatamente, quello di Groucho). In "Zelig", invece, i solchi felliniani e bergmaniani vengono praticamente abbandonati, mentre la verve marxiana è ormai relegata a qualche (indimenticabile) battuta. Al contrario, come alcuni critici fanno notare, Allen, si avvicina molto di più a film come "Il monello" o "Tempi moderni", in cui l'uomo (Charlot) è dominato dal mondo circostante.

Obbligatorio, infine, citare - ancora una volta - Woody Allen (nelle veste di sceneggiatore) e Gordon Willis (direttore della fotografia). Infatti la sceneggiatura di "Zelig" è davvero di prima fattura, indubbiamente una delle più elaborate dei film di Allen.
Willis, invece, immortala una New York grigia, cinerea e antitetica a quella vista in "Manhattan". Se nel capolavoro del '79 lo sguardo è caldo e avvolgente e mai si è visto un b/n così vivo, in "Zelig", New York appare come il negativo della stessa città vista quattro anni prima.

Questo capolavoro riceve due nomination agli Oscar (fotografia e costumi) e non ne vince neanche uno, nonostante si possa tranquillamente ritenere uno dei migliori film degli anni '80.

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Recensione a cura di Harpo - aggiornata al 24/08/2007

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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