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Kurosawa è un autore che ha amato molto trasporre nel cinema (grandi) opere teatrali o letterarie. Con il "Trono di Sangue" aveva fatto rivivere sullo schermo, in maniera sublime e grandiosa, l'atmosfera lugubre e rarefatta del Macbeth di Shakespere. Per una volta aveva rinunciato ai suoi personaggi terra-terra, passionali, sensibili e umani e aveva posto l'accento sulla solennità e sull'essenzialità delle scene. Quasi a voler compensare questa rappresentazione un po' "estrema" del mondo umano, Kurosawa nello stesso anno fa uscire "I Bassifondi", un film che tocca l'altro estremo e ci porta in situazioni decisamente terra-terra (ai punti più bassi della scala sociale). Di fronte ai nobili potenti e alla loro brama di potere del Trono di Sangue abbiamo qui degli straccioni meschini e poverissimi, dei rifiuti della società, il cui problema non è il potere ma la sopravvivenza. In comune i due film hanno il forte impianto teatrale. I Bassifondi è tratto infatti da un'opera naturalista di Gorkij. Anche qui Kurosawa azzecca perfettamente la trasposizione in chiave nipponica, molto realista e convincente (usa il gergo e il folklore degli straccioni giapponesi), ma che lascia intatto lo spirito dell'opera di Gorkij, intrisa del tipico populismo russo ottocentesco. Anche l'ambientazione è assai azzeccata: una topaia decisamente schifosa, infossata fra alte mura, priva di aria e di luce. In pratica per tutto il film non ci muoviamo di lì e questo contribuisce a creare la sensazione di claustrofobia, di disagio, di reclusione, di "condanna" e disperazione, che angustia pure i personaggi della storia. Qui Kurosawa ci fa proprio toccare con mano a che livelli può arrivare l'abbrutimento umano dovuto alla povertà, sia materiale che spirituale. Mettendo in scena semplicemente le banalità, i discorsi normali, la quotidianità spicciola di quella gente, ci fa capire perfettamente il loro animo, la loro psicologia, il livello sub-umano a cui sono ridotti. Visto che l'interesse è la rappresentazione umana, interiore di come si (soprav)vive in condizioni materiali/affettive estreme, Kurosawa rinuncia a qualsiasi movimento o azione scenica e assoggetta la mdp a una visione totalmente teatrale. Infatti i personaggi parlano uno per volta, entrano ed escono sincronizzati. Le riprese sono spesso fisse e viene usato il piano sequenza. Certo non in maniera estrema come fece Hitchcock in Nodo alla gola. Ogni tanto ci sono degli stacchi in primo piano ed essendo rari e centellinati sono tutti molto suggestivi. Essendo un film corale, la parte del leone a livello recitativo la fanno attori che in genere venivano usati come comprimari in altri film. Toshiro Mifune è un po' defilato, comunque anche stavolta fa vivere intensamente un personaggio energico, passionale, impulsivo. Non poteva mancare la figura del maestro, dell'uomo ricco di esperienze, che conosce tutti i difetti e le brutture umane ma che non si arrende e cerca in tutti i modi di salvare più gente possibile dall'autodistruzione, e sempre in maniera quasi disperata, con poche speranze di successo (da quanto la situazione è grave e compromessa). L'attore (bravissimo) che impersona questo personaggio era uno dei contadini nei 7 Samurai. Il fatto che non sia un divo, dà al personaggio ancora più realismo e naturalezza. E' proprio questo affascinante personaggio che introduce nel film splendide riflessioni, dolci e amare allo stesso tempo. E' l'unico che riesce a pensare che ci siano fiori anche nel letame. E' un film duro, ostico da digerire a causa del suo impianto teatrale. Può risultare a volte noioso se non si è abituati. Per il resto è una specie di pugno nello stomaco, non tanto per la povertà materiale, quanto per il disfacimento umano a cui si assite. Kurosawa è grande per questo, non ha paura di farci vedere gli aspetti più brutti e disturbanti del nostro mondo, visti soprattutto dal punto di vista di chi li vive. La cosa che fa più male è la consapevolezza che anche nell'Italia del XXI secolo si trovano ancora situazioni simili, con tanta povertà, tanto degrado umano, tanta disperazione.
Forse il picco di Kurosawa nell'analisi esistenziale, analisi che passa attraverso le veci di non so quanti personaggi, tutti legati dalla figura solida e filosofica di un vecchio vagabondo. Una grandissima trasposizione di una realtà contemporanea di qualsiasi epoca, anche la nostra, un'opera prolissa di dialoghi ma che sfiorano a volte la pure poesia. Didascalico però nella raffigurazione metaforica del dormitorio come discarica comunale-discarica sociale.