Un villaggio protestante della Germania del Nord. 1913/1914. Alla vigilia della prima guerra mondiale. La storia dei bambini e degli adolescenti di un coro diretto dal maestro del villaggio, le loro famiglie: il barone, l’intendente, il pastore, il medico, la levatrice, i contadini. Si verificano strani avvenimenti che prendono un poco alla volta l’aspetto di un rituale punitivo. Cosa si nasconde dietro tutto ciò?
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Film indubbiamente di alta qualità, dal punto di vista tecnico... Tutto molto bello, ma... la trama su cui si è cercato di costruire il film ha un po' pochi contenuti per due ore e mezza... E il finale, troppo sbrigativo e buttato li'... Viste le capacità di attori e regista, poteva veramente essere un capolavoro.
Un film particolare, non nascondo che ero incerto sul materiale di partenza, la storia poteva non reggere, invece il dilemma di chi semini tutte le cattiverie che accadono durante il film mi hanno giustamente avvinto, in un finale in cui ogni certezza è incertezza. Haneke si conferma giustamente come uno dei registi europei più interessanti assieme a Lars Von Trier e Alfredson, l'uso del bianco e nero desensibilizza l'ambiente circostante rendendolo desolatamente freddo e vuoto. Attori scelti per essere il più possibile simili agli abitanti di un villaggio di inizio 900, dialoghi scarni ma essenziali, completano una storia sulla cattiveria umana, insita in ognuno di noi, anche se non ci crediamo capaci. Quello che ha al totalitarismo, fanatismo religioso, sfruttamento, violenza, tutto è ben delineato, i personaggi agiscono in base ai propii principii o alle propie debolezze, che pian piano li trasformano. Il prete, il dottore, il barone, tranne il maestro, voce narrante, che travalica la cattiveria con il suo comportamento, preoccupandosi per gli avvenimenti orribili che avvengono. Niente è come sembra, tutti sono invidiosi, gretti , meschini, violenti e falsi. La verità è lungi dall'apparire.
Haneke, come uno scienziato mostra dalla sua lente uno scorcio di vita di un villaggio nel 1913, senza dare giudizi e messaggi banali. uno schiaffo realizzato con maestria ed eleganza
Un film senza speranza, soprattutto perchè non lascia ai piccoli protagonisti nessuna via di scampo. Se non si conosce che la crudeltà, in un microcosmo senza aperture verso l'esterno, dove regnano l'eccessivo rigore, la chiusura, la falsità, dove il perdono e la comprensione sono banditi, il proprio destino è segnato.
Spietato, Haneke è un regista che ha sempre teso a mostrarci personaggi estremi, senza possibilità (o volontà) di redenzione, e qui ce ne mostra la probabile genesi. Quindi non tanto (o non solo) la genesi della Germania nazista ma quella del Male in generale.
Haneke, dopo il mezzo fiasco del rifacimento americano di Funny Games, ritorna in Europa, nella natia Europa, per analizzare il valore del male in sè e visto, nello specifico, nonostante non fosse l'intenzione del regista, attraverso la nascita del nazismo nelle sue più radici profonde. Il male ha un'origine radicata e profonda, che si sviluppa molto prima di quando esce allo scoperto. Nichilista ed enigmatico nello sviluppo della storia quanto preciso nell'intenzione.
Devo dire di essere rimasta un pochetto delusa, eh già. Probabilmente non avrei dovuto leggere approfonditamente tutti i commenti prima di vederlo, però l'ho fatto e mi aspettavo sinceramente qualcosa di più, specialmente nel finale.. Il film è "oggettivamente" bello, anche soltanto per lo splendido bianco e nero, che già io adoro di per sè e che qui è magnifico, è un vero piacere per gli occhi. Si ha quasi la sensazione di venire trapiantati in quel villaggio, dove accadono le cose più strane, dove tutto è avvolto da un'atmosfera malsana. Purtroppo quando è finito, mi sono chiesta "uhm cosa avrà voluto dire?" senza riuscire esattamente a darmi una risposta.
A lento rilascio. Passano i giorni e ancora aleggiano immagini o stralci di dialoghi, le percezioni immediate sono sostituite da brandelli di riflessione. E' un film ostico, difficile, inquietante, vien voglia di tenerlo distante da sé, ma poi ci si deve fare i conti. Nella recensione è stata usata l'espressione “coltura in vitro del Male” e questa è esattamente l'immagine che per me meglio rappresenta la situazione in cui mi è sembrato di essere immersa: in un brodo di coltura di un'inumanità senza appello, cieca e sorda ad ogni comprensione, scandita da regole spietate, autoritaria in ogni sua espressione, inflessibile (e non solo nelle pene inflitte per colpire una trasgressione, ma anche, per esempio, in quella confessione del Dottore, devastatrice assoluta): una sensazione di soffocamento e odio rabbioso sottomette chi guarda. Haneke illumina lentamente la scena esibendo una comunità apparentemente immutabile, ingabbiata in regole ferree e al tempo stesso oscura e minacciosa, in cui portare un nastro bianco di purezza diventa simbolo di terrorizzante dominio, un villaggio in cui nemmeno una candida coltre di neve riesce ad essere, come da sempre, fautrice di pace ed anzi, con un fermo immagine a mio avviso emblematico (la tenuta del barone), riporta automaticamente alla mente altre sinistre fotografie ormai appartenenti alla memoria collettiva. Nessun sentimento passa tra gli abitanti del villaggio, nessun sintomo di condivisione o affratellamento, piuttosto comportamenti che rasentano l'autismo perfino nell'unico personaggio positivo, peraltro non casualmente estraneo alla comunità. Il b/n, oltre ad essere una scelta stupenda esteticamente, è quanto di più efficace a togliere ogni illusione di morbidezza: Haneke non permette accomodamenti o mezze misure, non crea nemmeno drammatizzazioni nè tanto meno risolve per noi la questione. E' talmente rigoroso da essere, oggi, quasi sovversivo.
Splendido nel finale: di nuovo si spegne la luce, calano le tenebre.
Da vedere e rivedere. Sì dopo una lettura sulla genesi del male nella Germania di inizio secolo assume una connotazione diversa,in effetti cercai di avvicinarmi al film senza aver letto nessun commento o recensione per non essere influenzato nella visione e quello che ho visto è una favoletta sì di innocenza e di malvagità nascosta dentro ogni cosa , nei gesti dei personaggi,nelle immagini in bianco e nero (favolose)nella trama, nel susseguirsi dei fatti (dopo ogni volta che succede qualcosa la voce narrante riporta tutti alla calma , e la vita del villaggio procede regolarmente come sempre nella sua continuità eterna). Il signor padre è agghiacciante, nella tragicità del personaggio e delle conseguenze della sua natura becera e autoritaria...
Un altro film sul Male e non è certo il primo di Haneke sull'argomento. Funny Games è un freddo distillato di ferocia umana senza peraltro spiegazione alcuna sul perché o percome si possa arrivare a tanta crudeltà da parte di esseri umani su altri esseri umani e forse da questo punto di vista lo preferisco. Io non credo e non spero che haneke volesse banalmente dire che l'educazione repressiva ed autoritaria genera mostri altrimenti non saprei spiegarmi quelli - tanti - dei giorni nostri. I Mostri sono stati e saranno sempre in noi e tra noi, il Male esiste ed esiste in alcune persone più che in altre. I bambini sono spesso crudeli e, se sono già in grado di capire il male che fanno al punto di nascondere le loro crudeltà, vuol dire che ne sono pienamente consapevoli. Il Male peggiore è quello perpetrato sugli esseri innocenti: animali, ritardati, bambini piccoli. Questo è quello che ho letto. Il tutto è espresso meravigliosamente da una splendida fotografia, recitazione rigorosa, bergmaniana che esprime alla perfezione dolore, severità, miseria, rassegnazione, crudeltà. La ricostruzione storica - scenografie, costumi - è da brividi (altro che bei tempi andati!!!) e gli unici due personaggi positivi sono il maestro narratore e la sua futura sposa. Come al solito però Haneke è un gelido narratore e, almeno per me, non è facile sentirmi coinvolta emotivamente dalle sue storie o identificarmi con i suoi personaggi e nelle sue situazioni anche perché spesso terribilmente estreme (vedi la pianista).
Un film abbastanza monotono che lascia molto perplessi e sicuramente con l'amaro in bocca.Il film oltre a non spiegare molte cose importanti della trama tratta con molta superficialita' i temi dell'autoritarismo e della violenzafamiliare, dell'oppressione religiosa e del maschilismo dilagante della societa' dell'inizio del 20 secolo senza pero' convincere molto sul rapporto tra causa ed effetti troppo forzati,scontati. Se l'intento delregista era quello di spiegare l'avvento del nazismo in base ai comportamenti di un paesino austriaco beh allora cio' che viene narrato nel film credo avvenisse nel 90% delle nazioni mondiale, violenze,vendette e soprusi sui piu' deboli niente di nuovo. Un plauso ai bambini veri protagonisti della pellicola
Con uno stile rigorosissimo che deve qualcosa a bergman e soprattutto a Volker Schlondorff (la testimonianza passiva e repressa della violenza c'era tutta nel Giovane Torless di letteraria memoria) Haneke realizza un film ambivalente, quasi esoterico nel suo messaggio ideologico (popolare quando racconta le gesta del "padrone" che ricatta con il suo potere l'intero villaggio, insinuante e simbolico nel tracciare invero i germi dell'ideologia nazista), profondo e al tempo stesso spiazzante come metafora scientifica della Dimora Rassicurante (o rassegnata?) del Male Oscuro. Inizialmente sembrava quasi di dover rileggere certi testi di canzone popolare all'italiana (tipo "Padrone mio") di antica memoria, ma a poco a poco si vive in un inferno dove tutto e niente (nessuno) ha prove inconfutabili di colpevolezza. Girato in un b/n travolgente come non si vedeva da diversi lustri, "Il nastro bianco" è quasi assurdo nella sua (crudele) poetica, come se volesse orientare lo spettatore nell'indifferenza causata dal male ("E tutti noi dobbiamo morire?"), quasi una rivisitazione horror delle più inconscie ossessioni quotidiane (cfr. il racconto del ragazzo morto invecchiato come il Dorian Gray del ritratto). E proprio il desiderio di reprimere il male provoca la diabolica attitudine alla sopraffazione giocata su molti aspetti, dalla lascivia consapevolezza della lussuria al veto peccaminoso dei dogmi religiosi. Giocando su questi diversi aspetti, e sull'ambiguità delle colpe, il cinema di Haneke sfrutta magnificamente ancora una volta la sua risorsa primaria, la consapevolezza che non esistono esclusivamente rei e innocenti, davanti a una strada lastricata di buone e cattive intenzioni all'unisono. Ciò che un tempo (v. Storie) poteva essere tacciato di qualunquismo (ma quanto ci si sbagliava) è in realtà una società che ha la sua grande colpa nell'essere complementare e complice delle sue nefandezze e complicità Due o tre momenti di fulminante, grande cinema: il lavoro dei braccianti, il canarino sacrificato e l'annuncio di un conflitto imminente. Uno straziante silenzio
Spesso guardiamo nostalgici verso il passato. Ci lamentiamo della perdita del mondo semplice, ingenuo e pacifico; dei tempi in cui non dominava la tecnologia e la modernità spinta, dove ogni cosa era regolata con i ritmi della natura. Vorremmo ritornare alle società piccole, isolate, “sicure” e al riparo dagli “estranei”. Inoltre ci sembra che il nostro tempo sia diventato troppo liberale, permissivo, che non esistano più rispetto, regole, ordine e magari si vorrebbe un maggiore rigore nei comportamenti con norme stringenti e indiscutibili, imposte severamente. Questo passato idilliaco non esiste e non è mai esistito. Ad Haneke preme soprattutto comunicare questo; anzi ci tiene a metterci in guardia dal ritorno al mito dell’ordine, del rispetto gerarchico e della disciplina rigida e formale. La forza, l’arbitrio e l’autorità non fanno altro che propagarsi dai gruppi dominanti verso il basso, diventando così la prassi normale del relazionarsi umano; dove ognuno si sfoga dominando e schiacciando qualcun’altro ancora più debole di lui, giù giù fino ai diversi, agli esclusi, agli handicappati, quelli che subiscono e basta. Per poter meglio veicolare questo messaggio Haneke evita se possibile di dare risvolti estetici alle immagini. Il film ad esempio è in bianco e nero, proprio per evitare che il colore “distragga” con sensazioni di bellezza che nessuno al tempo (a parte i poeti e le elite ricche ed acculturate) sentiva. Cerca poi di staccare lo spettatore dalla vicenda, proprio per farlo giudicare e riflettere liberamente. Ad esempio non esiste un vero e proprio protagonista e le vicende dei vari personaggi si susseguono tramite un montaggio alternato basato su nessi emotivi più che narrativi (come nei film di Altman o della Nouvelle Vague). L’oggetto della narrazione non sono gli avvenimenti ma le conseguenze di questi e soprattutto i rapporti interpersonali che si vengono a creare in un ambiente chiuso, paternalista e autoritario. Sul banco degli accusati c’è proprio il paternalismo, sia nella versione sociale che in quella familiare. Il Barone dà lavoro, dà la possibilità di sopravvivere alla comunità, ma in realtà tiene in pugno tutti e li può schiacciare da un momento all’altro a suo arbitrio. Il paternalismo familiare è rappresentato dal Pastore, il quale impone ai figli, come “necessarie”, rigidissime regole. Una “necessità” metafisica di cui pure lui si fa paravento (gli “dispiace” punire) e che umilia e amareggia ancora di più l’animo di chi subisce. La scena chiave del film è quella del canarino infilzato ed è l’unica di cui Haneke ci fa sapere chi è il responsabile. Quella scena dimostra come l’autoritarismo spinto crea solo esseri opportunisti, falsi e bugiardi, vogliosi di sfogarsi propagando la violenza e la sopraffazione. Altre vittime dei sistemi “paternalisti” sono le donne, le quali diventano meri oggetti di piacere, magari usa e getta; oppure sono costrette a subire in silenzio l’autorità del “più forte”. Solo la Baronessa (dotata di arte e cultura) capisce la vera natura del luogo in cui vive (sue le parole più dure del film) e cerca la maniera di fuggire o cambiare. Ciò che magari crea sconcerto nello spettatore comune è piuttosto lo stile narrativo dell’opera. La narrazione spesso si interrompe bruscamente, nasconde più che rivelare; sembra che si voglia apposta confondere lo spettatore, stimolarne la curiosità per poi lasciarlo come deluso. Si fa fatica a capire il motivo di questa scelta stilistica, che letteralmente spiazza lo spettatore comune, abituato ai narratori onniscenti della cinematografia classica americana. Secondo me Haneke ci vuole far capire che la verità è qualcosa di sfuggente, che forse non esiste. Siamo costretti a vivere di congetture o di incertezze. Può essere anche un atteggiamento pessimista e fatalista. Il male si propaga e nessuno sembra in grado di fermarlo o addirittura di svelarlo, farlo conoscere. In una certa qual maniera questo film di Haneke assomiglia moltissimo ai film dell’ultimo Bresson. L’importante è però che questo film ci fa indirettamente capire come possa essere nato il regime autoritario e paternalista di Hitler e come sia riuscito a trovare così tante persone disposte ad ubbidirgli ciecamente e con tanta violenza. Come detto all’inizio è anche un monito a non buttare alle ortiche il lavoro di tanti intellettuali che hanno reagito al mondo rigido e autoritario dei “padri” e che ci hanno insegnato a vivere liberi e tolleranti.
riprende il tema tanto caro a registi come Herzog (anche i nani hanno incominciato da piccoli) o Von Trier (dogville): la banalità del male. La prima parte forse un po' troppo lenta, ma necessaria per "cuocere" lo spettatore e prepararlo alla più avvincente seconda parte. Intimamente intrecciato a realtà storiche come la prima guerra mondiale e il nazismo, esponendo la gioventù che poi aderirà al malato movimento di Hitler. Un film che fa riflettere.
Grande Haneke che dopo la triste esperienza americana, torna a dirigere un film degno di questo nome e lo fa nella sua maniera, sfidando il pubblico più abituato alla visione di film del tipo "catena di montaggio". Un bianco e nero straordinario fotografa l'anima fredda degli abitanti di questo piccolo villaggio. Nessuno si salva dallo sguardo cinico del regista che impietoso demonizza uno ad uno i personaggi (tranne il narratore che è l'unico su cui il registra indirizza l'empatia del pubblico). In alcuni momenti, in alcuni dialoghi, sembra di vedere il miglior Bergman, ma purtroppo non tutto il film riesce a mantenere lo stesso livello.
Dal mio personalepunto di vista, sarebbe stato un film da 9 o da 10 seil finale avesse suscitato maggiore emozione. Ciò che manca in questo film è proprio il climax finale, lapice narrativo che porta all'orgasmo sensoriale lo spettatore. C'è invece un coito bloccato. Il finale non mi ha suscitato nessuna emozione. Dicevo di Bergman.. basti pensare al bellisimo finale di "Come in uno specchio" per capire come il minimalismo possa riuscire ad emozionare in modo intenso e profondo. Probabilmente, ciò che manca per rendere un capolavoro questo film, è l'assenza di un dramma interiore forte nel protagonista. Tutto è troppo distante. La struttura narrativa è perfetta nel disegnare il conflitto a livello interpersonale e a livello di società (alcuni hanno letto in questo film la genesi del nazismo), ma manca la componente interiore e quindi il finale non giunge dove dovrebbe.
La genesi del nazismo vista dall’occhio freddo, lucido e quasi distaccato del miglior Haneke in assoluto (Funny Games, austriaco, a parte)… Bianco e nero penetrante, cast assolutamente notevole e notevolmente diretto, dialoghi formalmente perfetti, stile rigoroso, non una sbavatura o un passaggio a vuoto…
Intenso, potente, feroce e raggelante, quasi accorato come sguardo, distaccato ma al contempo partecipe, verso le brutture che ci portiamo dentro… La ricostruzione socio/storica è impeccabile, gli abiti, gli interni il modo di parlare e di muoversi sono studiati al dettaglio, a tratti il film riesce a far sentire in disagio lo spettatore con il suo carico di malsano che si porta dietro anche dopo i titoli di coda ma non lo so, c’è qualcosa manca… Non so neanche io cos’è ma c’è qualcosa che viene meno, quel qualcosa che esalta un ottimo prodotto fino alle vette del capolavoro… Probabilmente Il Nastro Bianco è uno di quei film che va visto più volte per assimilare meglio i concetti e la profondità dell’insieme…
Comunque imperdibile, di film del genere ne escono davvero pochi…
Affilato, la parola migliore che ho letto per sintetizzare questo film. Che dire, due ore e mezza di (quasi) nulla, fino al finale, strutturato con assoluta genialità, che non chiude ma che lascia perfettamente chiaro il senso del tutto. Roba di classe.
Algido, preciso, minuzioso, complesso...un bianco e nero che ti penetra...una ricostruzione perfetta dell'ambiente, dell'abbigliamento e del "clima" dell'epoca...L'atmosfera è fredda, sospesa, "punitiva"...nessuna colonna sonora...nessun suono a parte le voci, le azioni e le vite "sofferte" dei personaggi tratteggiati magnificamente, anche solo negli sguardi e nei più semplici movimenti...Molto efficace la recitazione dei bambini e dei ragazzi...Nel "nastro bianco" si può quasi intravedere l'idea di purezza...di perfezione...di "razza ariana"...Quei fanciulli fanno parte della generazione che aderirà la nazismo, forse per "continuare" ed applicare l'educazione ricevuta (...in nome di Dio), forse per potersi in qualche modo vendicare su altri delle violenze e delle privazioni subite... Da vedere e su cui meditare...
Voti troppo alti per un film che ha si mille sfacettature ma che rimane sostanzialmente noiosissimo. Un capolavoro deve si far pensare ma non tediare irrimediabilmente. Non merita più di sette, quindi resta un buonissimo film, ma nulla più. Piuttosto Funny Games è più vicino al mio concetto di capolavoro ed il remake shot for shot all'originale, girato dallo stesso regista che probabilmente temeva che qualcun altro gli potesse rovinare il film, è stato semplicemente un tocco di genio.
Finalmente sono riuscito a vedere il Nastro bianco,sono rimasto soddisfatto,mi aspettavo una pellicola di alto spessore e non ne sono rimasto deluso.Peccati da scaricare,colpe talmente profonde da punire chi ancora il peccato non sa cosa sia.Belliddimo.
Capolavoro Haneke! Un film che si appresta a tantissime letture, in primis io personalmente l'ho letto come una metafora del nazismo che verrà.
"Le colpe dei padri cadranno sui figli e sulle loro generazioni"
Questo salmo del Vecchio Testamento viene letto al principio del film. Ed ecco che, in un'insana atmosfera, in un villaggio alla "spoon river" , che si gettano le basi, per colpa dei padri, verso quei figli che, un ventennio successivo, daranno vita alla più grande catastrofe del secolo ( e non solo).
"La guerra è il sistema con cui i padri mettono a morte i figli, per mantenere il potere" diceva il compianto Levi-Strauss.
Le basi sono gettate. Il male non nasce all'improvviso, ma si sviluppa poco alla volta, partendo da molto lontano, di generazione in generazione. Il male è un'entità quasi astratta che emerge lentamente nel racconto come embrione di un qualcosa ch poi scoppiera in maniera disastrosa (e non per nulla Hitler nacque proprio in un paesino dell'Austria).
Ma il film non è solo una metafora della civiltà prussiana. Potrebbe essere ambientato anche ai giorni nostri, un microcosmo emblema di un macrocosmo fatto di crudeltà, misantropia, indifferenza, invidia.
Come lettura invece di puro film "giallo" molte cose non sono date a sapere, ognuno conserva una propria opinione. Vedi spoiler. Ma non è questo a mio avviso il dato più importante.
L'atmosfera malsana di tutta la storia si accompagna ben oltre l'uscita dalla sala.
Chiarire alcuni processi socio-politici maturati nel mondo attraverso una minuziosa ricostruzione paesaggistica e umana di una Germania del Nord rurale e casereccia dal 1913 al 1914. Questo è l’intento di Haneke il quale corre il rischio, soprattutto durante la fluviale prima parte introduttiva e propedeutica, di una staticità registica legata come al solito a un estremo rigore formale. Una meticolosità necessaria tuttavia a farci assorbire i ritmi e le accezioni di vita di questo vario gruppo di persone che vanno dal pastore oscurantista al medico impudico, dall’intendente rissoso al potente barone retrogrado, dai semplici contadini alle numerose “figliate”, dal maestro di scuola innamorato alla levatrice oppressa.
Il gruppo di attori che da’ vita a tutte queste inquietanti e indimenticabili figure è miracolosamente bilanciato ed efficace. Non potrò mai dimenticare le espressioni meschine del reverendo padre e l’abilità simulatrice della figlia maggiore, il volto rigato dalle lacrime del peccato del giovane Leonard Proxauf, la segreta sofferenza della bambinaia (alla quale da’ volto la nostra Sara Schivazappa) e il recitare sommesso e misurato del maestro.
Il nastro bianco legato fra i capelli o intorno al braccio è una punizione che porta con se’ il colore della purezza ma è simbolo di una dannosa e rigorosa scuola dogmatica votata alla repressione sessuale e comportamentale. La rigidità messa in atto dalle persone più autorevoli del piccolo villaggio è così radicata e violenta da generare mostri. Haneke, abituale direttore delle depravazioni umane per eccellenza, ci conduce attraverso un’indagine di impronta quasi investigativa la quale cede presto il passo a un’attendibilità traslata. Al suo film possiamo contestare una messa in scena, attraverso l’algido bianco e nero, fin troppo perfetta, tanto che la follia emergente sembra fuori posto, quasi innaturale, ermetica e meno scomodante di altri lavori.
L’ambiente di Eichwald è dominato da malignità, invidia, stupidità e brutalità così tremendamente somiglianti alla società nella quale stiamo vivendo. La pellicola del regista austriaco non si ferma a puntare il dito contro il nazismo e la sua genesi ma si apre a un più vasto panorama antropologico. La deriva ingovernabile di alcuni “funny games” di oggi sembra essere il risultato di un retaggio sociale antico e pregresso.
Una sceneggiatura perfetta attraversa centoquarantaminuti di una sorta di GrandeFratello ante-litteram, in un tassello importante e nuovo alla spiegazione della follia del Nazismo, soltanto un'applicazione generalizzata e programmata della strisciante barbarie domestica che caratterizzava la puritana e poverissima Germania di inizio secolo. Un grande film, freddo e disperato, in cui per fortuna la voce narrante è l'unica serena e ragionevole. Mangifica la caratterizzazione del prespitero, bambini bravissimi, e la sceneggiatura, già detto, davvero eccellente, equilibrata e spietatissima assieme.
...uno dei pochi film dove, alla fine, è molto lecito dire: w l'Italia! ...da uomo del sud, pensavo continuamente alla diversissima tessitura sociale che caratterizzava la nostra penisola... e l'uso dell'imperfetto è purtroppo altrettanto opportuno.
Devo essere sincero,mi aspettavo molto di più. In questi giorni ho visionato gli altri lavori del regista e devo ammettere che "Il nastro bianco",sebbene sia sicuramente il migliore dal punto di vista tecnico e della regia,è alla stesso tempo quello che mi ha emozionato di meno e annoiato di più. Questo non vuole dire che non sia un buon film ma sicuramente non lo reputo un capolavoro.
Film molto interessante sulle radici che successivamente portarono al nazismo. Quindi al Male. Forse è un pò troppo semplice liquidarlo cosi ma questo è. Ad Haneke interessa il male,come gà aveva sperimentato nel più sperimentale (scusate il gioco di parole) Funny games ed infatti anche ne Il Nastro bianco riece a ritrarlo alla grande sempre con il suo stile immobile,statico e con scene veramente inquietanti e dolorose
su tutte il pianto insopportabile del bambino down o le giustifiche riguardanti le violenze della figlia del medico.
è un bel film,non so nè mi interessa sapere se meritasse o no la palma d'oro ma da tutti i commenti precedenti credo proprio di si. Non lo considero un capolavoro,questo si. Ad ogni modo è innegabile la bravura sia dei bambini del cast,formidabili,che di Haneke,regista che indubbiamente va sulla sua strada a dispetto di chi lo seguirà. Anche se il mio voto al film non è altissimo,posso dire che solo i grandi registi fanno cosi.
Un film mortificante e intenso, durante la visione si prova un disagio indescrivibile, l'intimità tra i rapporti umani è continuamente oppressa dalla rigorosa e aberrante educazione cattolica. I personaggi si muovono con toni plastici (alla Bresson) in un b/n con contrasti forti e un'atmosfera algida (alla Dreyer). Il male si semina silenziosamente dietro quella oppressione, il piano sequenza in cui i bambini rubano lo zufolo al figlio del padrone feudale è da antologia, Haneke riesce perfettamente a dare un moto naturale alla violenza che ne è derivata dalla sopraffazione di una classe sociale su un'altra, l'uomo ha la necessità innata di dover esprimersi a livello pari di un altro essere umano per vivere in armonia in uno spazio, lo zufolo acquista una forza simbolica straordinaria. Niente in questo film è a caso. Persino la recitazione degli attori, ho trovato particolarmente sconvolgente la sequenza in cui un ragazzo trova inusuale sentire le urla dei bambini mentre giocano e li guarda come se fosse qualcosa di estraneo alla sua vita, i suoi movimenti meccanici, i suoi occhi vuoti sono un pugno sullo stomaco. Questo film è un capolavoro, accolto tiepidamente dal pubblico perché ormai quasi incapace di cogliere emozioni sottili, così violente e penetranti in un'opera cinematografica, ed è questo proprio il suo merito. L'arte comincia con il senso dell'inutile, Haneke fa dell'inutile uno straordinario microcosmo per indagare sul mistero della natura umana e sulle sue relazioni con il male. Ogni gesto, ogni particolare di questo film non è a caso, è una ricerca che finisce col mortificare la mente dello spettatore, perché è lui che trova un significato dietro quelle inutili apparenze. Il film si chiude all'interno di una chiesa, la più grande e piacevole menzogna dell'essere umano, l'unica capace ancora di sfuggire alla verità e alla comprensione della natura umana. Da citare anche la sequenza del bambino che dà una performance incredibile, uno dei volti più dolorosi del cinema, mentre viene accusato dal Padre di onanismo. Andate, correte al cinema a vederlo.
La scelta di girare un film in bianco e nero, di utilizzare dei dialoghi interminabili e snervanti, l'assenza di musiche al principio ed alla fine del film, denotano un anticonformismo che attrae ed incuriosisce. La fotografia, le interpretazioni, ed alcune scelte del regista sono ben riuscite,
E' un film spietato, senza via d'uscita. Il microcosmo di una società repressiva e autoritaria nel suo dogmatismo, leggi e valori che fanno emergere ciò che sarà il macrocosmo della Germania nazista. Haneke affonda il coltello in profondità, con una splendida fotografia in bianco e nero che ne evidenzia il tono sinistro, senza musica e quasi del tutto assente ogni contatto fisico che possa ricordare un gesto di vero affetto. E' un villaggio carico di invidia, rancori e volontà di sopraffazione che saranno i semi della Nascita di una (nuova) nazione, i nastri bianchi si trasformeranno nelle fasce marchiate dalla svastica.
Ottimo bianco e nero,bella la fotografia ricorda certi film di Bergman. Haneke non si smentisce confermandosi regista disturbante, riesce a scavare nella parte malata di ognuno di noi come pochi altri. Film incentrato su un puritanesimo esasperante e sui pericoli che un'educazione del genere può comportare.
Film assolutamente non per tutti i palati, che si apprezza "a freddo" e cioè solo alcune ore dopo la visione... Una stupenda ricostruzione sociologica di come si viveva nei villaggi europei del primo novecento, e non solo ma anche nei secoli precedenti visto il tipo di vita molto rurale. Dicerie e ignoranza potevano, come anche accade oggi, creare forti discrepanze tra la verità vera e quella apparente.
di voler uccidere il regista per avermi tenuto incollato alla poltrona per circa 2 ore e mezzo senza che poi svelasse la soluzione di nessuno degli avvenimenti misteriosi proposti. Poi, però, ho pensato che non era poi così importante conoscere il colpevole (o più verosimilmente i colpevoli), ma il far vedere come il male si annidi all'interno di un paesino apparentemente tranquillo e regolato da rigide norme religiose ed in cui alla fine si bada più all'apparenza che alla sostanza. La ricostruzione del tutto e la caratterizzazione dei personaggi è magistrale.
. Convincente la scelta di girare in bianco e nero.
Michael Haneke analizza la genesi del male prendendo come ambientazione un villaggio contadino tedesco del 1913. Questo microcosmo analizzato rispecchia ciò che in maniera più plateale si svilupperà nell'immediato futuro dell'intera Germania. La magnifica scena iniziale in cui viene bruscamente interrotta una cavalcata apparentemente liberatoria dà il LA ad un incubo in b/n che terrà l'attenzione di qualsiasi spettatore viva per il resto del film. Un film in cui non c'è via di fuga dal malvagio, in cui non c'è felicità e non c'è musica. Ricco di alti riferimenti questo film premiato a Cannes è uno di quei piccoli gioielli imperdibili.
Uscito dal cinema a primo impatto non sapevo davvero come valutare l'ultimo lavoro di questo regista, uno di quelli che ammiro di più. Sapevo che mi era piaciuto eppure a causa della sua complessità e delle sue sfaccettature ho dovuto rifletterci un po' su. Alla fine sono arrivato alla conclusione che si può parlare tranquillamente di un capolavoro. Haneke torna alla ribalta facendoci entrare in un villaggio austriaco agli inizi del '900 dove la vita sembra tutta casa e chiesa ma che, a causa di una serie di eventi, verrà stravolta per sempre. Come un pittore col suo quadro, Haneke ha "pennellato" delle scenografie davvero meravigliose. L'uso del bianco e nero non fa altro che accentuare la percezione dell'essere lì, a vivere le vicende di questa comunità. La fotografia è una delle migliori che io ricordi, curata nei minimi dettagli. Meno esplicito ma più intimista de La Pianista, altrettanto sconvolgente nell'evolversi della vicenda. Si parte dalla purificazione dello spirito per poi passare(ahimè) alla purificazione della razza umana, il tutto in maniera lenta ed inesorabile. Nonostante la lentezza riscontrata però non mi ha annoiato neanche un po' e l'uso della voce del narratore fuoricampo rende il tutto più fluido ricordando un po' Dogville di v. Trier. Quì però il male non è presente solo nei cittadini adulti della comunità ma anche nei bambini, simbolo da sempre di purezza ed innocenza. Quella stessa purezza viene però macchiata da un contesto violento ed oppressivo che è la comunità in cui essi vivono. Grazie mille Haneke, oggi per 2 ore e 30 circa ho visto un po' di Bergman rinascere.
Haneke con questo film firma,probabilmente,il suo miglior lavoro! Regista poco apprezzato dalle masse perche è uno che rischia con storie difficili che spesso non fanno altro che portare al disgusto lo spettatore... Qui ci parla della nascita del male in un piccolo villaggio Tedesco agli albori del primo conflitto mondiale! Questo desiderio di fare del male nasce soprattutto dalla societa',un bisogno quasi fisiologico per sfuggire alla cruda realta'! Tanta sofferenza che si trasmette allo spettatore... Il modo in cui è girato mi ha ricordato molto Dreyer,regista che adoro. Unica pecca forse è l'eccessiva lentezza in alcuni momenti,come il dialogo finale tra i barone e la baronessa! Da vedere!
Il nastro bianco è la presunzione, oltre ogni evidenza e pudore, di un'innocenza inesistente, annichilita dall'autoritarismo e dal rigore "prussiano", protestante, della Germania imperiale alla vigilia della Prima Guerra Mondiale. Il laboratorio dell'odio, che Haneke prende a modello, è un piccolo villaggio agricolo più o meno autosufficiente nel quale si riproducono tutti gli elementi che porteranno, di lì a poco, al dispiegarsi della catastrofe tedesca. Haneke compie una vera e propria operazione storiografica (entrando con merito nel grande e controverso dibattito storiografico tedesco) sulle ragioni, sui meccanismi e sui conflitti che hanno prodotto la genesi e il dilagare del nazional-socialismo, dando un contributo artistico ed estetico (dai risultati notevoli), non so quanto esplicitamente voluto (in senso storiografico, s'intende), alle tesi di Fischer sulla continuità della storia tedesca tra l'imperialismo guglielmino e le due guerre mondiali, entrambe attribuibili - secondo lo storico amburghese - all'aggressività e al militarismo tedesco, non estrapolando in tal modo, come aveva fatto la storiografia tradizionale, il nazismo quale anomalia dovuta alla follia hitleriana dalla storia della Germania contemporanea. In realtà, Haneke osserva un frammento di storia attraverso l'analisi sociologica piuttosto che politica di una sezione particolare della società tedesca. In questo Haneke sembra recuperare anche la lezione di Rosenberg [1] e dei Nuovi Storici Sociali. In particolar modo, da Rosenberg Haneke riprende lo "studio", se così possiamo definirlo, degli junker, i latifondisti, una classe assolutamente fondamentale nel tessuto politico-militare della Prussia e della Germania imperiale, e del mondo feudale che li circonda. Il verticismo di questa comunità autoritaria si risolve nella freddezza e nella rigidità (immutabilità ancestrale e perpetuata) dei rapporti interparentali e comunitari, nell'ipocrisia di fondo che li regola e nella crudeltà delle parole e dei gesti pronti ad esplodere sotto - e nonostante - il candore dichiarato ed esibito dell'autorità morale e religiosa del villaggio. Ciò che conta, infine, per l'economia del film non è conoscere la verità sui fatti delittuosi accaduti, né scoprirne i responsabili: è importante sapere che il male della catastrofe tedesca è già tutto lì, evidente anche se apparentemente inspiegabile. Se guardando ai nodi irrisolti della storiografia tedesca oggi parliamo di un "passato che non passa", nel film di Haneke è il futuro che sta passando, minaccioso, inquietante e inafferrabile.
[1] Cfr. G.Corni, "La revisione dell'immagine della storia tedesca": <<[...] egli [H. Rosenberg] ha individuato nel periodo successivo all'unificazione e negli ultimi decenni dell'Ottocento il momento cruciale della storia tedesca successiva. [...] dalle conclusioni dei suoi lavori sono tuttavia desumibili i principali elementi per un simile giudizio [la continuità storica]: il carattere autoritario della struttura istituzionale, la rigidità sociale, [...] le nefaste conseguenze del blocco storico fra grande industria e agrari orientali all'insegna del protezionismo, la discrepanza fra sviluppo economico accelerato e modernizzazione politica bloccata, la diffusione di massa delle ideologie irrazionalistiche>>.
Haneke prosegue ed estende la sua analisi socio-antropologica sulla genesi del male, scegliendo questa volta come laboratorio un villaggio tedesco di inizio secolo in cui i dogmatismi dell'autorità, qualunque ne sia il tipo (politico, religioso, familiare), scavano un solco irrecuperabile tra le generazioni desaturando, nell'esaltazione del bianco e nero, sentimenti, affetti e ogni sorta di legame umano. Bastano poche pennellate, pochi sguardi (splendida la locandina) in un lungo e opprimente quadro d'insieme, a farci rendere conto di come questo modello formativo impatti in modo irreversibile, sui minori e sulle loro scelte. Dal punto di vista storiografico ne esce un'opera importante per leggere la Germania dei decenni successivi mentre da quello cinematografico un film potente e completamente fuori dal tempo, vi convergono Bergman e Dreyer dietro la mdp, Mann, Junger e Doblin alla scrittura. Film duro e coraggioso, lucido e mai ammiccante, da vedere.
Dal Nastro Bianco non mi aspettavo null’altro di quello che ho osservato. Haneke non vuole spettatori in cerca di facili logiche e soluzioni da cinema in scatola cinque minuti di microonde ed il piatto è servito wow. Questo già lo sapevamo. Haneke è un violento espositore, formalissimo chirurgo che sotto i suoi tagli esatti e le sue aperture antropologiche eseguite con il diverticolatore lucidissimo delle sue inquadrature fisse mostra le budella, le viscere e gli intestini dell’essere umano in fotografie di fermi immagine, cinematografie spacca occhi sotto teche di cristallo infrangibile.
La sua Mostra è algida, minimale, cadenzata e kubrickiana. Senza individualità da applausi, senza eroi da salotto, senza compartecipazione. Sotto i suoi colpi d’ascia silenziosi si nasconde sempre lo stesso orrore. La Storia è sempre la stessa per Haneke perché l’uomo è sempre uguale a se stesso. Non ci si faccia ingannare: il contesto storico è ininfluente, quello che verrà dopo, quello che è stato prima, il generatore e le genesi, ininfluenti. La reazione dello spettatore? Anch’essa ininfluente. Lo spettatore del cinema di Haneke deve improvvisarsi attento e meticoloso ricercatore di spazi fra i gesti, altrove insignificanti. Perché Haneke non lascia mai nulla al caso. La sua illogica perversione è un’equazione matematica in cui dopo l’uguale c’è sempre lo stesso risultato.
Egli non ha alcun interesse per le calorose risposte emotive dello spettatore, ad Haneke interessa mostrare gli ingranaggi al rallentatore, dissezionati sapientemente dal suo sguardo implacabile, senza evoluzioni sanguigne, senza colpi sensazionalistici. Non c’è spazio per la vera immaginazione ma solo per l’indagine degli spazi morti che rimangono sempre fuori da ogni inquadratura eppure prepotentemente alla mercé di tutti. Perchè il disgusto nasce da ciò che in realtà non abbiamo visto. Eppure c’era. E lo sappiamo. Il cinema di Haneke ha un nastro bianco di materia cerebrale al braccio, un arto in cancrena, infilzato dalla sua forbice di acciaio. Prendere o lasciare.
Il Nastro Bianco rappresenta, a mio avviso, una evoluzione ulteriore del cinema di Haneke. C'è tutto delle precedenti pellicole, ma c'è anche dell'altro. Se in precedenza, infatti, Il regista austriaco focalizzava la propria attenzione su un singolo personaggio o su un nucleo familiare per vivisezionarli e portare a galla debolezze e lati oscuri, questa volta i riflettori vengono puntati su un intero villaggio. Un villaggio in equilibrio su di una sbarra di perbenismo appena sopra quelle zone paludose dell'animo umano in cui si mischiano e confondono violenza, paura e una percentuale bassa ma letale di inconsapevolezza. Attraverso un b/n gelido ed una regia così ferma da non ammettere cambiamenti di sorta, Haneke fotografa un agghiacciante punto di non ritorno che in quanto tale rifiuta l'intervento di un qualsiasi fattore interno o esterno che possa minare tale malsana stabilità: il maestro dopo aver provato a mettere un piede fuori dalla sbarra suddetta, al fine di far luce sulla spirale di violenza, viene offeso e minacciato. Ci penserà quello stesso microcosmo a giustificare e a far accettare tali dinamiche; tutto, infatti, verrà poi spiegato dai castelli costruiti sulla fuga della levatrice e del dottore: nessuno rifiuta un piatto caldo in una sera gelida.
Un Haneke, quindi, sempre freddo e analitico ma ancor più spietato, se possibile, nell'inquadrare l'animo umano. Se prima il suo cinema dava se non altro la parvenza di delineare focolai di violenza in unico personaggio o nucleo, questa volta, invece, il respiro è ampio, definitivo e la violenza lascia quel retrogusto amaro tipico dell'assenza di speranza.
Tuttavia, ciò che è maggiormente degno di nota è che durante la visione del film nessuno si è lamentato o si è alzato né tanto meno ha sbuffato. O un cellula terroristica di neuroni per la libertà ha usato il cinema come luogo d'incontro, oppure in Italia sempre più gente sta ridisegnando i propri orizzonti in fatto di cinema. Delle due l'una: chiaramente la prima.
Il nastro bianco è un ritratto crudele, spietato e disilluso di come la cattiveria e la malvagità siano lati innocultabili dell'essere umano, che in un modo o nell'altro riescono sempre ad emergere, nonostante vengano repressi da rigidi schemi comportamentali e dalla cieca obbedienza ad inconfutabili dogmi, religiosi e non.
Ci sarebbe ancora altro da dire ma non vorrei cadere in ripetizioni di concetti espressi in alcuni commenti esaurienti lasciati da altri utenti.
Visione spiazzante, amara, claustrofobica, marcia e indigesta, un pugno nello stomaco e un nodo alla gola.
Michael Haneke è uno dei pochi registi che fanno film prima per sè stessi poi per il pubblico. Michael Haneke è un regista di pura sensazione che usa lo strumento del cinema come messaggio: nella sua lucida e cinica analisi riesce sempre ad essere esaustivo. Colpisce il cervello ma soprattutto la pancia.
"Il nastro bianco" è un film immenso.
Guardarlo è come trovarsi in una stanza cupa, senza via d'uscita, nudi, in presenza del Male. Il Serpente che lo raffigura si fa sempre più vicino al tuo corpo, lo senti arrivare, ma non lo vedi. Poi eccolo lì, di colpo, sulle tue membra. Striscia sui tuoi piedi, si avvinghia sulle tue gambe. Il suo eterno trascinarsi lo senti caloroso sulla tua pelle. Egli non conosce il perdono o la redenzione. Tu sei fermo, tremante, hai terrore del suo veleno ma nel contempo ne sei affascinato. E più si avvicina al tuo viso più senti il suo fetore, sudicio, interminabile. Raggiunge il suo scopo e penetra nelle tue narici. Il marciume del suo molle corpo fa ormai parte di te. Scende per la gola e si acquieta dentro il tuo stomaco.
Poi finisce il film, la luce si accende, pensi ad una doccia calda e profumata ma sai che ormai non c'è via di scampo. D'altronde facciamo o non facciamo parte anche noi della razza umana?
Quasi un trattato scientifico sulle Origini del Male. Haneke firma un film dallo stile rigoroso e splendido come il suo b/n. Ci mostra come il Male venga coltivato in vitro dai Padri e non sembra casuale che il Padre Nostro per eccellenza sia un Reverendo. In un Universo dove il Signor Padre castra e infligge punizioni, la coltura pura della Violenza trova la sua giustificazione, così come l'impunità per un uccellino scannato vivo. Al Signor Padre poco importa cosa i Figli compiono, il Male che infliggono agli altri esseri, a Lui importa solo il rispetto per le Sue regole che non possono essere violate, pena la violazione della intimità fisica e psichica del trasgressore. La differenza tra la tortura del Padre e quella di un qualsiasi sistema dittatoriale appare insignificante, parliamo sempre di Istituzioni. Merleau Ponty nello scritto dal titolo eloquente, “Umanesimo e terrore”, scrive proprio su questo. Per MP al torturatore interessa unicamente violare quello spazio di intimità psichica in cui abitano da sempre paure ancestrali come la morte e, ancora di più, il terrore di un dolore infinito. La tortura istituzionalizzata (famigliare, sociale) riduce in pezzi la rete che ci costituisce come esseri umani. E’ come se il torturatore ci dicesse: “Tu devi morire se non accetti di essere il Figlio che io plasmo, se ti dichiari di un'altra razza, religione o convinzione politica. Tu, ciò che è tuo, tutto ciò che sei stato o in cui hai creduto, tutto questo diventerà polvere”. La certezza indiscutibile e delirante di questa affermazione, procura un’angoscia che è indicibile. Lede una zona di segreto e opacità, un nucleo occulto, cuore di ciò che definiamo come la parte più intima e privata del sé, assediata e invasa nella tortura. Che differenza si può riscontrare tra il Reverendo e il Padre di una Nazione? Nessuna. In un passaggio indimenticabile di “Se questo è un uomo” Primo Levi evoca il momento del suo ingresso al campo di concentramento, l’incontro con il medico che si occupava della sua ammissione, il Doktor Pankov, il cui sguardo trasmetteva il seguente messaggio: "Questo qualcosa davanti a me appartiene a un genere che è ovviamente opportuno sopprimere. Nel caso particolare, occorre prima accertarsi che non contenga qualche elemento utilizzabile". In un Universo lucidamente apolattico come quello di Haneke a salvarsi è un essere ignobile quale il Dottore, mediocre nelle sue perverse debolezze. Il trattato di H è implacabile e oggettivo: alla coltura pura del Male, soppravvive una umanità ritardata, schiava delle proprie debolezze. Noi Figli del Nostra piccola Italia non possiamo che tristemente dare ragione al geniale regista austrico. Le attuali vicende dei nostri politici sono lì a dimostrarlo.
Già storia del cinema. Un micidiale ritratto della Male intrinseco al monossido di carbonio, con tempi e potenza mai visti prima. Ancora più radicale e senza speranza dei Demoni di Dostoevskij, con coro di personaggi abietti, dal pastore ai Bambini, che con rigore vengono presentati con le stesse malattie congenite dei padri, in più vittima di disumana repressione ideologica, che quasi conferisce loro il Diritto al Male. Tranne i più piccoli, piccolissimi, il figlio del medico e il minore del pastore, che guardano alla morte e alla vita (di un uccellino) con stupore, carità, devozione e che stridono come una sirena, come il grido di dolore di un ragazzino ritardato. Un candore essenziale che sarà perso dopo pochi anni, proprio nell'età del 'nastro bianco', la coercizione morale grottesca del titolo. E' un giallo in cui tutti sono colpevoli; uno paesaggio umano così desolante che ricostruire i veri fatti, volutamente adombrati, sembra irrilevante. La brutale, realistica blasfemia di Haneke porta a chiedersi se sia peggiore un medico che umilia l'amante e violenta la figlia, o una bambina di pura forma, che nel suo intimo cova un rancore drammatico e disprezza qualunque forma di vita. La regia di Haneke è statica, geniale, perversa, violentissima. La sua filosofia è ancora peggio. Ha in mente un universo ostile, senza Dio, privo di scopo, ma anche della possibilità di una fiducia illimitata nell'uomo, che è mal concepito, schiacciato dalla percezione della sua natura, e che la peggiora, con la cultura, fino a renderla disfunzionale, che accetti il male senza nemmeno accorgersene. La prima guerra mondiale arriva senza soluzione di continuità, ed è un sollievo.
Innanzitutto mi complimento con JellyBelly perchè il suo commento a questo film ne racchiude davvero l'essenza. Il Nastro Bianco è un pugno nello stomaco.
Haneke ha la stessa visione pessimistica del quotidiano di Fassbinder a cui unisce una profondità di analisi dei rapporti tra esseri umani di Bergman. Si non si esagero ad accostare Michael allo svedese. Questo è il suo film più completo e più amaro in assoluto,a pari livello con quel capolavoro che è La Pianista. Le inquadrature fisse hanekiane sono più disturbanti che mai,il film scorre lentissimo dando un senso di oppressione e claustrofobia.
Gli scatti d'ira dei personaggi spaventano per la loro imprevedibilità e violenza sia fisica che verbale,nessun soggetto è positivo,tutti invischiati in un ingranaggio di modelli comportamentali che appiattiscono,distruggono l'io più profondo facendone uscire solamente le scorie.
Davvero perfetto nella sua parte Burghart Klaußner,già apprezzato in Requiem e The Edukators.
Attenzione,non è un film per tutti,ieri all'anterprima,su una quarantina di persone in sala parecchi hanno abbandonato,quasi tutti son rimasti delusi e con l'amaro in bocca. E' indigesto e molto ostico. Lunga vita ad Haneke.
Un po come per 'l'avventura', sbattiamocene della risoluzione del giallo di superficie (la cui risoluzione peraltro è facilmente intuibile) e badiamo ai contenuti coi quali abbiamo a che fare. Il film è incisivo nel manifestare una brutalità radicale trasmessa come un morbo attraverso lo strumento dell'educazione in un micromondo animato da personaggi che sembrano uscire da un incubo. Le figure autoritarie del racconto instillano un codice di odio e intolleranza attraverso uno strumento repressivo come l'esercitazione del potere. Odio, discriminazione, stigma: i passaggi, poi, verran da se (lo stigma è il nastro bianco del titolo, appunto). Haneke mostra anche delle eccezioni (il protagonista e voce narrante, Eva, la baronessa e la nutrice) forse per alimentare un contrasto evidente, animato da linguaggi talmente contrapposti da risultare grotteschi (la scena del dialogo tra il maestro e il padre di Eva o quella principale tra il medico e la nutrice). Il linguaggio cinematografico invece, benchè assolutamente non innovativo è da grande cinema. Haneke omaggia a ripetizione Bergman: l'atmosfera opprimente agevolata da scenari spogli ('luci d'inverno'); l'algido bianco e nero (eccellente) ricorda quello de 'la vergogna' e il personaggio del Pastore sembra ricalcare in tutto e per tutto quello di 'Fanny & Alexander'. Non lo reputo il miglior film che ho visto a Cannes perchè non l'ho trovato capace di trasmettere l'importanza dei contenuti con il dovuto fervore e quella dose di emozione necessaria a lasciar fluire la vicenda sulla mia pelle e a costituire quell'unisono indispensabile affinchè un film possa essere davvero determinante per me.
Pur essendo un prodotto radicalmente diverso dal resto della filmografia di Haneke, il male è sempre al centro della sua idea cinematografica: un male questa volta visto da un'angolazione corale senza ricorrere all'ennesimo microcosmo domestico raccontato in capolavori come Funny Games, La Pianista o Chachè.
Girato in uno strepitoso bianco e nero, Il Nastro Bianco è una visione che cresce lentamente sotto pelle: messa in scena statica e geometrica priva di qualsiasi commento musicale (neanche sui credits iniziali o sui titoli di coda) lunghi piani sequenza e una tensione costante capace di colpire nella maggior parte dei dialoghi, alcuni dotati - come spesso accade nel cinema di Haneke - di una forza emotiva devastante.
Ambientato in un villaggio tedesco ai tempi della prima guerra mondiale, la pellicola racconta di una tranquilla comunità "sconvolta" da una serie di strani eventi: non è un thriller, chiariamolo subito, il filo conduttore della storia richiama fin da subito il tema della provincia popolata da invidie, segreti e ostilità...azioni che ricadono inevitabilmente sull'educazione dei bambini immersi nella Germania protestante di inizio secolo. In tutto questo la violenza tipica del cinema del regista Austriaco arriva in maniera meno diretta, se vogliamo meno forzata rispetto i lavori precedenti, ma ripensandoci a mente fredda questo forse è uno dei primi pregi del film...duro, realistico e chiaro fin dalle prime immagini.
Tecnicamente poi è un lavoro meraviglioso, girato in una splendido bianco e nero ricco di sequenze semplicemente memorabili. Il tutto è arricchito da un cast perfetto - soprattutto i bambini - con una serie di caratteri sviscerati in maniera chirurgica.
Rimane una visione impegnativa, non facile da digerire, il classico film da festival che in sala incasserà due euro rimanendo in cartellone non più di due giorni....ma è anche un pezzo di grande cinema, di quelli che più ci ripensi più la stima verso di esso cresce, giorno dopo giorno.
Aspettando la recensione di Jelly che sviscererà quest'ultimo lavoro di Haneke, mi sento di scrivere un paio di righe da spettatore un pò deluso. Alla domanda "mi è piaciuto?" risponderei di ni. Se dal punto di vista tecnico il buon Michael è sempre una garanzia (fotografia e regia ottima), questa volta non mi ha convinto lo sviluppo estremamente lento e un filo conduttore difficile da identificare. Forse, questo filo può essere semplicemente "il male", insito in gran parte degli esseri umani, spesso mascherato in maniera subdola e terrificante. Haneke lo mostra piano piano allo spettatore, portandolo nella malata psiche degli abitanti di un villaggio nella germania alle porte della grande guerra. Chi è salvo da questo male?
Personalmente però ho trovato i tempi della narrazione troppo rarefatti, a volte funzionali (come la fantastica scena dell'inquadratura della porta), altre meno. Un film sicuramente non per tutti ma unico.
"Il nastro bianco" è un capolavoro che sconvolge le regole del cinema, raccontando una storia di malvagità, sopraffazione, grettezza, cinismo e morte da un punto di vista personale ed innovativo. "Il nastro bianco" è un quadro le cui figure prendono vita; è una poesia per spaventare i bambini, è un idillio spezzato. "Il nastro bianco" è la demolizione di ogni purezza.