Voto Visitatori: | 8,36 / 10 (62 voti) | Grafico | |
Voto Recensore: | 9,00 / 10 | ||
Appare doveroso aprire la recensione de "Il buio oltre la siepe" con la frase o la sequenza che si ritenga più adeguata, che risulti onnicomprensiva del significato o messaggio della pellicola, che fissi insomma un'immagine a mo' di icona del film stesso.
Ebbene, minuto 49: Atticus e Scout, padre e figlia, sono seduti sugli scalini della loro casa a parlare dopo un incidente avvenuto a scuola. La piccola quello stesso giorno aveva infatti malmenato un compagno di classe il quale si era fatto beffe di lei perché suo padre "difende i musi neri". Non è cattiveria, è solo ripetere a menadito quello che i genitori o i più grandi dicono, come fanno sempre i bambini, senza riflettere, senza tener conto della possibilità che quelle parole possano esser sbagliate.
Ma Atticus non si scompone, redarguisce anzi sua figlia perché la violenza in ogni caso è ingiustificabile e conclude: "Ci sono delle cose Scout, che tu sei ancora troppo piccola per capire", fissando così una sottile linea tra i loro due mondi, una linea talmente incerta, talmente evanescente che non si può mai stabilire con sicurezza chi è abbastanza "grande" per capire veramente.
Il quadretto famigliare sopra descritto, in cui il padre assolve alla sua funzione di istruttore di vita verso la figlia, una vita per molti aspetti sbagliata e perciò difficile e quasi imbarazzante da spiegare a parole, sintetizza perfettamente quello che "Il buio oltre la siepe" (1962) - tratto dall'omonimo romanzo di Harper Lee di due anni prima, vincitore, tra l'altro, del premio Pulitzer – è: un'elegia dei "valori di una volta", come si dice, una particolare fiaba di provincia dove, in mezzo a tanto spettacolo di squallore e povertà, trionfa il bene, l'amicizia impossibile, l'amore paterno nell'indispensabile happy ending.
Non lo rende questo un film verboso, poiché gli insegnamenti di Atticus Finch, un indimenticabile Gregory Peck nominato il più grande eroe del XX secolo dall'American Film Institute, equivalgono, dopo la visione, a un'esperienza di vita vissuta, come se, oltre ad essere un personaggio padre, egli assurga alla figura tipo del padre moderno: responsabile, comprensivo, onesto. Un padre di tutti noi.
La vicenda si svolge a Maycomb, immaginaria cittadina del profondo sud americano, in Alabama, nel 1932: la piccola provincia in questo caso è una sineddoche, come spesso si fa, ovvero sta in rappresentanza di una condizione presente in una grossa fetta degli States: odio razziale, schiavitù, pregiudizio, ignoranza generalizzata - che poi sta a riassumere i punti precedenti -, tratti scalfiti nella mentalità umana che nessuna guerra civile può cancellare.
La famigliola protagonista è composta da Atticus Finch, avvocato rispettabile e rispettato, e dai suoi due figli Jem e Scout che hanno perso la madre da piccoli; la tranquilla esistenza di questi si svolge tra giochi, nuove amicizie e qualche marachella, compresa la caccia al mistero di Boo Radley, il ragazzo pericoloso che vive nella casa maledetta.
Il fatato equilibrio apparente che regna sull'assolata cittadina è però rotto da uno scandalo: Bob Ewell, noto ubriacone del villaggio, denuncia Tom Robinson, un nero, per avergli violentato la figlia. Alla difesa di Tom viene chiamato proprio Atticus il quale, per non sfigurare di fronte a se stesso e ai propri figli, non si tira indietro. È evidente che la colpevolezza di Tom sta solo nell'essere un uomo di colore e Atticus, pur dimostrando in udienza l'innocenza dell'imputato, deve scontrarsi con l'ostilità del popolo e della giuria, che lo condanna di fronte alla molto meno allettante alternativa di ammettere un incesto da parte di un bianco.
C'è ancora la speranza dell'appello, ma il povero Tom, in un disperato tentativo di fuga, viene ucciso accidentalmente (?). La vendetta di Bob verso Atticus non si fa attendere; egli infatti aggredisce i suoi due figli, ma provvidenzialmente fa la sua comparsa Boo Radley, il ragazzo malato di mente, che nel salvare i bimbi finisce col ferire mortalmente il vecchio ubriacone.
Basta uno sguardo per mettere in luce una cosa: a muovere i fili della storia è il logos, o meglio la sua carenza, l'ignoranza dilagante, che non è cattiveria ma finisce per generarla. In tal modo si evince come questa fiaba non si risolva nel binomio protagonisti/antagonisti, nel manicheismo dei buoni e dei cattivi, ma insista più che altro sull'unica categoria possibile: i disgraziati, entro la quale si possono poi differenziare i positivi e i negativi.
È un po' come nel verismo o, per parlare in termini cinematografici, nel neorealismo: i personaggi sono tutti a bordo della stessa zattera in preda alla tempesta, vittime di un destino che raramente dispensa giustizia, puniti chi con l'ignoranza, chi con il colore della pelle o con un'insanità mentale (che rappresentano punizioni proprio in ragione dell'ignoranza degli altri).
Il logos, come lo intendevano i greci con i suoi innumerevoli significati, è la Parola, il Discorso, un concetto profondo, una potente risorsa alla stregua di un'arma che rende, chi la possiede, pressoché onnipotente: in questa storia dell'America anni '30 è presente nelle vesti di un padre modello, ed è incarnato, non casualmente, in un avvocato, che fa proprio della parola il suo mestiere, il suo oggetto, la sua vita, al servizio di quella altrui.
Atticus Finch, gemma della comunità, parte dalla parola come mezzo del vivere civile, elemento sanatorio delle istituzioni, della famiglia in primis e dal discorso come momento riconciliante dopo ogni squilibrio (la scena inizialmente descritta ne è il più limpido esempio), ponendosi in forte contrasto con i ritratti odierni di famiglie disastrate dove alla parola si sostituiscono le grida.
Neanche la parola tuttavia, prerogativa di pochi in una società che non è quella greca e che si è fatta strada col sangue, può niente contro gli incontestabili assiomi sulla razza, radicati da sempre nelle credenze rustiche. Episodi di cronaca americana di quegli anni lo confermano, come la triste vicenda dei due anarchici italiani Sacco e Vanzetti, raccontata da Montaldo in un film del '71.
Si ricorre allora, malgrado il ripudio della violenza insegnato ai figli, alla maniera forte, all'estirpamento della mela marcia, che porta inevitabilmente dell'altro marcio con sé.
A tal proposito si ricollegano le due metafore animali del film: quella del titolo originale, "To kill a mockingbird" (tradotto in italiano con "Uccidere un usignolo", anche se letteralmente il mockingbird è il tordo beffeggiatore, poco noto in Europa) dove l'usignolo può essere un Tom Robinson o un Boo Radley, innocui personaggi che possono fare solo del bene la cui uccisione sarebbe un delitto doppiamente grave; e quella del cane randagio affetto da rabbia, abbattuto da Atticus, un essere pericoloso per gli altri ma incolpevole, proprio come Bob Ewell capace, nella sua condizione, solo di fomentare il cieco odio.
D'altra parte abbiamo il metodo adottato nella narrazione, l'aspetto più interessante del film, che inizia con Scout che ritrova vecchi oggetti e ricorda le lontane estati che tanto cambiarono la sua vita.
La voce narrante appartiene a una donna oramai matura che tuttavia conserva il punto di vista del bambino, poiché i suoi ricordi rimangono condizionati dal puro filtro dell'infanzia, quello appunto attraverso il quale li ha vissuti, ma ha allo stesso tempo la possibilità di valutarli e commentarli da un'altra epoca, in cui, forse, molte cose sono cambiate – e chissà quante dovranno ancora cambiare.
La mente dei bambini è vergine, ha da plasmarsi, non è perciò fuorviata dagli schemi mentali che invece avvince e intacca quella degli adulti; il loro mondo è fatto di immediatezza, spontaneità, sincerità, di quella capacità di arrivare, a volte, al succo della questione meglio di quanto si possa fare con un approccio ragionato.
Attraverso due occhi pargoli tutto appare diverso: ogni oggetto è vivificato da un'anima, ogni altro bimbo è un compagno di avventure - Dill, venuto dal Mississippi, che dai modi denota l'appartenenza a una famiglia di certo non contadina -, ogni piccola diversità, nonostante l'innato timore che si prova per il "buio oltre la siepe" – questa la traduzione italiana del titolo ad indicare l'ignoto che si cela dietro casa - è un curioso mistero da risolvere, e in tal modo anche il "diverso", isolato dalla malevolenza popolare, è un campo d'indagine, va rivalutato, indagato, scoperto sotto un'altra luce: difatti i tre protagonisti non si trattengono dallo scrutare attraverso la porta vetrata – che è, idealmente, proprio quella linea da varcare di cui si faceva cenno sopra – il processo a Tom, né dal rendere partecipe Boo Radley – un Robert Duvall alla sua prima memorabile comparsa - dai loro giochi. Sono questi due, di fatto, i diversi del film.
Non esistono freni alla potenza emotiva che possono scatenare i bambini; è in questa indole naturalmente bonaria che risiede un potere capace di sovrastare il logos laddove questo non ha effetto: indicativa, a tal proposito, è la scena della folla di cittadini con fucile in spalla pronti a giustiziare per loro conto il povero Tom, costretti a battere in ritirata non dopo l'aperta opposizione di Atticus, ma a causa delle docili parole di Scout.
In conclusione Il buio oltre la siepe è un film di formazione, fortemente educativo, con una memorabile fotografia bianco/nera di Russell Harlan tra le migliori del decennio, in un periodo in cui si erano già abbastanza affermati i colori.
A sovrastare la comunque ottima regia sobria e lineare di Mulligan si segnalano le indimenticabili interpretazioni: oltre la già citata prova – premiata con l'Oscar - di Gregory Peck, rimasto nei cuori dei fan in giacca, cravatta e occhiali, si ricordano con piacere le strepitose performance dei baby attori, specie Mary Badham e un tenerissimo John Megna, che farà altre comparse in pellicole dell'epoca.
Come non citare poi il lavoro di Horton Foote, anch'egli premiato giustamente con l'Oscar, cui va il merito di aver sceneggiato un romanzo già di successo puntando sulla doppia tematica del razzismo e delle inquietudini infantili, conservando la portata rivoluzionaria e scomoda del contenuto.
Un film poetico, dimesso, quasi crepuscolare nella sua modestia, genuinamente emozionante, conservato nel National Film Registry come "culturalmente, storicamente o esteticamente significativo", cui di sicuro "Il miglio verde" di Darabont deve non poco.
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Recensione a cura di julian - aggiornata al 10/03/2010
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